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Storia degli algoritmi

Non credo che in questo momento esista una parola più usata e meno compresa di “algoritmo”. Se ne intuisce a orecchio l’origine araba, sappiamo tutti che gli algoritmi sono la base delle ricerche di mercato, dei computer, della programmazione, del web, dei mercati azionari, dei prezzi dei biglietti aerei e quant’altro. Ma a conti fatti, cos’è un algoritmo? In pochi sanno rispondere. Interviene in aiuto questo agile libro che in poco più di 120 pagine ne spiega l’origine e la funzione, con esempi storici e pratici. Intanto il nome: Al-Khuwarizmi era un matematico, astronomo e geografo persiano che verso l’anno 825 scrisse un’opera a noi arrivata in traduzioni latine (Algoritmi de Numero Indorum) (1). Padre dell’algebra (al-jabr, completamento) e divulgatore della matematica indiana, introdusse lo zero e la notazione posizionale. Il tutto venne ripreso nel 1202 dal nostro Fibonacci e costituisce la base della matematica moderna. Questo per dire che l’algoritmo non è un’invenzione dovuta all’informatica, ma è parte stessa della cultura scientifica indoeuropea, per non dire universale.

Ma entriamo in dettaglio: l’algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari. Una sequenza di processi concatenati ma risolubili singolarmente e logicamente strutturati. Questa razionalità nel processo di calcolo era noto anche ai babilonesi, ma ovviamente le procedure logiche si sono evolute col tempo. Quello che nel frattempo si è evoluta è la capacità di calcolo, inizialmente affidata a macchine semplici – abaco, tabelle di calcolo – poi a strumenti meccanici (calcolatrici, etc.) e infine elettroniche. La macchina universale di Babbage – ingegnere, filosofo e matematico inglese (1791-1871) non fu mai completata per i limiti dell’epoca, ma i principi teorici dell’informatica erano comunque stati fissati almeno sul piano teorico. Solo l’elettronica ha permesso finalmente di costruire macchine capaci di elaborare enormi quantità di dati in poco tempo e la storia è tutta ancora da sviluppare: l’intelligenza artificiale (AI) di cui oggi tanto si parla raggiunge ora la massa critica perché nel frattempo è aumentata in modo esponenziale la potenza di calcolo degli elaboratori, rendendo anche possibile l’analisi dei c.d. big data, ovvero grandi quantità di dati appartenenti a classi diverse. Il libro è molto chiaro nello spiegare anche al comune lettore i procedimenti che oggi regolano la crittografia dei dati, i flussi dei mercati azionari, il costo dei biglietti aerei e le nostre scelte commerciali o televisive, per non parlare dei bitcoin e delle valute blockchain, basate esclusivamente su algoritmi. L’elaborazione e la gestione di questo enorme flusso di dati comporta un potere immenso nelle mani di poche agenzie  di ogni genere (si va dai network ai social, da Facebook ai sondaggi elettorali) gestite in sostanziale oligopolio. Tutto questo sarà un problema da affrontare per le democrazie, mentre i totalitarismi avranno il controllo virtuale della società mai visto prima. Questo agile libro parla anche di questo e quindi non si limita ad esaltare “le magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria. Aggiungiamo anche che nel libro sono distribuiti per ogni capitolo una serie di esercizi logici e di esempi matematici didatticamente molto interessanti. L’autore insegna Machine Learning e Analisi dei Big Data alla Luiss ed è stato docente di Algoritmi alle Università Sapienza e Tor Vergata. È il responsabile tecnico scientifico delle Olimpiadi Italiane di Informatica e allenatore della squadra italiana che partecipa alle Olimpiadi Internazionali di Informatica.


Note:

  1. E’ evidente che il nome proprio è stato preso per sostantivo. La prima edizione a stampa italiana è tarda, risale al 1857, a cura del matematico Boncompagni.

Breve e universale storia degli algoritmi
Autore: Luigi Laura
Editore: Luiss University Press, 2019, pp. 136
Prezzo: € 14,00
EAN: 9788861054264


Filologia 2.0

Il caso Camilla Läckberg ha smosso il mondo della critica letteraria: non sarebbe lei (o solo lei) l’autrice di alcuni gialli scandinavi di successo, come La gabbia dorata (2019) e Ali d’argento (2020). C’è anche la mano di Pascal Engman, che peraltro lavora per un editore. A scoprirlo è stato il giornalista Lapo Lappin, che ha analizzato i romanzi della Läckberg attraverso un programma che analizza le impronte stilistiche degli scrittori, cogliendo parole e strutture più frequenti; quello che è definita tecnicamente come intertestualità. Lappin ha usato il software JGAAP, (Java Graphical Authorship Attribution Program) usato nelle perizie di tribunale (1), inserendo i libri di altri otto giallisti svedesi. Valersi di scrittori ombra o ghostwriters non è certo una pratica rara, ma un conto chiedere la collaborazione di specialisti per arricchire le descrizioni d’ambiente o descrivere correttamente procedure tecniche, altro è farsi aiutare a scrivere i libri. Per La grande fuga dell’Ottobre Rosso è chiaro che Tom Clancy ha pagato un ufficiale sommergibilista per rendere credibili i tecnicismi, ma la strutturazione del racconto è opera sua. Altro è pagare uno scrittore e nasconderlo. Sia chiaro: lo fanno sicuramente gli sportivi quando scrivono libri che non avrebbero tempo o competenze per farlo, ma nessuno pretende troppo da loro, mentre da una autore noto a livello internazionale il lettore pretende l’onestà. In questo caso una scrittrice di successo ha cercato di mantenere i ritmi imposti dalle aspettative dei suoi lettori e dagli interessi del suo editore.

La novità è casomai l’uso dell’informatica per fare quello che per secoli hanno fatto i critici letterari: riconoscere e ricostruire la rete di relazioni che quel testo intrattiene non solo con i suoi possibili modelli letterari, ma anche con altri testi dello stesso autore. Si tratta anche di analizzare il lessico, gli stilemi, la lunghezza dei periodi. La filologia classica queste cose le fa da secoli, esercitandosi su una serie finita di testi sui quali si sono cimentati migliaia di studiosi. Usando l’Intelligenza Artificiale facciamo semplicemente prima.

Ma con l’intelligenza artificiale ben altri orizzonti si aprono alla filologia (2). Leggiamo ora “porfyras” (porpora)” in uno dei papiri di Ercolano, grazie a una tecnologia all’avanguardia in grado di individuare le tracce di inchiostro nei rotoli carbonizzati dall’eruzione del Vesuvio. Ma non è l’unico contributo della tecnologia allo studio dei testi antichi: il programma Ithaca è frutto della collaborazione internazionale tra diverse università (tra cui la Ca’ Foscari di Venezia) e DeepMind di Google. Promette di aiutare con grande precisione gli storici nel restauro e nella collocazione geografica e temporale delle iscrizioni greche, e chissà che non si applichi presto anche a quelle latine raccolte nel monumentale CIL, Corpus Inscriptionum Latinarum. Ancora: con il progetto Electronic Babylonian Literature l’intelligenza artificiale è stata addestrata a leggere la scrittura cuneiforme – gli specialisti sono un centinaio in tutto il mondo –  rendendo più semplice il lavoro di identificazione di nuovi frammenti. In più, i ricercatori dell’Università di Tel Aviv (TAU) e dell’Università di Ariel hanno sviluppato un modello di intelligenza artificiale in grado di tradurre automaticamente in inglese i testo in accadico scritto in cuneiforme. L’accadico era una lingua usata nei commerci e nelle relazioni internazionali e la scrittura cuneiforme fu adattata a questa lingua. Come si vede, la capacità di analizzare e sintetizzare enormi mole di dati anche diversi per classe apre nuovi orizzonti. Ci saremmo arrivati lo stesso? Sicuramente impiegando molto più tempo.

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NOTE

  1. http://evllabs.github.io/JGAAP/
  2. https://www.academia.edu/35968989/Artificial_intelligence_and_linguistics

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MEDITERRANEO, un mare di molti altri

Si può parlare del Mediterraneo senza pregiudizi, tenendo conto di tutte le dinamiche che lo agitano – esattamente – da migliaia di anni? Ovviamente no, ma si può provare a superare schemi acquisiti e aprirsi a nuovi linguaggi. Ci provano Iain Chambers e Marta Cariello, entrambi attivi negli atenei di Napoli scrivendo a quattro mani La questione mediterranea. Trattandosi di un testo universitario, un editing più rigoroso avrebbe aggiunto una bibliografia e soprattutto avrebbe livellato lo stile, involuto e ideologico e forse anche tradotto male quello di Chambers, più agile quello della Cariello, a cui sicuramente si devono nel capitolo “Memorie e archivi” le belle pagine sulle poetesse e sulla donna mediterranea in generale, storico spartiacque tra la donna emancipata (Europa) e quella velata (Islam). Ma lo stesso discorso europeo non è univoco, su di esso convergono tante storie, ideologie e culture alle quali il testo cerca di dare eguale dignità, smontando nel contempo le strutture di potere che strutturano la geografia e le gerarchie fra culture, senza per questo arrivare a professare un comodo relativismo. L’impostazione ideologica è anticolonialista, al punto di definire Israele “una colonia residenziale”, senza peraltro riconoscere nelle culture non europee gli stessi meccanismi di pratica della violenza. Davvero la conquista araba dell’Egitto o l’espansionismo dei turchi Ottomani verso l’Ungheria e nei Balcani si è svolto secondo dinamiche diverse da quelle dei Francesi in Algeria? Alla base di un’espansione militare, politica e religiosa c’è sempre un’idea di superiorità, un razzismo giustificato da una religione o semplicemente dal successo sul terreno. Si cita Anna Arendt e le sue origini del totalitarismo:  l’Iliade è “ il poema della forza” e i Greci sbarcati a Cuma hanno ucciso gli indigeni, ma ogni migrazione dell’antichità era armata, e per dire che Enea è un migrante ci voleva solo Papa Francesco. Il cosmopolitismo di alcune metropoli – Costantinopoli, Alessandria – nascondeva anche gerarchie, spazi esclusivi e quartieri “europei”, anche se il nazionalismo turco e panarabo fanno rimpiangere la realtà descritta da Orhan Pamuk. Ma se la multiculturale Salonicco è stata ormai “grecizzata”, perché allora non parlare del pogrom di Instanbul del 1955 contro i residenti greci e armeni? Poco invece si parla di alcune forze che hanno invece favorito lo scambio tra civiltà diverse: a parte gli ebrei nel medioevo, neanche una parola viene spesa per l’Impero Romano d’Oriente, che è durato mille anni e ha fatto da ponte per tre continenti. Comunque ha ragione Chambers quando nota che parlare di Medio, Vicino ed Estremo Oriente significa parlare da Londra. Anche nomi più recenti sono prodotti del Potere (1). La geografia è espressione dello Stato e forse per questo in Italia non viene più insegnata a scuola.

Fanno però bene gli autori a fare il punto sugli studi classici sul Mediterraneo, che conta autori del rango di Henri Pirenne, Predrag Matijevic, Fernand Braudel, David Abulafia, (2). Puntuale l’analisi e anche la critica: Abulafia p.es. conta solo l’apporto dei Fenici e trascura altre culture. Ormai pochi credono ancora agli Ariani che con armi di bronzo e cavalli al galoppo hanno invaso l’Europa (3): sappiamo che la civiltà è arrivata lentamente dall’Asia e dall’Africa trasformandosi (il Ratto di Europa ne è la metafora perfetta) ed è un peccato che gli autori non citino Atena Nera di Martin Bernal (1987), una brillante anche se discutibile (sul piano della filologia) critica dell’Eurocentrismo. Citano comunque Giovanni Semerano (pag. 47 e nota 36), studioso dalla solida cultura linguistica (vedi nota 3) e attento analista di nomi e toponimi mediterranei. Certo, ancora fino alla seconda Guerra Mondiale ammettere che la civiltà europea doveva qualcosa a semiti ed africani era una bestemmia anche pericolosa per chi la pronunciava, ma oggi per fortuna i tempi sono cambiati e l’apporto di nuove scienze – penso all’analisi genetica – lascia meno spazio all’ideologia. Ma c’è sempre lo spettro dello storicismo razzista ad agitare le acque di un mare di fatto colonizzato dall’Europa, almeno da quando i cannoni delle navi inglesi e olandesi hanno ridotto nel XVII secolo l’egemonia ottomana e la Francia si è dedicata alla sponda africana. L’Italia purtroppo ha perso la sfida con la Storia: superata l’epoca dell’Impero Romano, poteva diventare egemone ma non lo è mai stata e resta subalterna, pur avendo una posizione geografica la cui importanza strategica è intuitiva. Ma anche adesso assistiamo da parte della politica italiana a goffi tentativi di arginare un esodo epocale che porterà comunque a nuovi equilibri. Napoli in questo senso può essere un interessante laboratorio: è una città del Mediterraneo ma non gravita come Genova o Trieste verso l’Europa continentale.

Ma a questo punto il pregio del libro è di averci aperto comunque un mondo, non solo invitandoci a rivedere le nostre categorie culturali – il migrante è il simbolo del Mediterraneo, non lo scarto –  ma parlando anche di autori mai tradotti in italiano, al massimo in francese, il che dimostra ancora una volta il nostro provincialismo. A pag. 70 si parla di centinaia di poetesse nel canone letterario arabo. Ma si parla diffusamente anche di tanti altri autori, come lo storico arabo Ibn Khaldoun (1400), la berbera (pardon, tamazight) Fatima Sadiqi. Si citano anche film poco o per niente noti sull’emigrazione (il regista Dagmawi Yhmer, chi è?), la cui conoscenza potrebbe integrare il nostro punto di vista – penso a Io Capitano di Garrone –  con quello loro. Purtroppo la mancanza di una bibliografia generale non aiuta il lettore.

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Note:

  1. Vedi p.es. L’invenzione del Sahel.Narrazione dominante e costruzione dell’Altro /  Jean-Loup Amselle. Meltemi editore, 2023.
  2. Ma stranamente non viene citato Luciano Canfora e il suo Mediterraneo, una storia di conflitti. Castelvecchi editore, 2016
  3. La favola dell’indoeuropeo / Giovanni Semerano. Bruno Mondadori, 2005.

La questione mediterranea / Iain Chambers, Marta Cariello


La questione mediterranea Condividi
di Iain Chambers e Marta Cariello
Mondadori Università, 2019

Pagine: VIII-152 p.
EAN: 9788861847002

Prezzo: € 12,00


Poveri Musei

L’attacco della Destra al direttore del Museo Egizio di Torino è l’ultimo di una serie di disavventure della cultura e della sua conservazione e diffusione. Christian Greco è un noto egittologo e anche bravo manager, qualità che non si trovano sempre insieme nelle direzioni di musei e sovrintendenze. Eppure c’è chi spinge per la sua rimozione in base a motivi ideologici. Vittorio Sgarbi, pur legato all’attuale governo, ha difeso Greco riconoscendone la cultura e i meriti, ma resta la domanda: perché la politica si occupa di governare la cultura senza averne competenza? In più il Museo Egizio di Torino è una fondazione, quindi le nomine comunque non le fa il Ministero della Cultura ma il consiglio di amministrazione della fondazione stessa, organizzata in modo privatistico. Quanto poi all’ingresso di favore agli arabi residenti a Torino, nessuno ha pensato che l’Egitto è sì patria dei faraoni e delle piramidi, ma gli eredi del patrimonio archeologico e artistico dell’antico Egitto sono in questo momento gli arabi. In più c’è un movimento di pensiero – non necessariamente settario – che vede nello sviluppo dell’antico Egitto l’incontro fra culture africane e asiatiche piuttosto che un “unicum” sorto dal nulla e fiorito in modo autonomo per migliaia di anni.

Altro museo nei guai: il prestigioso British Museum, dove un curatore addetto all’organizzazione di mostre ha sottratto per una ventina d’anni almeno duemila reperti dai magazzini per rivenderli persino su Ebay. Questo collaboratore era stato licenziato, ma evidentemente George Osborne, nella sua veste di presidente dei trustee del British Museum, aveva cercato di non dar troppa pubblicità alla notizia, che invece è alla fine esplosa e ha portato non solo alle sue dimissioni, ma anche a pressioni da parte di governi stranieri – quello della Grecia per primo – per chiedere la restituzione dei reperti ”acquisiti” in passato: se un museo straniero non ne garantisce la sicurezza, meglio allora riportarli a casa.

Avendo lavorato per molti anni nei musei, ne ipotizzo però anche alcune criticità. La prima è la mancanza di investimenti nella cultura, soprattutto per quanto riguarda le strutture di conservazione. Musei, archivi e biblioteche richiedono personale specializzato ma producono risultati nel lungo periodo, mentre rendono dividendi immediati se trasformati in economici contenitori per mostre temporanee finanziate da ditte esterne e con un forte indotto commerciale. Non a caso il ladro del British Museum era un noto curatore di mostre. Ma questo spostamento di risorse penalizza gli altri investimenti: a parte i sistemi di allarme, la catalogazione può rimanere indietro di anni per mancanza di archivisti e funzionari specializzati. Ogni museo ha i magazzini pieni di materiale acquisito per donazioni private, recuperi di fondi da altri enti, scavi archeologici o sequestri giudiziari. Ma se un pezzo non è catalogato e fotografato non sarà possibile identificarlo se immesso sul mercato antiquario. In più c’è anche l’imprudenza di alcuni funzionari che permettono l’accesso ai magazzini anche a persone esterne alla struttura, sempre che gli interni siano tutti onesti. I furti nei musei avvengono sempre nei magazzini e non certo in sala dove tutto è esposto. Ma posso citare anche l’esempio di un funzionario di museo che per la compilazione del catalogo ha chiamato un collezionista, senza rendersi conto della possibilità che un reperto nei depositi possa essere sostituito con un altro dello stesso tipo ma di minor valore.

Roma di Chiese e soprattutto di Teatri

Lo scarno titolo non rende appieno la ricchezza del libro, il quale è diviso in due parti ben distinte: la storia del teatro a Roma, inteso sia come struttura fisica che come espressione artistica, e uno schedario sistematico, esauriente e aggiornato di schede dei singoli teatri. La prima parte è organizzata in ordine cronologico, la seconda è divisa per ordine alfabetico e completata da un indice analitico. L’autrice è già nota come artista e curatrice di mostre (1) e per una serie di monografie di arte e altro, tra cui citiamo: I mosaici a Roma dall’antichità al Medioevo, Santa Maria in Montesanto, Il vino a Roma e nel Lazio, Sciamè. Alchimia del rosso, Il canto della terra, L’ essenza della solitudine, Dolores Prato, Vostra Veronica. In questo libro appena uscito Stefania Severi ripercorre non solo la storia degli edifici teatrali dall’antica Roma a oggi, ma anche degli autori, artisti, impresari e promotori che hanno reso possibile una continuità culturale che supera i duemila anni. E naturalmente si parla anche del pubblico, il vero protagonista delle fortune e sfortune della scena romana, dove la storia del teatro presenta caratteristiche uniche: da un lato c’è l’origine sacrale dello spettacolo – pagana o cristiana non importa – e dall’altro la coesistenza da sempre di espressioni di cultura alta insieme a spettacoli plebei, popolari, con curiose ibridazioni fra i due registri – sarcasticamente commentati nei sonetti del Belli – dovute alla particolare struttura sociale romana: la Chiesa condizionava la durata della stagione teatrale (iniziava a dicembre, ma per la Quaresima i teatri erano chiusi) ma promuoveva le sacre rappresentazioni e lasciava una certa libertà al teatro popolare o aulico che fosse, purché non si discutesse di politica o di religione. Ma nei teatri come nei palazzi convivevano, sia pur in settori diversi, nobili e plebei, borghesi e “generone”, senza quella separazione di casta presente in altre società anche italiane. I viaggiatori stranieri notavano da un lato la grande passione dei romani per il teatro a tutti i livelli, ma dall’esterno vedevano i romani come parte stessa dello spettacolo, fosse per la prima di un’opera lirica o per una processione della Settimana Santa (2). Nell’antica Roma il pubblico non pagava (panem et circenses..) e i teatri col tempo erano divenuti monumentali. Il teatro di Ostia antica ancora è attivo, gli altri – teatro di Pompeo, di Marcello, di Traiano – restano monumenti a memoria di fasti passati. Il medioevo vede sacre rappresentazioni, cerimonie, cortei e processioni registrate da precisi cronisti e cerimonieri come il Burcardo, ma col Rinascimento e il Barocco rinasce il teatro laico, patrocinato dalle famiglie nobili, le quali inseriscono fino a due secoli dopo un teatro privato nei loro palazzi, mentre ben presto l’iniziativa privata si adegua alla domanda e diversifica l’offerta, che va dal dramma e melodramma alla commedia, dall’aulico alla farsa popolare, dal teatro di parola al mimo e ai burattini. Giustamente l’autrice parla in questo senso di “sistema teatrale”, data la quantità e la diversificazione dell’offerta romana, col suo ampio spazio per nobili mecenati e impresari privati, attori e cantanti professionisti e confraternite di dilettanti, primedonne, gigioni, musicisti, artisti di scena e artigiani. Alla fine di ogni secolo è riportato l’elenco dei singoli teatri con la data di apertura. Se manca l’asterisco la struttura è ancora aperta alla scena. Se l’Apollo non esiste più, alcuni sono ancora in attività, magari con repertorio diverso. Penso al teatrino di palazzo Altemps, al teatro Argentina ora di prosa ma nato lirico (vide la prima del Barbiere di Siviglia), ma anche all’Oratorio del Borromini. Pur nella relativa stasi dello Stato Pontificio, la vita teatrale romana ha sempre avuto un grande impulso creativo e una grande popolarità

La cesura tra due epoche avviene quando nel 1870 Roma diviene capitale d’Italia, con la rapida trasformazione urbanistica e sociale delle sue strutture e del pubblico. Risale alla seconda metà del XIX secolo la costruzione di nuovi teatri. La gran parte dei teatri di fine secolo è attiva: il Costanzi per l’Opera, il Quirino, l’Eliseo, la Sala Umberto, il Salone Margherita, l’Ambra Jovinelli, tanto per citarne alcuni. Carente è invece il secondo dopoguerra, che ha visto solo ristrutturazioni e riconversioni spesso discutibili (la distruzione dell’Adriano per farne una multisala è emblematica) e soprattutto ha penalizzato la periferia continuando a concentrare lo spettacolo al centro storico, a parte gli introvabili teatri tenda. Ma dagli anni 60 ci immergiamo in nella realtà più difficile da schedare: l’esplosione del teatro sperimentale e dei “teatrini” – talvolta scantinati o locali recuperati – che renderanno Roma una delle città più vivaci d’Italia. “Uno, cento, mille teatrini” è più di uno slogan. Concentrati fra Trastevere e Testaccio ma non solo, pur in autentica povertà di mezzi diventano un mondo parallelo che per osmosi trasmette al Teatro Stabile nuovi linguaggi e rinnova un repertorio all’epoca fin troppo alimentato dagli abbonamenti del pubblico borghese. Ripercorrere con la Severi le vicende dell’avanguardia teatrale romana è divertente quanto difficile, ogni segmento essendo originale e non sempre documentabile con precisione. Non era il mondo dell’Effimero dell’assessore Nicolini – grande rinnovatore della periferia e inventore dell’estate Romana – ma ne ha preparato il terreno.

E il nuovo secolo come si presenta? Da un lato Roma con l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano (2001) ha finalmente uno spazio adeguato a un capitale europea e l’offerta teatrale si è decentrata anche in zone prima culturalmente deserte, vuoi per intervento pubblico (Tor Bella Monaca, Quarticciolo, Corviale, circuito TIC, Teatri in Comune) che privato (Teatro degli Audaci, Il Globo fondato da Proietti), mentre i “teatrini”, decimati dalle nuove leggi di sicurezza e dall’età dei fondatori, sopravvivono o passano il testimone ai loro allievi, visto che proliferano le scuole di teatro a tutti i livelli. Passato il Covid, in questo momento il teatro non è in declino, a differenza delle sale cinematografiche che chiudono. Il motivo? C’è il desiderio naturale di vedere fisicamente l’attore e lo spettacolo dal vivo è un salutare  antidoto all’inflazione da immagini registrate e/o scaricabili.

Addenda: per contenere il prezzo (22 euro per 327 pagine) il libro è privo di illustrazioni. Per integrarne la lettura consiglio un sito completo di immagini, schede e indicazioni topografiche: https://www.info.roma.it/teatri_di_roma.asp


Note:

  1. https://www.exibart.com/artista-curatore-critico-arte/stefania-severi/
  2. Vedi p.es. Città teatrale. Lo spettacolo a Roma nelle impressioni dei viaggiatori americani 1760-1870, di Alessandro Gebbia, 1985.

Dizionario dei teatri di Roma
Stefania Severi
Edilazio, Roma, 2023. pp.327
Prezzo 22,00 euro