Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

Aica: Una risorsa per la Cultura

L’Italia non ha mai particolarmente brillato nell’utilizzare i fondi europei per la cultura, come dimostrano gli scarsi investimenti richiesti con l’atteggiamento supponente verso gli altri paesi per il suo ricco passato artistico.

L’annoverare nella propria storia secoli d’arte e letteratura sembra che esenti i nostri governi di incrementare l’impegno nel conservare un posto di rilievo nel panorama culturale mondiale.

Vivere di rendita significa anche finire nell’indigenza a forza di consumare il patrimonio, un’Italia simile a dei letterati che non praticano la lettura e si ritrovano alla lunga analfabeti, dedicandosi solo all’eccellenza vinicola o dell’alta moda, ignorando la ricchezza della parola e dell’immagine, visto che nella musica contiamo ancora su Verdi e Donizetti.

Da questo scenario poco gratificante non si discosta ne anche L’Aica italiana, unica associazione di critica dell’arte riconosciuta internazionalmente, che continua a vivere nel torpore dei gloriosi anni ’60 della presidenza Argan, a differenza degli altri membri.

La sede centrale dell’Aica è a Parigi ed è affiliata all’Unesco come organizzazione non governativa (Ong) dal 1940, ed è riconosciuta e accettata presso i Musei e le Istituzioni artistiche di tutto il Mondo, ma sono anni che la sezione italiana ha intrapreso una strada in discesa ed è solo grazie all’impegno di poche persone come l’attuale presidente Cecilia Casorati che l’Aica non si è dissolta nel nulla in capziose discussioni sul ruolo critico – curatore e figurazione – astrazione, oltre a quello della pittura – fotografia.

Partendo dal semplice assioma che entrambi possono essere intesi come educatori, il dibattito non tiene conto del compito svolto dal curatore come critico, con il suo porre l’arte alle persone. Mentre il critico potrebbe preferire non scendere nell’arena dell’esposizione, ma limitarsi a un’attività di osservatore, diventando un tramite tra l’autore e il “lettore” dell’opera, cercando di far comprendere le contrapposizioni tra tematiche e mezzi.

Il ruolo del critico “militante” che, con il suo visitare gli studi, arricchiva il panorama con proficui confronti, sembra essere tramontato con il passare degli anni sulle spalle degli ex giovani critici, per essere soppiantato da quello del presenzialismo statico. Non più alla ricerca di nuove proposte, ma in attesa che pittori, scultori, fotografi e installatori si propongano, magari sotto le egide di una galleria.

L’arte in Italia è sempre stata dilaniata da sterili discussioni e latenti invidie non solo tra critici, ma soprattutto tra artisti, che hanno agevolato il predominio di altri paesi nel panorama mondiale, sempre più monopolizzato dalla presenza artistica cinese.

La crisi della cultura in Italia si deve anche dalle preferenze governative nel potenziare l’Aereonautica militare con l’acquisto degli aerei F35 dalla dubbia affidabilità e dalla provata necessità.

Una crisi che ha colpito anche l’Aica, ma ora il letargo sembra concludersi con l’annuncio del rinnovo delle cariche che avverrà a settembre con la presentazione di tre candidature per la carica di presidente (Renato Barilli, Raffaele Gavarro, Anna Maria Nassisi), ognuna con un differente approccio alla critica dell’arte, ma con l’unica intenzione di porre l’Aica come punto di riferimento per la conoscenza del contemporaneo, senza mettersi in concorrenza con l’associazione degli storici dell’arte.

L’Aica, oltre a promuovere e difendere gli interessi di categoria, si dovrebbe impegnare nella conoscenza delle arti visive e dell’estetica di ogni cultura anche tramite il sito non proprio all’altezza di quello delle altre sezioni, come reca nello statuto, attraverso una rete nazionale e internazionale dei suoi soci.

Un traguardo pieno d’insidie e difficoltà, non ultimo quello di riconquistare il ruolo d’interlocutore affidabile per le istituzioni, da qualche tempo occupato dalle gallerie private poco inclini a proposte fuori dai loro interessi non solo economici, perché l’Aica ritorni a essere una garanzia per l’evoluzione dell’arte.

Ogni sezione dell’Aica si differenzia dalle sue consorelle nel rapportarsi con l’arte e la sua quotidianità, ma ogni ambito ha un suo posto nella cultura del paese, soprattutto quando sceglie di essere una voce critica verso le politiche governative non solo nell’ambito artistico.

Il futuro per l’Aica ha le fattezze dell’Europa nell’interloquire in modo ufficiale con tutte le rappresentanze dell’associazione, proponendo delle iniziative in partnership con le istituzioni e gli enti preposti alla promozione della cultura italiana come la Società Dante Alighieri, per accedere ai finanziamenti della Ue.

 

Monsignor Pussino e i nordici a Ponte Milvio

Si deve sicuramente a Nicolas Poussin se Ponte Milvio e la campagna circostante acquistarono notorietà nell’Europa del ‘600, diventando luogo di soggiorno per artisti e curiosi, con benefici economici per gli abitanti della zona. Lo sconforto iniziale che prese l’artista francese per un ambiente ostile si trasformò radicalmente in ammirazione per ciò che lo circondava e per la semplicità e generosità di quella gente. Un affetto ricambiato dai pontemollesi che lo adottarono come Sor Pussino. La popolarità di quei luoghi crebbe anche in virtù delle passeggiate che Poussin abitualmente faceva in compagnia di artisti: le famose “promenade” che lo portavano da Ponte Milvio a via Tor di Quinto e da Saxa Rubra fino al Casale del Pussino (come veniva ribattezzato dai pontemollesi, oggi Castello della Crescenza), passeggiate durante le quali incontrava butteri e contadini, bufalari e pecorai che gli mostravano considerazione.

Contemporanei di Poussin nel frequentare Ponte Milvio, ma in modo sporadico, furono gli artisti raccolti sotto l’appellativo di Bambocciani. Una banda chiassosa di pittori fiamminghi, olandesi e italiani che prese dimora in via Margutta, conferendole quel ruolo di strada degli artisti che tuttora mantiene.

Joseph Mallord William Turner raffigurò  Ponte Milvio in una serie di tele e disegni dedicati alla Campagna romana, mentre dieci anni dopo celebre è il dipinto di Camille Corot (1828), attualmente custodito al Louvre, dove è raffigurato Ponte Milvio.

Con il passare degli anni “Ponte Mollo” divenne il luogo di incontro degli artisti che provenivano dal nord: una vera e propria istituzione che, nel primo ventennio dell’ottocento, si trasformò nel circolo conosciuto come Pontemolle Gesellschaft.

Artisti importanti come Thorvaldsen, Cornelius, Andersen, Reinhart e Millin diventarono una congrega di buontemponi, che riservavano ai nuovi arrivati un caloroso benvenuto con gaie cantate, che terminavano all’osteria con un bicchiere di vino.

Avevano una loro insegna sociale: una fojetta (bicchiere) vuota col motto Praeses Populusque Pontemollicus e un Bajocco, una grossa medaglia con nastro azzurro, una sorta di “decorazione” in segno della ammissione al caratteristico sodalizio. Un senso di appartenenza al quale tenevano molto: Thorvaldsen scelse addirittura di sfoggiare solo questa goliardica “onorificenza” dell’Ordine del Bajoccoda, nonostante ne avesse ricevute molte altre in Europa, durante le cerimonie di Corte quando tornò nella sua Copenhaghen.

Dal Seicento di Nicolas Poussin, che visse in una sorta di Arcadia destinata a committenti facoltosi, si passa al Settecento che utilizzò le osterie di Ponte Milvio come luogo espositivo e di promozione del lavoro dei novelli pittori e di illustri artisti.

Il gruppo del “XXV della Campagna Romana”, formato da artisti italiani, incarnò, sino ai primi anni del ‘900, la tradizione della “Società di Ponte Mollo”(Pontemolle Gesellschaft).

Ancor oggi Ponte Milvio è un luogo d’incontro culturale grazie alla disponibilità dell’Amministrazione Capitolina: nella Torretta, infatti, sono da tempo ospitate numerose iniziative artistiche, esposizioni di arte contemporanea aperte ad ogni ambito espressivo, mentre alcuni artisti preferiscono mostrare in modo informale le proprie opere nel vicino mercato.

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Ponte Milvio
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Ponte Milvio Joseph Mallord William Turner, The Roman Campagna with the River Tiber and Ponte Molle in the Distance, 1819

 

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Corot the-promenade-du-poussin-roman-campagna

 

Adriano Di Giacomo: Gli spazi dell’entusiasmo

Il panorama artistico e culturale romano con Adriano Di Giacomo ha perso un esponente inventivo e laborioso, come l’ha perso l’Umbria e le Marche dove spesso proponeva e realizzava iniziative con la critica e storica dell’arte Anna Cocchetti sua moglie, aperto alla conoscenza e alla valorizzazione dell’espressione artistica.

Per chi lo conosceva era facile vedere in lui l’ottimismo e la gioiosità, con il suo vezzeggiare la cadenza marchigiana che nascondeva le sue origini lucane, meno condivisi nei suoi lavori fortemente strutturalizzati in geometrie spigolose rivolte alla metropoli, in un susseguirsi di bunker e barriere inneggianti all’incomunicabilità urbana. Forme “modellate” sulle superfici pittoriche, realizzazione di spazi su piani scivolosi che facilmente conducono alla luce o all’oscurità, espressione di una chiusura pessimistica, aperti a un futuro speranzoso, spalancato verso gli altri, come testimonia il suo impegno nel quartiere e nell’insegnamento.

Può essere stato influenzato dalla frequentazione di Cesare Vivaldi o di Pericle Fazzini e formato nell’insegnamento di Enrico Crispolti, ma ora le opere di Adriano sono lì, come testimonianza del suo interloquire tra il quotidiano e l’artistico nelle sue svariate dissonanze di grigi con delle attente inserzioni di rosso, tracciate nella luminosità dell’utopia.

Il suo orientare la sua vita verso l’arte e la comunità si è conclusa con il 19° degli INCONTRI D’ARTE CONTEMPORANEA Arte/Scienza di Pace al Liceo Scientifico Statale “Ettore Majorana”, dove per anni ha insegnato, e con la mostra ISTRICE Resistenza ottomana nello Studio Poerio 16/B, lasciando il progetto di un’antologica a Senigallia.

Sabato 5 ottobre, in occasione della Giornata del contemporaneo, sarà presentata una mostra fotografica e documentaria dedicata agli “interventi d’arte urbana” di Adriano nello spazio via Poerio 16/B.

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Adriano Di Giacomo Un ricordo BIBLIETTO 

 

 

Autocrazia Ottomana

I recenti avvenimenti turchi stanno avallando i dubbi avanzati da alcuni osservatori sulla democrazia d’impronta islamica perpetrata dal governo di Recep Tayyip Erdoğan all’indomani delle elezioni del 2002.

Erdoğan ha silenziosamente guidato la Turchia verso un’islamizzazione strisciante, limitando la laicità promossa da Moustafah Kemal Ataturk nel fondare la Turchia moderna e per una democrazia autoritaria. Una visione personalistica della democrazia molto simile a quella di Putin con l’addomesticamento della Turchia con ogni mezzo compreso l’arresto in massa di chi manifesta e di chi li difende davanti alla Legge.

Un indirizzo che non era evidente per tutti, ma le restrizioni sulla vendita degli alcolici o l’incoraggiare l’uso del velo in ogni luogo hanno ampliato lo scontento che la cementificazione di uno spazio verde di Istanbul non ha fatto che dare il segno a una protesta diffusa.

A far scendere per le strade la protesta è stata anche la scelta del governo di continuare a cementificare Istanbul con un nuovo centro commerciale, cancellando Gezi Park, uno degli ultimi luoghi verdi della città, per un progresso forzato da perseguire attraverso la strana idea occidentale che può essere realizzata con l’edificazione forzennata.

Alle porte di Istanbul la modernizzazione ha le fattezze del Teknopark, un complesso stile Silicon Valley che dal prossimo agosto, dopo oltre vent’anni d’intenzioni e lavori, ospiterà un migliaio di aziende di tecnologia avanzata.

Sembra indicato, nel caso di Gezi Park, citare il primo verso della canzone di Joni Mitchell, Big yellow taxi, (Ladies of the Canyon, 1970), anche se la folk singer si riferiva ad una cementificazione alle Hawaii “Hanno pavimentato il paradiso / e ci hanno messo su un parcheggio / con un hotel rosa, una boutique / ed un riflettore che ondeggia. […]”

La rabbia turca ormai non è solo ambientalista, ma soprattutto contro un governo che vuol sorvegliare troppo da vicino il comportamento dei singoli mettendo in discussione l’identità turca che non può essere quella araba.

La minaccia di abbattere 600 alberi è riuscita a coagulare le anime più diverse per gridare all’unisono lo scontento accumulato in anni di svolta autoritaria del governo Erdoğan che potrebbe coincidere con la crisi diplomatica con Israele e il voler assurgere a ruolo di tutore della riscossa del mondo islamico. Un’ambizione stimolata dalla nostalgia di un impero e dei suoi pascià che il progetto del complesso commerciale, con annessa ricostruzione di una caserma ottomana e una moschea, rendono Erdoğan un euroscettico per le continue richieste dell’Ue di europeizzare la Turchia e affiliarla all’Europa o la riluttanza di alcuni paesi della comunità di accettare nel proprio club uno stato islamico.

Una nostalgia per un’epoca che non era proprio di grande esempio per un musulmano con l’opulenza e le numerose deroghe alle regole all’Islam.

È più probabile che il governo Erdoğan non abbia mai avuto l’intenzione di dare seguito alla richiesta della maggioranza che lo aveva preceduto nell’aderire al Ue, ma preferire degli interlocutori commerciali più autoritari come la Cina e la Russia.

Il premier Recep Tayyip Erdoğan al suo terzo mandato, con il 52% di preferenza ben lontano dai risultati plebiscitari del 2002, ha ritenuto doveroso presentarsi poco dialogante, contraddicendo il suo schierarsi con le “Primavere” arabe e rivelandosi incapace di ascoltare le istanze dei suoi connazionali.

Una posizione muscolare quella di Erdoğan che ha sfoggiato nel gridare contro i social media e accusando la protesta di piazza di infiltrazioni straniere non ben identificate nelle proteste calandosi nella paranoia di un governante in cerca di nemici esterni per coagulare su di se il consenso, potendo contare sui suoi fan coattivi di 2.041.503 “Mi Piace” su Facebook e 2.823.762 Follower su Twitter.

Il porsi come un primo ministro autoritario gli permette di creare degli interlocutori come i capi della protesta e pensare a una consultazione referendaria sulla quale ci dovrà essere il futuro del Parco, ma gli permette anche di trovare nuove forme di censura come quella di multare le televisioni che trasmettono immagini della protesta ritenendo antieducativi i filmati.

Tutto questo mentre il movimento di protesta elegge Bella Ciao a sua colonna sonora e la ragazza in rosso che sfida il getto di gas lacrimogeni e degli idranti come suo simbolo.

Una posizione intransigente quella del primo ministro Erdoğan criticata anche dal presidente Abdullah Gül, anche lui islamico, portando in superficie i pacati contrasti tra le due alte cariche turche, marcando i contrasti all’interno della stessa compagine governativa e ponendo gli scontri non tanto tra islamismo e laicità, ma piuttosto tra una parte dello Stato e la maggioranza dei cittadini.

Erdoğan non ha alcuna intenzione di cedere alle proteste di piazza e vuol proseguire nei suoi progetti e appuntamenti come Giochi del Mediterraneo 2013 a Mersin o farsi intimidire dalle minacce di sospendere i negoziati di adesione della Turchia all’Ue.

Nessun rimprovero europeo o statunitense, sul comportamento dalla polizia nel contrapporsi alle proteste, fa recedere Erdoğan dalle sue posizioni e i 600 alberi che potrebbero diventare la fine di una democrazia autoritaria come la foresta lo fu per lo shakespeariano Macbeth.

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La barca è piena

In Europa, modificando l’antico adagio, si può affermare che nessuna notizia è una cattiva notizia per la sempre più incipiente mancanza di unità. Sull’Economist di fine maggio svettava il titolo The sleepwalkers (I sonnambuli) riferito all’incapacità di reagire nella zona euro. Questa apatia non ha solo attecchito nei 17 paesi che adottano la stessa moneta, ma ha contagiato anche gli altri dieci non solo per una energica ripresa economica, ma anche per la sempre più evidente incapacità di avere una comune posizione in politica estera, come dimostra la recente non decisione rispetto all’embargo per le armi all’Opposizione siriana, alla quale l’Europa sembra alquanto simile per la sua frammentazione e la sua incapacità di trovare una leadership. La crisi dell’Europa non è solo dell’euro, ma della comunione di intenti: assodato che tutti vogliono stare bene, non si comprende come e a spese di chi.

La Commissione europea ha aperto con cautela una discussioni sull’immigrazione e le possibili correlazioni con la povertà. Bruxelles vuole prove concrete di fatti e cifre prima di addossare tutta la colpa della crisi sulle spalle di chi attraversa deserti e mari in cerca di un luogo dove poter vivere. Il legame più evidente tra immigrazione e povertà è che chi fugge dai propri luoghi nativi per poter continuare a vivere non ha la possibilità di portarsi dietro il poco che possiede. Lascia tutto e diventa un indigente in un paese libero che vuol chiudergli le porte in faccia solo perché vuol usufruire fraudolentemente degli stessi benefici del cittadino legalmente riconosciuto in quel paese.

In Gran Bretagna aumenta l’indigenza con oltre 500mila persone costrette a utilizzare banche alimentari e il governo limita l’accesso ai servizi sociali ai soli possessori del passaporto britannico.

La Germania accusa l’Italia di distribuire permessi di soggiorno e denaro ai profughi africani perché scelgano di vivere altrove. Migranti che poi vengono respinti e condannati a vagare.

La libera circolazione di persone e merci sarà rivista e corretta per limitare la circolazione anche degli stessi cittadini europei, sulla cui testa incombe la spada di Damocle di un foglio di via per il proprio luogo d’origine. Se questo è il possibile futuro che si prospetta per gli europei meno abbienti, si può immaginare quale destino aspetterà a chi proviene dall’altra parte del Mediterraneo. Più che sonnambuli appaiono sempre più simili a degli zombi affamati del loro individualismo, gridando sempre più veementemente “IO” e utilizzando il “noi” solo quando c’è da spartire i resti della dignità.