Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

Profughi: scenari da gossip

Nel periodo natalizio tutti dovrebbero essere più buoni e non cinici come chi ha ideato il reality The Mission da mandare in onda il 4 e l’11 dicembre 2013 su Rai Uno.

Un reality con personaggi dello spettacolo, e non, che vagano nei campi rifugiati in Sud Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo e in Mali, mentre i profughi fanno da comparse.

Gli ideatori dello spettacolo, in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e l’organizzazione non governativa italiana Intersos, affermano di voler trattare la tematica che coinvolge un’umanità in fuga da guerre e carestie con serietà e sobrietà.

Forse non è opportuno usare come scenario per una serata televisiva d’evasione le tragedie di milioni di persone stipate in tende con servizi sanitari insufficienti e nella precarietà igenica.

Un dubbio che è certezza per Andrea Casale che ha promosso una raccolta firme su Change.org e ha trovato nelle parole di Christopher Hein, direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati), e in quelle di Guido Barbera, presidente del Cipsi (coordinamento che unisce oltre 40 associazioni di solidarietà internazionale) un sicuro consenso.

A difesa di tale scelta si evidenzia l’opportunità di utilizzare un programma di prima serata per ampliare la schiera di telespettatori sensibilizzati a questo perenne dramma umanitario, rendendo proficuo il periodo della raccolta fondi delle organizzazioni umanitarie.

Una scelta che potrebbe però anche avere un effetto dannoso alle donazioni con uno spettacolo umiliante e con personaggi che avrebbero delle difficoltà a rinunciare all’aria condizionata e a bevande dissetanti in un habitat e con un clima ostile.

È forse a seguito delle numerose critiche che la Vigilanza Rai ha posto, chiedendo la visione preventiva, una sorta di censura sul reality.

I campi profughi scelti come set televisivo non sono certo tra i più tranquilli, ma non sono neanche quelli coinvolti nel progetto dell’IKEA Foundation per Refugee Shelter. L’Ikea ha realizzato delle unità alloggiative temporanee in sostituzione delle tende per i campi in Etiopia, Libano ed Iraq.

La componibilità dei Refugee Housing Unit permette la sostituzione dei pannelli danneggiati, offrendo una maggior durata del manufatto, contrariamente a quanto accade con una tenda danneggiata che deve essere interamente sostituita.

Ben differenti i riflettori che i media hanno puntato sull’esperienza del sudafricano Julian Hewitt e della sua famiglia nell’aver trascorso il mese di agosto nella baraccopoli di Pretoria. Un esperimento “sociale” che ha portato i coniugi Hewitt e le due loro figlie a vivere un mese nello slum dove ha la residenza la loro domestica africana.

Una famiglia che ha scelto, a differenza delle migliaia di persone che non hanno potuto decidere, di vivere in un’unica stanza e dividere la latrina con altre famiglie.

I Hewitt hanno permutato per un mese la loro comoda residenza in un compound vigilato per una baracca in agosto, un periodo invernale per l’emisfero meridionale, alla ricerca dell’empatia con la stragrande maggioranza dei sudafricani che vivono al di sotto della soglia di povertà, con uno stipendio giornaliero che in gran parte si dissolve per i biglietti del trasporto pubblico.

Un’esperienza importante per una famiglia bianca della classe media quella di vivere in una baracca nello slum di Mamelodi e poi raccontarne nel Blog che hanno aperto e, chissà, forse diventerà una moda dei benestanti sudafricani che non si limitano alla beneficenza.

A Vienna Ute Bock non va a vivere sotto i ponti o nei cantieri con i migrati, ma li accoglie nei settanta appartamenti che riesce a gestire con una piccola squadra di volontari, ma questo non fa notizia, mentre in Kenya ci si appresta a rimpatriare più di mezzo milione di rifugiati somali entro i prossimi tre anni nel loro paese d’origine, a tutt’oggi insicuro e con un governo precario.

Una proposta del governo keniota a quello somalo e all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati per alleggerire i due campi d Dadaab e Kakuma, ingovernabili e altrettanto insicuri, come scelta volontaria.

05 Bei Gesti Profughi in Tv e Ikea nei campi

Parigi: I contrasti di una città

Ogni città vive di forti contrasti, ma in Parigi sono insiti anche nell’offerta alimentare, passando dai supermercati ai negozi di ricercatezze, dagli ortaggi nostrani a quelli esotici, dall’aglio e cipolla alle spezie mediorientali e asiatiche.

Nelle boucherie si trovano carni di ogni tipo e macellate secondo le diverse culture, nelle pâtisserie si trovano croissant dolci e salati sino alla ricercata pasticceria, mentre nelle boulangerie si trova solo la baguette e raramente trovano spazio altri tipi di pane.

La Francia è ricca di varie prodotti caseari come l’Italia, tanto che in altri tempi da i due paesi si alzava un lamentazione sull’incapacità di governare un popolo con tanti tipi di formaggio, da quelli delicati, insipidi, a quelli dai forti sapori, passando per quelli alle erbe caratterizzati dall’aglio.

La ristorazione propone una variegata scelta gastronomica dalla cucina autoctona alla nouvelle cuisine, dai cibi etnici alla cucina minimalista, da quelli internazionali alle brasserie, e poi i ristoranti, i bistro, bar, diversi da quelli italiani, oltre ai locali angusti dove ci si può imbattere in curiosità culinarie e magari rimanere delusi.

Contrasti che rispecchiano la differenza che intercorre tra due dei simboli della pasticceria francese, e onorati a Parigi, quali sono le Madeleine e i Macaron.

La semplicità delle Madeleine, piccoli dolcetti soffici caratterizzati da una forma a conchiglia, simili per sapore a quello del plumcake, caratterizzate da un aroma di burro e limone più pronunciato sfidano i ricercati Macaron, nominalmente ispirati al dialettale “maccarone” italiano, hanno una preparazione più elaborata su una base di due pezzi a cupola di meringhe, farina di mandorle e zucchero a velo e farcito con crema ganache, marmellata o creme varie e richiusi da due gusci.

Il nome della Madeleine si fa risalire alla pasticciera Madeleine Paulmier (XIX secolo) o forse alla cuoca Madeleine Paulmier vissuta nel XVIII secolo che grazie a Marcel Proust hanno conquistato fama nella sua À la recherche du temps perdu. Nel 2006 le Madeleine vennero scelte per rappresentare la Francia nell’iniziativa Café Europe, indetta dall’Unione Europea durante la presidenza austriaca nel Giorno europeo.

Questi contrasti gastronomici rispecchiano quelli sociali in una città dalla vita cara che ha una schiera di anziani che sopravvivono e numerosi clochard che si ritagliano un angolo di ricovero, che siano dei cartoni con delle coperte gettate sopra o delle tende poste nelle rientranze architettoniche dietro il nuovo Operà della Bastiglia.

Una nuova indigenza che rivela una Parigi in difficoltà e che utilizza i bains-douches, i bagni e le docce pubbliche, non solo dai senza fissa dimora, ma anche da chi vive in luoghi difficilmente definibili appartamenti, spesso sprovvisti d’acqua corrente e il bagno sul corridoio, scegliendo di mangiare nelle mense perché lo stipendio non basta per il vitto e l’alloggio.

Una nuova povertà che coinvolge non solo i migranti ma ogni persona che soffre di esclusione e può trovare l’assistenza di associazioni come Une chorba pour tous e L’un est l’autre che fornisce un alloggio individuale e di gruppo, oltre un pasto caldo gratuito ogni sera e pacchi di cibo due volte a settimana per i bisognosi senza discriminazioni di provenienza geografica e culturale, anche a chi è sfornito dei documenti (i sans-papiers).

L’emarginazione degli indigenti entra di diritto anche nelle elezioni municipali del 2014 con l’espulsione dei rom che “molestano” la città, con il loro non volersi integrare, continuando a scippare i turisti. Un provvedimento del ministro dell’Interno francese Manuel Valls che vuol smorzare i toni della candidata di destra, Nathalie Kosciusko-Morizet, e agevolare la strada alla candidata socialista Anne Hidalgo, in una sfida al femminile del tutto inedita nella Ville Lumière, evitandogli di apparire una donna fredda e calcolatrice.

Espulsioni che si trasformano in deportazioni quando la polizia ferma un pulmino scolastico per allontanare una quindicenne kosovara Leonarda e la sua famiglia dalla Francia.

Una severa applicazione della legge che ha inflitto la stessa sorte al diciannovenne armeno Khatchik, diventato il vessillo del ministro socialista Manuel Valls sino a superare ogni intransigenza gollista, portando imbarazzo all’Elyseo e scatenando l’indignazione studentesca, ma provocando il plauso dell’opinione pubblica.

Nella competizione per la poltrona di sindaco di Parigi si inserisce di prepotenza la destra di Marie Le Pen, gassata dalla vittoria conseguita il 13 ottobre nelle elezioni a Brignoles, con un sintetico programma basato sull’avversione a questa Europa e nel fronteggiare ogni migrazione. Avere non uno, ma due “nemici” rende emotivamente sensibile una cittadinanza alle prese con i quotidiani conti della spesa.

È dove non brillano le luci di Parigi che un’umanità prostrata dalla crisi e quella cronicamente povera vive cercando, alla chiusura dei mercati, nei cassonetti la merce in scadenza.

La Fraternitè Egalitè Libertè sono andate in pensione per essere sostituite con la Légalité.

(3 continua)

Dello stesso argomento:

Parigi: La frenesia delle luci

Roma Parigi: Andata e Ritorno

I grattacieli davanti Greenwich

Siria: Dopo le Minacce Volano i buoni propositi

È orribile l’atroce morte inflitta a donne e bambini attraverso l’uso di gas nervino o sarin che possa essere, ma non si può ritenere meno orrendo rimanere vittima di missili lanciati su scuole e ospedali. Certo i missili sono un’arma convenzionale, i gas sono un’arma di distruzione di massa, ma utilizzare indiscriminatamente le armi è comunque un crimine contro l’umanità. Un concetto ribadito lapalissianamente anche da Ian Buruma, nell’articolo La moralità delle bombe su La Repubblica del 3 settembre, e ribadita da Adriano Sofri il giorno successivo sullo stesso quotidiano, perché una barbarie è una barbarie, quali siano i mezzi con la quale viene perpetrata, essa rimane un crimine verso le popolazioni civili coinvolte, loro malgrado, in uno scontro d’interessi e di ideologie.

Morire per una pallottola alla nuca o in pieno petto non può essere diverso dall’essere uccisi dal rilascio di armi biologiche o per un colpo di machete.

Il cinismo di questa guerra è ben esplicato dalle ipotesi sugli autori di tanta atrocità nel liberare il gas in una zona abitata da oppositori o sostenitori di Bashar al-Assad, per un machiavellico ragionamento che si spinge a teorizzare un eccidio per mano di amici per far ricadere la colpa sui nemici.

I dubbi dilaniano Obama e il suo Nobel per la Pace, ma anche la sfida che l’Occidente ha intrapreso per ostacolare la conquista dell’anima dei siriani da parte dei jadeisti è motivo di cautela per “punire” la deplorevole azione di Bashar al-Assad senza spodestarlo dal potere.

Solo gli oppositori di Bashar al-Assad vogliono la sua testa, mentre tutti i paesi cosiddetti amici della Siria, che siano favorevoli o no al regime instaurato dal clan alawita, sono interessati che rimanga alla guida per un cambiamento morbidamente guidato, per evitare il caos terroristico iracheno e libico.

Il G20 di San Pietroburgo non ha portato alcun contributo nel trovare una via di dialogo tra schieramenti, né tanto meno a fissare la data per la conferenza di pace denominata Ginevra 2, mentre la Siria ammette di possedere un arsenale chimico e promette di smaltirlo entro un anno, ma è come avverrà lo smaltimento che potrebbe preoccupare.

Intanto la Russia ha le sue proposte per il controllo delle armi chimiche e al-Assad, attendendo le sue ragionevoli condizioni per dialogare, invia all’Onu in un documento di 13 pagine in arabo il primo inventario sui propri arsenali.

Sono solo parole più che speranze coltivate nella 68° sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Piccoli passi come l’ammissione da parte del leader iraniano Hassan Rohani aprendo al dialogo sul nucleare e differenziandosi dalle posizioni negazioniste del suo predecessore Ahmadinejad sulla Shoah, dichiarando che: «È stato un grande crimine compiuto dai nazisti sugli ebrei».

Questi sono dei piccoli gesti, ma i risultati potranno venire solo con la collaborazione dei responsabili della politica estera statunitense Kerry e russo Lavrov, appoggiati dalla leadership cinese, nel guidare i cambiamenti in Siria ed evitare che cada nelle mani dei jadeisti e qaedisti.

L’approvazione della Risoluzione sulla situazione siriana ha permesso all’Onu e alla diplomazia di tornare a svolgere un ruolo di protagonista, ma che disgiunge i principi dalle possibili azioni, senza imputare a nessuno l’uso delle armi chimiche. Per ora la Siria ha reso inutilizzabili gli impianti per la loro produzione, ora l’Opac (OPCW), l’Organizzazione dedita allo smantellamento delle armi chimiche alla quale è assegnato il Nobel per la Pace 2013, avrà il compito più impegnativo: quello della distruzione dell’armamentario chimico siriano.

Un passo, in attesa del nuovo appuntamento per Ginevra 2 fissato per il 23 e 24 novembre,, ma non basta indire una conferenza di pace, è necessaria l’adesione e la partecipazione deibelligeranti che ancora non si sono accettati come tali. Se lo schieramento governativo è unico e monolitico, non si può dire lo stesso dell’opposizione frammentata e divisa, spesso in disaccordo tra quella armata e quella politica. Anche il Consiglio nazionale siriano, forse la componente più rappresentativa dell’opposizione non riesce a decidere se partecipare o disertare la conferenza, mentre chi vuol partecipare non è ritenuto rappresentativo di una qualsiasi posizione.

La Turchia è sempre più preoccupata per la crescente influenza dei gruppi qadeisti e l’Arabia saudita, con la sua posizione che non coniuga le parole con le pretese, rifiuta il seggio biennale al consiglio di sicurezza dell’Onu per protestare sulle recenti decisioni per risolvere il conflitto siriano e per la situazione palestinese, quando anche se con lentezza si procede a definire un iter per la convivenza israeliano palestinese.

Intanto la situazione si aggrava non solo per la quotidiana distruzione di vite e edifici, ma anche per i primi casi di polio, in un conflitto che continua a sconquassare la Siria raccontata più dai video sgranati dei telefonini che dai fotoreporter.

Nonostante le incertezze e le mancate adesioni alla conferenza, sarebbe opportuno, dopo lo sfoggiare di tanti buoni intenti, dare corpo alle parole e non continuare nel gioco delle parti: mi si nota di più se ci vado o se non ci vado?

 

Qualcosa di più:

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Ue divisa sulla Siria: interessi di conflitto

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Sotterfugi poco nobili

Anche se il Nobel per la Pace 2013 non è andato a Malala, è confortante pensare che molti bambini siriani potranno avere un futuro grazie all’operato in Siria dell’Opac (OPCW), l’Organizzazione dedita allo smantellamento delle armi chimiche, ma è un altro Nobel sulla fiducia e mai come ora è utile un’azione concreta sullo smantellamento dell’armamentario chimico siriano.

Sarebbe stata una buona notizia l’assegnazione del Nobel a Malala, ma è andata diversamente e come per il 2012 è un’organizzazione che dovrebbe simboleggiare i principi che hanno spinto Alfred Nobel ad istituire tale premio per la Pace.

A Malala che si è ribellata all’intolleranza talebana, opponendo all’imposizione di una società oscurantista una voglia di conoscenza, è andato comunque il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, istituito dall’Unione europea nel 1988, per il suo coraggio nel sostenere il diritto di tutti i bambini a un’equa istruzione.

Nel 2012 l’Europa ha devoluto il denaro del premio Nobel al progetto Children of Peace per i bambini vittime di guerre, coinvolgendo varie organizzazioni (Unicef, Save the Children, Norwegian Refugee Council, Unhcr e Acted), ma probabilmente questa volta ne beneficerà direttamente l’Opac per finanziare la sua costosa attività di bonifica, vista la carenza di fondi in cui versano le agenzie affiliate all’Onu.

Nel 2005 l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), insieme al suo direttore Mohamed ElBaradei, ricevette il Nobel, ma era per la sua attività cinquantennale dedita alla promozione dell’utilizzo pacifico dell’energia nucleare e di impedirne l’utilizzo per scopi militari.

Agenzie non governative e istituzioni transnazionali agiscono per evidenziare la capacità di promuovere azioni per la Pace anche in forma organizzata, burocratica, e non è solo grazie al solitario e caparbio impegno di donne e uomini che si protendono verso il prossimo in difficoltà.

Tra queste donne e uomini è difficile collocare anche Edward Snowden, un altro dei candidati al Nobel di questo anno, definendolo un eroe contemporaneo per le sue rivelazioni di ex analista del Nsa sull’attività dell’agenzia di sicurezza statunitense. Una personalità complessa quella di Snowden, una sorta di idealista alla ricerca di attenzione, magari conseguenza di un’infanzia con carenza d’affetto, comunque sia non ha salvato alcuna esistenza, ha solo ammonito l’umanità della presenza invasiva delle agenzie spionistiche nella loro vita.

Un promemoria per chi dimentica che siamo tutti potenziali “vittime” della curiosità altrui. Una curiosità paranoica che ci mette tutti sotto il microscopio spionistico non solo statunitense, ma virtualmente di ogni agenzia d’intelligence di ogni nazione che ha fondi e strumenti, come dimostra il programma britannico Tempora che compete per efficienza con quello statunitense di Prisma.

Rivelazioni che hanno scandalizzato, mettendo in discussione gli equilibri tra alleati, per un’attività spionistica dedita non solo alla prevenzione degli atti terroristici, ma che spesso sconfina nell’ambito finanziario.

Nessuno lo dice, tutti lo fanno, ma quello che irrita i governi è l’essere oggetto d’intercettazioni a livelli governativi dagli stessi amici, trasformando il monitoraggio delle comunicazioni in sinonimo di spionaggio, ma è umanamente possibile ascoltare settantamilioni di telefonate francesi raccolte in un mese o è più fattibile una verifica tra i numeri per individuare gli interlocutori “segnalati”?

Il caso Snowden è molto rumore per nulla, parafrasando Shakespeare, o dimostra semplicemente che gli amici sanno ascoltare, quanto gli avversari. Rivelazioni che hanno turbato, mettendo in discussione gli equilibri tra alleati. Una mancanza di fiducia tra alleati non può entusiasmare, ma pone dei dubbi sulla capacità di affrontare uniti una qualsiasi crisi.

Piccoli tradimenti di fiducia che rende fragile il futuro cooperativo tra agenzie d’informazione delle varie nazioni dell’Occidente per fronteggiare gli atti terroristici, ma anche la crescente influenza cinese e degli altri paesi del Brics (Brasile, Russia, Cina e Sud Africa), come dimostra lo sfrugugliare della Nsa negli affari petroliferi brasiliani e magari in chi dei cosiddetti alleati intrattiene rapporti d’affari con governi ritenuti un pericolo per la democrazia.

Se poteva essere incomprensibile un Nobel a Kissinger che comunque con la sua irruenza diplomatica qualcosa a fatto per gli equilibri mondiali, Edward Snowden è stato solo una fonte giornalistica di ciò che era ovvio. I media con Snowden hanno avuto una nuova storia denominata Datagate, per una ulteriore conferma dell’esistenza delle spie, ma ha anche messo in crisi i negoziati sul libero commercio tra l’Unione europea e gli Stati uniti, già in difficoltà per l’opposizione francese nell’abito della difesa della cultura.

Che tutti spiano tutti è nella natura infida dei governi come dimostrano i gadget che i russi hanno distribuito ai partecipanti dei G8 di San Pietroburgo: pendrive o optional per cellulari modificati per carpire segreti. Infidi aggeggi che ci scaraventano nei decenni della Guerra Fredda romanzata da Flemming e Le Carre.

Lo spiare i competitor commerciali e le organizzazioni terroristiche, igoverni criminali e le industrie d’armamenti, alla fine è solo una questione di business.

Una pericolosa eredità

Lo scrittore egiziano Ahmed Mourad con Polvere di diamante, sua seconda prova letteraria, affronta non solo il complesso rapporto tra egiziani musulmani e ebrei, ma soprattutto l’idea di giustizia e la vita stessa in una Cairo dai forti contrasti, sullo sfondo di una sessantina d’anni di storia, dalla presidenza Mohammed Naguib degli anni ’50 ai nostri giorni, con l’ingombrante presenza dei militari.

Una presenza quella dei militari che ha influenzato la quotidianità dell’Egitto dove il golpe nasseriano ha reso controllore di chi doveva essere accettato come membro della comunità e chi era invece bollato come traditore e nemico.

I governanti che si sono succeduti dopo Mohammed Naguib hanno operato nella paranoia dei nemici che tramano nell’ombra, revocando le libertà personali per consolidare il potere, ma dietro ai diversi personaggi è sempre e solo l’esercito a tirare le fila, imponendo alle persone “a udire un solo tipo di melodia …”, come nel Caffè dei misteri di Naghib Mahfuz, dove il narratore che ha una sua opinione, osservando gli eventi, lascia che tutto inevitabilmente prosegua come deve continuare. Gli eventi scorrono fuori dal caffè, nelle vie cairote tra le tragiche scelte nazionalistiche e la ricerca di ruolo guida per l’Egitto nel mondo arabo.

Leggendo Ahmed Mourad si percepisce l’idea di narrazione fortemente legata ad un luogo che, come nei libri di Naghib Mahfuz e Ala Al Aswani, .può essere un caffè o un palazzo, magari un intero quartiere dove si intrecciano le vite delle persone, ma quello che fa Mourad rende consequenziali le azioni dei singoli sull’esistenza di molti altri.

In una piazza i giovani si incontrano, ragazzi e ragazze si lanciano messaggi come avveniva nella provincia italiana, non solo meridionale, di trenta/quarant’anni fa, e si affacciano le abitazioni di un politico affarista, di un alto funzionario di polizia e il palazzo che ha visto giorni più gloriosi, ma riesce ancora a custodire la vita degli inquilini; è la morte di uno in particolare che fa entrare nel vivo della storia dove il mistero della Polvere di diamante comincia a dipanarsi.

Il padre paraplegico di Taha viene massacrato in casa, un’immobilità che lo costringeva su di una sedia a rotelle per una malattia, che passando le giornate tra i ricordi di ex insegnante e l’hitchcockiano scrutare dalla finestra la vita dei vicini. Spiare la vita della piazza con il binocolo, insinuandosi nei vizi e anche nelle scorrettezze dei frequentatori, forse è la causa del suo assassinio o forse bisogna indagare nel suo passato, di certo la Polizia non trova alcun indizio, ormai impegnata a contenere le manifestazioni e proteggere i corrotti potenti, più che affermare la legalità.

Taha, nel rinvenire tra le sue carte un libricino, scopre un padre che ignorava e che involontariamente gli lascia una scomoda eredità.

Tutta la storia è una pennellata sulla società, con le sue ipocrisie, che non ha subito forti cambiamenti in decenni di repubblica, il grosso lo aveva fatto la monarchia guardando al futuro, ma trova dei rallentamenti nelle descrizioni stereotipate dei personaggi femminili.

Le problematiche sociali e le prospettive politiche fanno capolino in un crescente senso d’insicurezza che alcuni personaggi del libro esternano per l’inattività della Polizia impegnata più a eludere possibili accuse di infrangere i diritti che difendere i cittadini.

La matassa del mistero sarà sbrogliata, ognuno per suo conto, da Taha e Sara, l’affascinante vicina di casa e blogger a caccia d’inchieste sulla moralità, così tra i veleni e le oscurità della polvere di diamante la corruzione s’insinua lentamente nella vita egiziana come una letale serpe, rivelando il danno causato solo quando è troppo tardi.

Attraverso il racconto si tratteggia l’Egitto alle soglie della destituzione di Mubarak e, nel “vecchio” come nel nuovo, le prospettive appaiono pessimistiche per l’autore. I “potenti”, dopo migliaia d’anni, hanno acquisito una capacità natatoria che gli permetterà di rimanere a galla in ogni marea di cambiamento. Nell’Egitto descritto da Ahmed Mourad non basterà far scomparirne uno o due prepotenti: in qualsiasi situazione politica, sono numerosi e altri sono in attesa di prenderne il posto, in un paese musulmano che non ha archiviato le sue ritualità scaramantiche dai Faraoni in poi e che è in cerca una via laica di democrazia.

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04 Libri Ahmed Mourad Una pericolosa ereditàTitolo: Polvere di diamante

Titolo originale: Tourab al-mass

Autore: Ahmed Mourad

Traduttore: Barbara Teresi

Editore: Marsilio (Farfalle / I GIALLI), 2013

Prezzo: € 18,50

Pagg.: 384

Disponibile anche in eBook a € 13,99

ISBN 978-88-317-1561-4

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