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Da Treviso ad Atene: riconnettere i fili di un’opposizione politica e sociale in Italia e in Europa

Accennerò appena agli assalti ai rifugiati di Quinto di Treviso e di Casale San Nicola. Essi sono degli episodi (non i primi e probabilmente non gli ultimi) che meritano di essere considerati non solo per le conseguenze materiali prodotte (in primis su quei poveri uomini «trattati come cani, picchiati e insultati» ), ma soprattutto per quel che rappresentano nella attuale narrazione della politica italiana (ed europea). Attraverso il Jobs Act e la “Buona Scuola” il governo Renzi ha completato l’obiettivo perseguito da Mario Monti con la riforma Fornero e la legge sul pareggio di bilancio in Costituzione, ovvero quello di “distruggere la domanda interna”, come lo stesso Monti aveva dichiarato nella sua intervista alla CNN del 2013 . Durante la crisi, le istituzioni e i poteri dello Stato italiano hanno definitivamente dismesso quelle poche lacere vesti di enti “super partes” del conflitto sociale e si sono completamente trasformati in strumenti “privati”, immediati e arbitrari della classe sociale dominante che ha gestito la crisi e dei novelli “despoti” (ieri Berlusconi, oggi Renzi, domani Salvini?); sulle ceneri dello Stato liberale novecentesco si erge la contemporanea democrazia totalitaria, basata su governi “carismatici” e modelli politici leaderistici in cui, va riconosciuto, buona parte della società si riconosce. Una classe politica corrotta e dequalificata, aveva già denunciato Michele Ciliberto qualche anno fa , gestisce un nuovo autoritarismo di massa imperniato sull’esercizio del consenso, attraverso gli immaginari diffusi e conculcati dai media mainstream. Come hanno invece recentemente ricordato Judith Revel e Sandro Mezzadra durante il Festival Internazionale dei Beni Comuni a Chieri, la linea di demarcazione fra “pubblico” e “privato” è diventata impercettibile, a scapito della solidarietà e del concetto di “comune”. In questo contesto che ho sommariamente ricostruito, i partiti del populismo xenofobo e nazionalista (Lega Nord, Fratelli d’Italia, in parte Movimento 5 Stelle, coi loro addentellati come Casa Pound e Forza Nuova) si sono abituati a muoversi perfettamente su un terreno in cui le politiche autoritarie della “terza repubblica” e la crescita dell’individualismo e dell’egoismo sociale stanno creando (sicuramente con importanti, ma rare eccezioni) seri problemi di isolamento sociale alle idee e alle forze che si basano sull’azione collettiva, sul conflitto sociale, sulla solidarietà di classe. Nelle vuote navate di una cattedrale costituzionale ormai svuotata (basti pensare alle attualissime riforme istituzionali), si ingrossa e si moltiplica quindi la voce dei razzisti e dei “fascisti del terzo millennio”. L’aumento costante delle pressioni sociali accelerato anche dalle contraddizioni aperte dal processo di unificazione europea (il cui vero volto di operazione di strozzinaggio internazionale i fatti di Grecia hanno oggi mostrato), danno oggi rinnovato spazio a queste forze, che solo pochi anni fa erano ridotte a relazionarsi con i vari governi, come coloro che, magistralmente rappresentati da Ken Kalfus nel suo romanzo “Il compagno Astapov”, aspettavano la morte di Tolstoj per riuscire ad accaparrarsi qualche briciola del suo testamento.
Gli episodi di Treviso e di Roma Nord, come altri che l’avevano preceduto (assalto al centro rifugiati di Tor Sapienza a Roma nel novembre 2014; caccia all’uomo a Corcolle, sempre Roma, nel settembre 2014), sono sì il prodotto dello sfaldamento sociale e identitario (in termini di appartenenza di classe) del mondo del lavoro autoctono, nel quale però le bande neofasciste e xenofobe spadroneggiano, grazie alle “larghe intese” delle forze filo-austerità e all’inanità delle residue e sempre più assottigliate forze della cosiddetta “sinistra radicale”, e col sostegno ponziopilatesco dei dirigenti del M5S, come testimonia l’intervista a Di Battista del 18 luglio .
Non nutro alcuna fiducia, tanto per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, in eventuali provvedimenti del Governo, che anzi ha dimostrato, in epoca recente, dall’aggressione agli attivisti del Centro Sociale Dordoni di Cremona alle medaglie d’oro assegnate “per errore” agli ufficiali repubblichini, la sua continuità coi governi precedenti in tema di rimozione della memoria della Resistenza e di sostanziale impunità del neofascismo.
Il mero antifascismo e antirazzismo, sebbene condizione necessaria, è però, per quanto scritto all’inizio, non sufficiente. Esso non ci mette al riparo dalle drammatiche conseguenze della macelleria sociale operata nei confronti di un mondo del lavoro ormai profondamente diverso e molto più sfaccettato e (attualmente) debole di quello novecentesco. Distruzione della domanda interna fa rima con austerità, alla quale dobbiamo saper rispondere con nuove rivendicazioni e con un nuovo modello di welfare riappropriandoci, come ha detto Toni Negri sempre nel festival di Chieri, del “comune” (inteso come sostantivo e non come aggettivo) che ci appartiene. Per fare ciò, però, dobbiamo avere chiaro che lottare contro il “nostro” Governo non sarà sufficiente e che oggi ci troviamo di fronte un soggetto – l’Unione Europea e le sue strutture, dall’Eurogruppo alla Commissione, dal Consiglio d’Europa alla BCE – che costituisce il sistema europeo dell’austerità. D’altronde, per tornare al tema iniziale, è lo stesso sistema che blinda i suoi confini e i suoi mari (dal Mediterraneo alle Alpi, dalla Manica ai Carpazi), col terrificante e vergognoso corollario di morti migranti, di pogrom razzisti, di populismo xenofobo che, come è sotto gli occhi di tutti, non riguarda solo l’Italia.
Lotta contro xenofobia, razzismo e neofascismo e lotta contro l’austerità sono quindi aspetti inscindibili, e la dimensione nazionale, sebbene immediata e inevitabile, rischia di essere depotenziante se non si inscrive nel contesto più ampio di un movimento di opposizione politica e sociale a livello europeo, se non anche mediterraneo. Di questo compito urgente non possiamo illuderci si facciano carico le continue riorganizzazioni dei settori della sinistra istituzionale eredi della tradizione del PCI (ex PD, SEL, PRC, ecc.), che, sebbene impegnati in un eterno rimescolamento delle (poche) carte che ormai hanno a disposizione non hanno alcuna intenzione di uscire dalla logica politica che vuole ricercare a tutti i costi una compatibilità fra i nuovi assetti imposti dall’austerità e dalla democrazia totalitaria e le prospettive di liberazione sociale per quel “nuovo proletariato” precario (autoctono, meticcio o immigrato che sia) che proprio dell’austerità è la prima vittima.
In ballo c’è molto e le prospettive sono francamente fosche al momento: la guerra civile in Ucraina, la destabilizzazione in tinta islamista dei Paesi del lato sud del Mediterraneo (Libia, Tunisia, Egitto), ed infine il terribile diktat imposto dall’Eurogruppo a guida germanica alla Grecia di un (alla fine) pavido Tsipras sono inquietanti avvisaglie di un processo politico in cui, nel nome della stabilità e della crescita finanziaria, si destabilizzano non solo società e popolazioni ritenute subalterne ed “inferiori”, ma si fomenta un nuovo nazionalismo che oggi assume i contorni delle contraddizioni franco-italiane a Ventimiglia o britannico-europee sull’immigrazione, oppure della follia ungherese del muro contro l’immigrazione serba, ma che, in un ipotetico quanto probabile peggioramento delle generali condizioni economiche e sociali nel continente europeo – dovute sempre a quella “distruzione della domanda interna” che sembra diventata la nuova religione del mercato – potrebbero non tardare a far deflagrare conflitti molto ben peggiori di quelle attuali.
Ecco, oggi in Italia ci si trova ad una svolta molto grave della nostra vita sociale, politica e culturale, senza avere gli strumenti necessari per capire cosa fare e come farlo. Gli avvenimenti ucraini, greci, nordafricani, ecc. sono rimasti conoscenza solo di pochi “addetti ai lavori” o militanti generosi, come testimonia la insufficiente partecipazione di massa alle manifestazioni o attività di sensibilizzazione che in questi mesi sono state organizzate.
Come ha giustamente scritto la redazione di Effimera qualche giorno fa, l’Europa è in guerra . Non solo una guerra economica “civile” dichiarata dalle élites finanziarie agli abitanti dell’UE, ma anche una guerra “di civiltà” dichiarata di fatto ai Paesi nordafricani e mediorientali, e una guerra di espansione dichiarata a Est contro la Russia attraverso la guerra civile in Ucraina. Una guerra che però si sta già ritorcendo contro la stessa fortezza Europa (come dimostrano i sanguinosi fatti di Parigi) e che potrebbe in breve, medio periodo deflagrare nel cuore stesso dell’UE, qualora la questione greca (come io credo) non dovesse risolversi per il “meglio”.
Conclusione? È sicuramente necessaria quella razionalità e quella profondità di comprensione degli avvenimenti che eviti di farci scivolare dentro una nazionalistica “opposizione anti-tedesca” (pur essendo la Germania la prima protagonista della macelleria sociale europea). Al tempo stesso è però necessario rimettere in moto intelligenza, passione e generosità per riconnettere i fili di un’opposizione politica e sociale all’austerity (e alle recrudescenze razziste e fasciste che ne sono uno dei prodotti) non solo sul piano nazionale, ma quanto meno europeo. Avendo, infine, presente che di fronte ci troviamo (e ci troveremo) un potere oligarchico continentale (e le sue propaggini nazionali) oramai divenuto una perversa commistione di potere pubblico e privato che ha di fatto svuotato, come aveva già denunciato qualche anno fa Colin Crouch, le già traballanti democrazie tradizionali attraverso una prassi politica autoritaria.

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Il carattere dispotico di un tempo storico che va rimesso in sesto

In queste settimane il governo di Matteo Renzi ha intrapreso una serie di iniziative. Ha varato un Jobs Act dedicando solo un’ora a ricevere le organizzazioni sindacali e dichiarando pubblicamente che lui si confronta direttamente coi lavoratori e non con i rappresentanti (magari con un “tweet”). Ha presentato una “riforma” della scuola che docenti, studenti e altri lavoratori del comparto dovrebbero valutare in forma digitale (come fosse un “mi piace” su Facebook). Ancora, ha presentato una manovra economica che va ad aggravare le già penose condizioni dei bilanci locali. Il tutto, ed altro, molto spesso utilizzando lo strumento della “fiducia” per contingentare o eliminare il dibattito parlamentare. Atteggiamenti e metodi che dimostrano quanto, come esposto ne La democrazia dispotica di Ciliberto, questo nuovo dispotismo abbia ancora in comune col vecchio l’arbitrio che si sostituisce alla legge, anzi che si fa esso stesso legge. D’altronde era già Marx che parlava di “democrazia delle illibertà”. Ma forse a noi interessano più gli elementi di novità, di discontinuità col passato, quelli che ci permettono una maggiore comprensione dei tempi che viviamo. Ciò che il berlusconismo ha portato in dote a Renzi è intanto la capacità di trasformare l’uso privatistico (o di lobby) della legge in “senso comune”, in (dis)valore culturale. L’altro elemento di discontinuità col dispotismo classico è il fatto di parlare non più a classi o a movimenti collettivi, ma ad “individui” isolati, senza identità comuni e pronti a schierarsi a destra o a sinistra a seconda delle loro convenienze. I “nuovi despoti” sono oggi in grado, con un segno ovviamente conservatore e/o reazionario, di interpretare i bisogni di affermazione individuale emersi nell’epoca della “crisi dei partiti” (1990-2000) e di fornire delle proposte o delle vie d’uscita.
Ma quali sono gli effetti di questo nuovo dispotismo nella società e nella politica italiana? Sul piano sociale essi possono essere riassunti, secondo l’autore del volume, in questo modo: un forte acuirsi delle diseguaglianze; la riduzione ed il livellamento verso il basso dei redditi popolari; l’impossibilità di pensare una strategia di cambiamento che esca dagli ordini e dalle gerarchie prestabilite. Sul piano politico, invece, si afferma un governo “carismatico” ed un modello politico leaderistico in cui tutta la società (permeata, abbiamo visto, da individualismo ed egoismo) si riconosce, oltre che nelle nuove forme di autoritarismo di massa imperniate sul consenso (alimentato e orchestrato dai mass-media) in una classe politica e parlamentare dequalificata. Sullo sfondo si staglia la crisi strutturale del principio del “pubblico” e della solidarietà come valore comune. Quindi gli uomini sono resi più diseguali e meno liberi, ma – e qui sta l’elemento di novità col passato – col loro consenso.
Il lento smantellamento della Costituzione (peraltro già in passato rimasta spesso lettera morta), non solo sul piano dei valori solidali ed egualitari che contiene, ma anche su quello della struttura costituzionale dello Stato, è quindi l’orizzonte normativo fondamentale del nuovo dispotismo: un Parlamento “asciugato” nei numeri ed assuefatto, una riforma presidenzialista (o di segno analogo) e la dipendenza diretta del potere giudiziario da quello politico sono le “malattie” conclamate della democrazia che il “virus” dispotico sta incubando.

Eppure tutti i fan e gli esponenti del PD potrebbero obiettare: ma come? Noi abbiamo introdotto in Italia un elemento fortemente democratico, ovvero le primarie. Ciliberto sostiene che il PD, della cui genesi ed identità dà un giudizio durissimo, è rimasto esso stesso “vittima” e “carnefice” di quelle tendenze plebiscitarie e carismatiche che dichiaravano di combattere. Di fronte all’allargamento dello scarto fra “governanti e governati” le forze di centro-sinistra avrebbero, secondo lui, dovuto operare in quattro direzioni: in primo luogo una rinnovata analisi di carattere materiale della società italiana e del nuovo dispotismo democratico, e delle trasformazioni sociali e politiche delle quali esso è causa ed effetto; in secondo luogo una riflessione seria ed aperta per uscire dalle vecchie ideologie novecentesche e dai vecchi partiti; ancora, una attenzione adeguata a quella che l’autore chiama la “dimensione dei ‘valori’ dell’agire sociale e politico; infine, un profondissimo rinnovamento dei vecchi gruppi dirigenti.
In particolare, la “centralità dell’individuo”, è intesa da Ciliberto come «nodo teorico e politico da cui occorre muovere per ricostituire nuove forme di comune identità e di solidarietà sociale», ma mantenendo aperta la «critica rigorosa» all’individualismo egoistico di cui è portatore il nuovo dispotismo democratico. Oggi nella società, secondo Ciliberto, esistono individui “nuovi”, con aspettative di vita nuove con le quali occorre misurarsi con forme e metodi nuovi. Insomma, serve un moderno partito imperniato sui “diritti individuali” e su una forte solidarietà sociale.
Per cercare di ristabilire il circuito fra governanti e governati, il PD si è affidato alle “primarie”, le quali hanno però assunta, per Ciliberto, una caratteristica “plebiscitaria” e “carismatica” a causa dell’intrinseca e strutturale fragilità del partito: è venuto sostanzialmente meno il ricco ed articolato tessuto di sezioni, case del popolo, ecc., che hanno costituito la forza prima del PSI e poi del PCI. In questo modo sono venuti meno quei rapporti di comunicazione e mediazione politica fra “dirigenti” e “diretti” che ha favorito l’allargamento del fossato fra politica e società civile, brodo di coltura del nuovo dispotismo democratico. Da ciò sono scaturite, secondo l’autore, le “primarie” come unico mezzo, per il “popolo della sinistra”, di far sentire la propria voce; ma anche queste, se il partito non è forte, strutturato e radicato sul territorio, con strutture organizzative in grado di orientare e sviluppare il dibattito politico, finiscono per diventare dei plebisciti, nei quali si azzuffano i diversi “capi bastone” del partito, i quali arringano le piazze né più né meno come i loro avversari di centro-destra. Ora è venuta meno anche l’unica differenza che, all’epoca in cui Ciliberto scrive La democrazia dispotica, esisteva col centro-destra, ossia la presenza di un “capo carismatico”.
Ciliberto comunque non si arrende al pessimismo: alle tendenze dispotiche, infatti, continua a contrapporsi l’esigenza di partecipazione (secondo lui rappresentata con l’esempio delle primarie, a mio avviso meglio impersonata da vasti movimenti politico-sociali, come per esempio quello referendario per l’acqua pubblica). Si tratta quindi, da una parte, di ricomporre lo scarto fra governanti e governati, combattendo la passività degli individui, di una società civile che deve riappropriarsi delle proprie forze e del proprio “libero arbitrio” per affrancarsi dalla schiavitù nei confronti della politica (come affermano Tocqueville, Marx, Gramsci, ma anche Kant); dall’altra, e al tempo stesso, di ridare sovranità alla politica rispetto alla burocrazia (come auspicato da Weber) e/o alla finanza, una politica che è sì una delle tante attività dell’uomo (come scrive Marx), ma che ne resta una dimensione essenziale, a patto che rinunci alla velleità di “autofondarsi”.
Per Ciliberto ciò equivale a “rimettere in sesto il tempo”, e per questo l’autore formula alcune “modeste proposte” (come le chiama), per certi versi discutibili nei contenuti, ma dall’oggettivo contenuto anti-dispotico: la prima è quella di stabilire rapporti organici fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, ma riaffermando la forza ed il primato della seconda, sebbene attualmente in crisi; la seconda è ripartire dall’analisi della situazione concreta dei cittadini dal punto di vista materiale, cioè dei rapporti di proprietà, dei “rapporti di classe”; in particolare, le diseguaglianze sono il problema prioritario (comprese le sperequazioni a danno dei migranti); qui, secondo Ciliberto, sta l’attualità di Marx; la terza è sviluppare un linguaggio basato su valori anti-dispotici contro il lessico, orale e corporeo, dei media, basato sull’individualismo e sull’impolitica; la quarta è fare in modo che il conflitto torni ad essere l’animatore di ogni società democratica e il “contrafforte” della libertà; l’ultima è costruire vincoli e contrafforti che limitino il potere dell’Esecutivo, mantenendo aperto il conflitto fra eguaglianza e libertà così come fra libertà dei cittadini e potere dello Stato, nel quale il partito politico rimane uno strumento necessario.

Seconda parte di
La democrazia dispotica secondo Michele Ciliberto

04 La democrazia dispotica di Michele Ciliberto 1

 

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Titolo: La democrazia dispotica
Autore: Michele Ciliberto
Editore : Laterza, Roma-Bari, 2011
Prezzo: €. 18,00

ISBN 978-88-420-9464-7

Formato: ePub con DRM – richiede Adobe Digital Editions
Editore: Laterza (collana Ebook Laterza)
Dimensione: 467,9 KB

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Riforma elettorale: Renzi tenta l?intesa con Berlusconi

La metamorfosi della democrazia nelle riflessioni dei classici

Abbiamo vissuto nel nostro Paese, in questi ultimi 3 anni, repentine trasformazioni della situazione politica: dalla caduta del governo Berlusconi alla ascesa e poi caduta del governo “tecnico” di Mario Monti, dall’inaugurazione della politica delle “larghe intese” PD-PDL (con Enrico Letta alla Presidenza del Consiglio) fino al “blitz” del “rottamatore” Renzi, con annesso plebiscito elettorale nel maggio scorso. Tre anni convulsi ed intensi, vissuti fra bonapartismi e tecnocrazia, che stanno mettendo a nudo le precarie condizioni di salute della democrazia italiana. Proprio di queste ultime si occupa Michele Ciliberto nel suo saggio La democrazia dispotica, edito da Laterza nel 2011.
L’autore muove dalla crisi costituzionale della Repubblica: il periodo è quello della crisi del governo Berlusconi, che poi avrebbe portato alla nascita del governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Ciliberto, lungi dal relegare il berlusconismo a fenomeno “provinciale” della politica, ritiene che l’ultimo ventennio non solo si inscriva in un contesto più ampio di crisi del sistema democratico italiano, ma che possegga delle peculiarità e caratteristiche “nuove”, tipiche di quella che viene definita la politica “post-novecentesca”. Nel cercare di individuare questi elementi di novità – e di formulare proposte di via d’uscita dall’attuale stato di crisi della democrazia – l’autore inizia col chiedere aiuto ai “classici” del pensiero politico contemporaneo.
Perché, al contrario di certe frenesie “rottamatrici” contemporanee e nonostante l’ultima moda di tacciare di “gufismo” gli intellettuali critici col nuovo corso renziano, proprio i classici – e solo essi – sporgono oltre il loro tempo storico, acquisendo un valore universale. Fondamentale quindi servirsi delle loro riflessioni, ma facendo attenzione a non leggerli facendo inutili forzature o stabilendo astratte corrispondenze fra i contesti in cui essi hanno scritto e la nostra situazione contemporanea.
Cosa c’è allora di ancora utile nel pensiero dei classici? Ciliberto prova ad elencare alcune idee, e lo fa partendo da Alexis de Tocqueville, che, nel saggio La democrazia in America, vede nell’affermazione della democrazia anche la tendenza degli uomini a chiudersi nella propria dimensione individuale e utilitaristica, delegando al potere esecutivo la funzione di guida degli affari generali, della cosa pubblica. In questo modo essi sono “cittadini” solo quando, periodicamente, si recano alle urne per le elezioni, ma prima e dopo essi sono “individui”, totalmente alieni alla politica. Ed è in questa dinamica che si cela il rischio del dispotismo, basato sul consenso, frutto avvelenato dello stesso sviluppo della democrazia, incentrato sulla progressiva riduzione della politica ad amministrazione e sulla distruzione dei poteri “secondari” (come quello giudiziario), basato sulla disintegrazione del “libero arbitrio” e sulla riduzione dell’autonomia del cittadino, ridotto a servo passivo del potere. Alla crisi dei legami sociali, all’affermazione dell’egoismo utilitaristico ed alla conseguente affermazione del dispotismo democratico come risposta, Tocqueville propone di reagire potenziando le forme della partecipazione attraverso un sistema articolato di associazioni che salvaguardi e valorizzi i diritti nei quali affonda il principio di libertà civile e politica.
Karl Marx, (di cui Ciliberto prende in esame fondamentalmente due testi: la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e la Questione ebraica), pur dando un giudizio diametralmente opposto a quello di Tocqueville sulla democrazia (per lui essa è la vera costituzione del popolo, perfettamente adeguata ai suoi bisogni ed alla sua vita), ne condivide invece l’interpretazione della crisi moderna come rottura dei “legami” sociali. Per Marx, l’uguaglianza politica propagandata dallo Stato moderno nasconde, in realtà, le profonde disuguaglianze sociali esistenti in realtà. Per risolvere questa contraddizione, è necessario superare le diseguaglianze umane, individuando il luogo dove ciò possa avvenire (per Marx, questo luogo sarà prima l’uomo “generico” di Feuerbach, poi i rapporti sociali di produzione capitalistici). Allo stesso tempo, egli fa una forte apologia della democrazia diretta e un’esaltazione delle elezioni come strumento per uscire dalla crisi del mondo moderno-borghese e realizzare la vera emancipazione umana lungo una prospettiva ultrapolitica e ultrastatuale (piena autogestione, estinzione dello Stato, quanto meno per come lo conosciamo noi). La democrazia concepita come dimensione sostanziale della società (e non più come “astrazione”), cancella la contrapposizione fra Stato e società civile, perché essa è il terreno in cui il popolo si autodetermina. A Marx interessa, quindi, rovesciare i termini del rapporto fra politica e uomo, individuando nel secondo il soggetto reale che crea la “costituzione”.
Ciliberto annovera poi Max Weber fra i “nostri contemporanei” innanzitutto per aver formulato il concetto di carismaticità: in un’epoca caratterizzata dalla “politicizzazione di massa”, la politica deve imparare a controllare la forza “ottusa ed autoritaria” della burocrazia, e per farlo deve divenire “carismatica”, cioè poggiare sulle virtù “sacre”, “eroiche”, “esemplari” di un capo. Per Weber, quindi, “negli Stati di massa” il cesarismo è inevitabile, ma accanto al motivo della carismaticità, lo scienziato politico tedesco non rinuncia a porre la centralità del Parlamento, investito di una duplice funzione: da una parte terreno, attraverso la lotta politica, di selezione della classe dirigente (e in particolare dei capi carismatici), dall’altra strumento di controllo del potere burocratico.
Attraverso il concetto di “educazione” delle masse (attraverso non solo la scuola, ma anche istituti sociali e sindacali o provvedimenti legislativi), Benedetto Croce pone invece, secondo Ciliberto, due obiettivi alla politica: rinsanguare le fila dell’aristocrazia (intesa in senso intellettuale) e favorire la maggiore comprensione di massa delle posizioni e delle teorie elaborate dalle élites politiche. Croce è un liberale, ma sa apprezzare la funzione “positiva” che la democrazia ha nel costringere il liberismo a non rinchiudersi nelle “alte vette” delle concezioni del mondo e a scendere sul terreno della concretezza. Infine, egli, pur essendo legato alla classica visione liberale della politica, come invenzione e creazione personale, concede ai partiti, forse perché influenzato da Weber, la funzione di strumenti delle personalità per forgiarsi come capi e perseguire i fini politici ed affermare i valori etici dichiarati.
Come Weber, anche Gramsci coglie la centralità della “carismaticità” nel mondo contemporaneo, ma muovendosi su prospettive diverse. Al capo carismatico borghese va, quindi, sostituito il “moderno principe”, l’intellettuale collettivo rappresentato dal partito politico della classe operaia. Per il dirigente comunista italiano, il capo carismatico “deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità”. Questi soggetti collettivi, composti dai nuovi “intellettuali organici” del moderno proletariato, possono svolgere una funzione di direzione politica solo se entrano in un rapporto vivo con le masse che intendono rappresentare (Ciliberto usa i termini “sentire”, “sapere” e “comprendere”), evitando da una parte il “codismo”, dall’altra il settarismo: infatti, “l’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre ‘comprende’ e specialmente ‘sente’…”. Solo in questo modo il rapporto di rappresentanza non genera la passività delle masse.
Proviamo, quindi, a fare un primo punto: per Ciliberto, l’elemento – ancora di estrema attualità – che accomuna tutti gli autori fin qui esposti, pur nei differenti e divergenti percorsi, idee, prospettive e possibili soluzioni, risiede nella critica al dispotismo democratico di separare gli individui, di renderli politicamente deboli tanto da ridurli (come dice Tocqueville) a “servi”. Anzi, questo isolamento individuale è il brodo di coltura del dispotismo democratico. Senza ricostruire questi legami non è possibile riannodare il filo che lega la triade democrazia-libertà-uguaglianza. Pertanto, la ricostruzione di questi legami è il punto di partenza di ogni posizione politica anti-dispotica.

Prima parte di
La democrazia dispotica secondo Michele Ciliberto

04 La democrazia dispotica di Michele Ciliberto 1

 

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Titolo: La democrazia dispotica
Autore: Michele Ciliberto
Editore : Laterza, Roma-Bari, 2011
Prezzo: €. 18,00

ISBN 978-88-420-9464-7

Formato: ePub con DRM – richiede Adobe Digital Editions
Editore: Laterza (collana Ebook Laterza)
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1977: il tramonto di un’epoca fra movimenti e violenza

Questo articolo vuole introdurre la necessità, sia nella comunità degli storici, sia nell’azione formativa ed informativa verso l’esterno (soprattutto le nuove generazione), di rafforzare la ricerca sullo spaccato di storia italiana contemporanea che nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento fu caratterizzato dalla dissoluzione dei “Gruppi della Nuova Sinistra” (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, ecc.) e dall’emergere del fenomeno di nuova contestazione sociale meglio noto come il Movimento del ’77.

Quest’ultimo si sviluppò in un quadro caratterizzato dalla grave crisi economica interna ed internazionale esplosa con lo shock petrolifero del 1973 e dai durissimi provvedimenti dell’allora governo Andreotti, in particolare quelli che tagliavano i punti di contingenza (Scala Mobile) e bloccavano la contrattazione articolata fra sindacati e aziende. A questi si aggiunsero il decreto Stammati sui tagli alla pubblica amministrazione e la contestatissima circolare Malfatti sull’Università. Anche il travagliato dibattito sulla legge in materia di aborto contribuì, come i provvedimenti succitati, ad alimentare una situazione di forte malcontento, aggravata dalle pesanti ristrutturazioni, in termini di tagli occupazionali, che avvenivano nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro (come si vede, tutti temi che non sono per niente usciti dall’agenda della politica italiana).

Il malcontento crebbe anche a causa delle scelte del Partito Comunista Italiano e del Sindacato: il primo, attraverso la politica delle astensioni rispetto ai provvedimenti governativi, inaugurò la stagione del compromesso storico con la Democrazia Cristiana; il secondo inaugurò la stagione dei sacrifici e della moderazione salariale e rivendicativa.

Far riemergere la memoria su quel periodo significa quindi analizzare tutta la parte dedicata al rapporto fra i movimenti di contestazione che esplosero nel 1977 ed i gruppi della nuova sinistra che si stavano frantumando. In effetti, la storia di Lotta Continua, così come quella di Potere Operaio è stata in una certa misura analizzata, anche se c’è ancora molto lavoro da fare, mentre più ridotta è la produzione sulle altre organizzazioni extraparlamentari. Manca invece un’analisi puntuale proprio sulla fase di dissoluzione di queste esperienze, nonostante l’estesissima quantità di fonti di ricerca sui movimenti e le organizzazioni extraparlamentari degli anni ’70. Generalmente le ricerche si sono occupate di investigare sulle cause e sui processi che hanno portato all’esaurirsi delle esperienze della nuova sinistra, interrogandosi se sia stata la crisi del “partito rivoluzionario” a provocare l’esplosione dei nuovi movimenti o viceversa.

Su quello che la storica Maria Luisa Boccia[1] ha chiamato «movimento degli invisibili» l’interesse storiografico è ancora sostanzialmente agli inizi. Alcuni storici (per esempio Guido Crainz e Marco Grispigni[2])evitano di schiacciare il fenomeno sulla pratica della lotta armata (alla quale è comunque intrecciato), ne sottolineano la nuova composizione sociale (studenti-lavoratori, precari sia della piccola industria, sia del terziario, donne), e culturale, le differenze/divergenze interne (soprattutto fra l’area dell’Autonomia ed il resto del movimento in merito alla questione sull’uso della violenza), il ruolo dello Stato come protagonista della militarizzazione del conflitto sociale in quel periodo, la totale chiusura istituzionale, ed in particolar modo del Partito Comunista, al dialogo col movimento. Alcuni vanno oltre: il ’77 non fu solo l’epilogo del decennio dell’azione politica collettiva aperto dal ’68, ma al tempo stesso fu l’anticipatore di un processo che, anche attraverso profonde innovazioni culturali e di linguaggio (si pensi per esempio agli indiani metropolitani) svelò l’obsolescenza e l’inutilità degli strumenti della politica dei partiti e di quest’ultimi denunciò l’occupazione non solo e non tanto delle istituzioni, quanto della società. Una tesi condivisa anche dalla Boccia, che parla di «canto del cigno» della politica, esemplificato proprio dallo scontro fra il movimento del Settantasette e le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. Quindi, proprio perché questo movimento non fu tanto e solo l’espressione di figure sociali determinate, ma anche portatore di un modo di rappresentare la storia e la società italiana, fenomeni come la centralità data dal movimento al soddisfacimento dei bisogni e desideri delle persone, così come la ricerca della felicità, non vanno intese esclusivamente come provocazioni anti-politiche (si pensi al “diritto al lusso”), ma soprattutto come il tentativo di affermare una politica altra, dentro la quale ridefinire sia il rapporto fra individuo e collettività, sia un nuovo concetto di militanza. Su questo diventa estremamente interessante analizzare il comportamento della redazione del quotidiano “Lotta Continua”, che per il biennio successivo allo scioglimento ricoprì la funzione di organizzatore collettivo delle residue energie individuali che non volevano completamente “sciogliersi” nel movimento. Se in una prima fase il giornale sostenne ed alimentò allo stesso tempo sia la rottura, anche violenta, con la sinistra istituzionale (tanto da essere accusata di essere vicina alle posizioni dell’Autonomia), sia la creatività irridente del movimento, proprio con il crescere della violenza di piazza, e poi con l’escalation terroristica, pian piano si orienta  su un repentino dietro-front, non senza forti lacerazioni al suo interno (in particolare fra la corrente legata ai Circoli e quella legata a Enrico Deaglio e alla redazione di Roma).

L’approfondimento di questa ricerca, per esempio, ci potrebbe permettere di chiarire meglio la complessità del rapporto della sinistra extraparlamentare con la violenza e la lotta armata, un altro nodo “scoperto” della storiografia, superando quella facile e superficiale dicotomia fra chi nega qualsiasi continuità fra la dissoluzione di Lotta Continua e il terrorismo, e chi invece ne afferma la strettissima dipendenza, quasi che ci fosse stato un travaso automatico di adesioni dall’una all’altro. In realtà la situazione è, come al solito, molto più fluida e più complessa, e meriterebbe un maggiore studio ed approfondimento. Lo storico Marco Revelli[3] nega un’ininterrotta continuità fra movimento studentesco, sinistra rivoluzionaria e terrorismo. Egli periodizza in tre parti la storia del rapporto fra movimenti e violenza: una prima parte, durata fino alla strage di Piazza Fontana, in cui la violenza aveva una dimensione “espressiva” (parafrasando De Andrè, ci si limitava all’invettiva); una seconda, a partire proprio dall’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura, in cui, a causa dell’innalzamento delle azioni da parte dei fascisti e della militarizzazione delle piazze da parte della polizia, si teorizza una violenza “difensiva” e si strutturano i servizi d’ordine; una terza fase, in cui il riflusso del movimento lascia campo libero alle organizzazioni armate. Ma se, come scrive Anna Bravo[4], la definizione di anni ’70 come “anni di piombo” può dare conto del dolore e degli spargimenti di sangue, essa «ignora altre facce del movimento del ’77 e quel che rappresentano: sangue risparmiato – le radio libere, l’ala creativa dell’autonomia, il valore dato al gioco, le imprese degli indiani metropolitani, le comunità che si ricreano dopo il disfacimento di quella sessantottina, sono lavoro per la vita. Il che non rende la distruttività e l’eroina meno sopportabili, ma racconta una storia più vera». Ammettere che il ’77 sia stato un acceleratore del cosiddetto “terrorismo movimentista”, riconoscere l’internità e la contiguità dei e delle militanti di gruppi armati come Prima Linea nel movimento non può significare l’esistenza di un rapporto di continuità diretta fra movimento e lotta armata o lo schiacciamento su quest’ultima di esperienze vastissime e complesse come quella dell’Autonomia, e in parte della stessa area politica legata alla rivista Senza Tregua. Alla comprensione del tramonto di un’epoca e del sentire di un’intera generazione corrono in soccorso forse le parole di Luca Rastello[5]: «Avevamo così forte nelle viscere il malessere del mondo agonizzante che se ci fossimo armati di esattezza forse ne avremmo deciso noi le sorti. Ma ci bastava il linguaggio contorto e oscuro delle nostre emozioni».



[1]      M. L. Boccia, Il patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella crisi italiana, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, II, Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2003, pp. 253-282.

[2]      Cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli editore, Roma, 2005, pp. 566-577 e M. Grispigni, 1977, manifesto libri, Roma, 2006.

[3]      Cfr. M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, II, Einaudi, Torino, 1995.

[4]      Cfr. A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Editori Laterza, Bari, 2008, pp. 246-248.

[5]      Cfr. L. Rastello, Piove all’insù, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pag. 155.


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