Il 13 novembre è uscito in Italia per i tipi della Guerini il libro del politologo israeliano Yoram Hazony, dal titolo Le Virtù del Nazionalismo Non ho ancora avuto occasione di leggerlo, ma promette bene: si pone controcorrente al pensiero che vede nel nazionalismo, nel sovranismo e nel populismo il male assoluto. Il nazionalismo, che per l’autore coincide con l’autodeterminazione dei popoli e con un mondo di nazioni libere e indipendenti, si oppone all’Imperialismo, cioè a qualsivoglia forma di governo che voglia unire l’umanità sotto l’egida di un unico regime politico. Imperialista, per Hazony, fu, specie dal 1989 a oggi, la politica degli Stati Uniti d’America che, sino a tempi recenti, hanno cercato di imporre una pax americana, ricalcando il modello imperiale della pax romana. Ma imperialista sarebbe pure l’Unione Europea, rispetto alle singole nazioni membro. E qui è facile prevedere una buona accoglienza del libro da parte italiana, almeno da quella parte politica che deve cedere sovranità e interessi nazionali a un’entità superiore di cui non si sente realmente parte, oppure è erosa dalla globalizzazione e dall’ideologia ad essa relativa. Lo studio si dipana partendo dalla Bibbia (l’autore è comunque ebreo) al protestantesimo, scorrendo l’Impero Romano e il Sacro Romano Impero, traversando Locke e il moderno pensiero politico liberale, fino a descrivere l’attuale crisi dello stato moderno occidentale e del suo sistema simbolico.
In attesa di leggere i libro, suggerisco alcune osservazioni:
• Perché concentrarsi solo sull’imperialismo americano, quando Unione Sovietica e Cina hanno non solo condotto la loro politica con procedure tipiche dell’imperialismo, ma hanno imposto il loro modello di vita con la forza e opprimendo le popolazioni meno collaborative?
• L’Impero come forma statuale è stato storicamente accettato dalle popolazioni diverse dal gruppo etnico dirigente non solo perché conquistate militarmente o economicamente, ma perché hanno riconosciuto i vantaggi di una struttura sovranazionale capace di regolare l’economia generale e i conflitti interetnici, nonché di garantire anche possibilità di carriera agli allogeni. Questo indipendentemente dalla cultura superiore che l’Impero è convinto di esportare.
• I punti deboli del nazionalismo sono due: la tutela delle minoranze, spesso più vantata che effettiva; e più grave, la conflittualità. I grandi imperi conducono meno guerre degli stati nazionali, questi ultimi essendo sempre pronti a deflettere sul vicino i conflitti interni e scatenare guerre di confine. In più il movimento di lavoratori tra stati nazionali è ostacolato da frontiere e veti interni volti a ridurre la concorrenza economica.
• Ultimo limite, l’affermarsi di entità sovranazionali, movimenti e organizzazioni basati su basi funzionali economiche. Google, Amazon o le fondazioni gestite da Soros non hanno nessun interesse a trattare in Europa con 27 governi e legislazioni diverse, per cui sono molto più corrosive dello stato nazionale di quanto non lo siano la sinistra terzomondista o la chiesa cattolica ecumenica.
Yoram Hazony è uno dei più vivaci pensatori israeliani contemporanei: filosofo, teorico politico e biblista. Presidente del The Herzl Institute di Gerusalemme, una delle più interessanti nuove istituzioni accademiche israeliane, fondò alcuni anni fa, nel 1994, il prestigioso Shalem Center, un avanzato centro di ricerca e di promozione degli studi umanistici, cercando di integrare tradizione e modernità. Ebreo osservante e sionista, formatosi presso le più insigni università israeliane e statunitensi, è noto in Israele, negli Stati Uniti e nel Commonwealth per i suoi originali contributi agli studi biblici e politici.
Le virtù del nazionalismo
Yoram Hazony
Traduttore: Vittorio Robiati Bendaud
Editore: Guerini e Associati, 2019, pp. 328
Collana: Sguardi sul mondo attuale
Prezzo: € 21,50
Sono
meno di cento pagine, ma preziose: poco o nulla esisteva in argomento, né è
stato facile recuperare e mettere insieme una congerie di opuscoli e documenti
non tutti registrati dalla Biblioteca Nazionale, stampati con tirature ineguali
da collettivi o piccoli editori, pochi dei quali sono rimasti attivi nel lungo
periodo. Fa eccezione Stampa Alternativa, che festeggia i suoi primi
cinquant’anni di attività e vanta una produzione sterminata tra libri, libelli
e quant’altro. E qui va chiarito un concetto: la pirateria editoriale non
perseguiva fini commerciali, ma democratici: culturali e politici. Lo stesso
vale per i falsi: erano provocazioni che nulla hanno a che spartire con quei
prodotti che sfruttano un nome o un marchio famoso per fare quattrini senza
pagare i diritti. Ricordo p.es. copie pirata di Love Story e addirittura de Le
nozze di Cadmo e Armonia di Piero Citati: quelle 80 pagine erano state rifatte
da una tipografia e solo l’occhio del bibliotecario notava le inesattezze
sfuggite al cliente di libreria. E girano da sempre edizioni fantasma di Mein
Kampf, stampate senza registrazione ma da sempre popolari in certi ambienti. Va
detto invece che le indicazioni di stampa che dovevano tutelare i pirati
politici sono le più varie: Amsterdam o Londra, con tanto di indirizzo e sigla
di fantasia, oppure supplemento di Stampa Alternativa (con la benedizione della
testata registrata). Fantomatiche le Edizioni Vuoto a Perdere, altrettanto
misteriose le Edizioni del Sole Nero, mentre in una pubblicazione pirata si
legge addirittura: stampato a Magonza, presso Gutemberg!
Ma
torniamo ai contenuti. Si stampavano essenzialmente opere che ancora non erano
state tradotte – testi teorici innanzitutto – o che avevano un costo proibitivo
per lo studente. Per abbassare i costi si ricorreva a carta comune, margini
stretti, caratteri ridotti e soprattutto distribuzione alternativa, il che
significava far arrivare la cultura in luoghi e ambienti fino allora tagliati
fuori dalla distribuzione ufficiale. Né si creda che fossero sottoprodotti: la
traduzione de La società dello spettacolo di Guy Debord risulta migliore
nell’edizione pirata che in quella ufficiale di De Donato (1968). L’edizione a
cura de L’Erba Voglio dei Minima moralia di Adorno del 1976 rende giustizia a
quella pubblicata da Einaudi nel 1954, molto lacunosa; al punto che l’Einaudi stesso
la ristampò integrale nel 1979, concedendo sottobanco ai pirati di esaurire le
scorte. Ma l’elenco di opere stampate o tradotte o ristampate senza
autorizzazione né royalties è lunga quanto interessante: i libelli femministi
stampati da Limenetimena, le edizioni di Anarchismo, poesie e canzoni di Patti
Smith, alcuni manuali sudamericani di guerriglia, Céline, Bataille, Evola;
alcune opere di Wilhelm Reich su politica e sessualità, già pubblicate su
riviste professionali difficilmente accessibili ai più; le opere situazioniste
di Raoul Veigenem; La politica dello stupro di Diana E.H. Russell, il famoso
S.C.U.M di Valerie Solanas, La morte della famiglia di David Cooper, più opere
di Louis-André Salomé, di Gilles Deleuze e Felix Guattari, Michel Foucault, Aldous
Huxley… insomma, una bella biblioteca, anche se non rilegata in pelle. Ed è
grazie a queste edizioni che molti di noi sono cresciuti culturalmente e
politicamente. Stampare senza permesso o rifiutando la SIAE è stata una scelta
produttiva e politica di cui oggi sinceramente si sente la mancanza, anche se
la Rete ha creato nuovi spazi alla diffusione della cultura.
Parlavamo
anche dei falsi. Siamo così abituati al falsario geniale ma venale, da non
pensare alle provocazioni dei surrealisti, dei dadaisti, degli anarchici, dei
situazionisti. Chi scrive ricorda le false prime pagine dei quotidiani edite da
il Male, paradossale esempio di manierismo e satira insieme. Ma sono rimasti
nella storia ben altri falsi: l mio testamento politico di Sartre (1978),
scritto dagli anarchici di Catania, e soprattutto il Rapporto veridico sulle ultime opportunità di
salvare il capitalismo in Italia (1975), scritto da “Censor” (in
realtà Gianfranco Sanguinetti). Inviato volutamente nei circoli che contano, fu
preso per buono da tutti e proponeva una soluzione per evitare il comunismo
estremo e riformare il capitalismo dall’interno. Non doveva essere uno studio
teorico superficiale, se fu apprezzato da sindacalisti, industriali e
giornalisti, i quali furono poi pubblicamente diciamo “derisi” quando
l’autore uscì allo scoperto. Altro capolavoro furono le Lettere agli eretici di
Enrico Berlinguer (1977). La veste editoriale ricopiava il format della collana
Nuovo Politecnico della Einaudi, per cui approdò in libreria sotto mentite
spoglie. Le lettere sono indirizzate a Marco Pannella, Goffredo Fofi, Adele
Faccio, Angelo Pezzana, Renato Curcio, Andrea Valcarenghi, Toni Negri. L’ultima
lettera è per gli Indiani Metropolitani, considerati collettivamente. Il falso
è persino grossolano, ma ci cascarono in parecchi. Autore ne era Pierfranco
Ghisleni, il quale rispose a tono a Giulio Bollati, direttore commerciale di
Einaudi, accusandolo di non aver capito il senso culturale dell’operazione.
Ovviamente il libro fu sequestrato e ora è merce di antiquariato. La cosa buffa
è che due di queste lettere apocrife furono ristampate… da un’edizione pirata
di Verbania. Nel 1982 Ghisleni diviene direttore del Male, che già dal 1978 si
faceva notare per le sue trovate. Nel frattempo il suo editore aveva stampato
Esortazione alla Democrazia Cristiana affinché lasci il governo in Italia e
passi all’opposizione, scritto da un certo Antoine A. de Toqueville, allusione
al grande teorico francese della democrazia. Ma interessante fu il commento di
Umberto Eco al falso Sartre (1978): “Negli ultimi due anni: manifesti
politici del gruppo A con la firma del gruppo B; il falso epistolario di
Berlinguer (…) il falso testo di Sartre (…) Ce ne accorgiamo ancora perché
le falsificazioni sono grossolane e tutto sommato inabili o troppo paradossali.
Ma se tutto fosse stato fatto meglio e con un ritmo più intenso? Non resterebbe
che reagire alle falsificazioni con altre falsificazioni (…) ma proprio
questo sospetto mostra il potenziale suicida contenuto nelle tecniche
falsificatorie”. Dopo 40 anni, nell’era dell’Internet e delle fake news,
che dire?
In appendice, una specie d’intervista al pirata per eccellenza, Marcello Baraghini, fondatore di Stampa Alternativa.
Melissa la seguo dal suo primo libro, scritto ormai molti anni fa. Nel frattempo anche come scrittrice è cresciuta e questo suo nuovo romanzo, stavolta sulla maternità, rappresenta un punto fermo nella maturità di una scrittrice che s’impose a 17 anni e ora ne ha il doppio e sarà madre come i suoi personaggi. Leggendo Il primo dolore ho provato disagio: come uomo ammetto di non capir niente di parto e gravidanza, né di aver mai pensato che il processo naturale è segnato dal dolore, che qui invece viene eviscerato nelle sue profonde implicazioni, che vanno ben oltre la fisicità. Nel libro abbiamo due coppie diverse ma unite dall’attesa di un figlio. Sono due storie parallele narrate in soggettiva dalle due donne, entrambe al nono mese avanzato. La prima donna, Rosa, poco più che quarantenne, è redattrice di una rivista e convive con Andrea – un simpatico musicista – in un villino nella periferia residenziale romana. Lui suona e compone tra una “canna” e l’altra; potrebbe anche far di meglio, ma non ha più ambizioni e ormai lavora per i pubblicitari. Lei invece ha con gli anni superato – o almeno così crede – un difficile rapporto con la madre, da cui si è definitivamente separata al momento di venir a studiare a Roma. Determinata come tante ragazze che scappano dal paese, si è laureata e ha trovato lavoro nell’editoria periodica. Ha avuto una prima relazione con un uomo più grande di lei, per poi passare al nostro musicista, di sicuro meno ingombrante. Altri amori giovanili – pochi – saranno ricordati nel corso della memoria, sceverando la quale esce fuori una vita condizionata da un padre debole e da una madre anaffettiva e persino in competizione con una figlia forse non voluta.
Agata
invece è una gracile ragazza di bassa estrazione sociale e lavora come
parrucchiera. L’hanno fatta sposare poco più che adolescente con Matteo, un
classico “flanellone”, termine che a Roma usiamo per descrivere l’uomo abitudinario
e privo di fantasia, protetto più che protettivo, campione dell’italica classe
media. Lui e lei si sono sposati per obbligo sociale dopo una “fuitina”, lei
giovanissima e poco scolarizzata, lui figlio di mamma. La coppia entra in scena
scendendo a valle in macchina da un paese di cintura dell’Etna, di notte verso
l’ospedale, dove Agata deve partorire e dove il servizio sanitario lascia a
desiderare: verrà affidata a due inesperti laureandi in medicina, gli unici
medici disponibili in quel momento tra un parto e l’altro. C’è la fila, ma di
notte manca il personale, e forse anche di giorno. A parte il dolore fisico,
Agata sprofonda in uno stato di semi incoscienza, dove i ricordi emergono dal
fondo e si stagliano come in un film. Purtroppo il neonato nasce morto,
soffocato: i due laureandi hanno sbagliato i tempi e l’aiuto di un mezzo
infermiere ha peggiorato tutto. E qui interviene Matteo, che prende insolitamente
l’iniziativa: una ragazza ha appena partorito ma non vuole tenere il bambino.
Non sapremo mai chi è, ma il neonato può essere immediatamente adottato, e così
tutto si sistema. Agata, stremata, acconsente.
Rosa invece ha deciso di partorire in casa
come sua nonna, attirandosi gli strali della suocera. Che dire? L’ambiente qui
è familiare, meno asettico di quello di un ospedale, ma il dolore non cambia. E
soprattutto, la memoria corre indietro in uno stato di dormiveglia. Entrambe le
donne, sia pur così diverse per età, storia e classe sociale, sono quasi due
parti della stessa persona, o almeno provano la stessa sofferenza fisica e non
possono contare troppo sul proprio uomo. Arrivano a odiarlo, ma pare sia un
classico. In realtà Andrea, anche se tenuto fuori dal “traffico”, è uomo
responsabile, e ha l’idea di far venire di corsa la madre di Rosa pagandole il
viaggio. L’incontro fra madre e figlia è un colpo di scena: non si vedevano da
dodici anni e sul volto della madre sono visibili i segni del tempo. Ne
sappiamo ora la storia successiva: rimasta sola, si è avvicinata a una ricca
comunità evangelica, dove ha trovato lavoro come domestica e quell’integrazione
finora negata. Diventa però anche l’amante del Grande Capo, che evidentemente
predica bene ma razzola male, col risultato di tornare a fare la badante. Tutto
questo lo sappiamo dal colloquio con la figlia, che ora vedrà la madre in
un’ottica totalmente diversa e crede di conoscerla. Ma lasciamo al lettore il
piacere della lettura. Il bambino comunque in questo caso nasce vivo e vegeto.
Infine, una nota di cinema. Costruito com’è in montaggio alternato, il romanzo ben si presta a diventare un film. Ebbene, a memoria d’uomo i film dove viene ripreso realmente un parto sono pochissimi: Helga (1967), Nove mesi (1976), Il dottor T. e le donne (2000). Ma andiamo per ordine. Helga – lo sviluppo della vita umana era un documentario didattico distribuito nelle sale. Helga era il vero nome della donna che si prestò come (f)attrice e il film sbancò il botteghino, vista l’ignoranza della mia generazione in materia (avevo 14 anni). Nove mesi (Kilenc hònap) invece è un film ungherese di Marta Meszàros, all’epoca una delle poche donne alla regia (le altre erano Agnès Varda e Lina Wertmuller). In Italia è nota per Diario per i miei figli (1982). In Nove mesi una studentessa decide di avere un figlio contro la volontà del partner, e per la prima volta si riprende in diretta un parto in una scena di forte valenza drammatica. Il dottor T. e le donne è invece una commedia di Robert Altman con Richard Gere nei panni del ginecologo, il quale nell’avventurosa scena finale dovrà intervenire per far partorire una donna messicana. Detto questo, Il primo dolore ha tutte le carte in regola per una trasposizione cinematografica, e Melissa stessa ce ne parlava durante una presentazione del suo libro.
Il primo dolore
Melissa Panarello
Editore: La nave di Teseo, 2019, pp. 217
Mai nome fu scelto meglio. Sto parlando di un museo all’aperto di arte contemporanea allestito su una delle tante isole che il Danubio crea nel suo lungo percorso. Qui siamo a 25 km da Bratislava verso Budapest, in un punto dove il fiume si amplia formando lunghe isole e depositi di ghiaia. Il sabato e la domenica estivi fa servizio un battello, altrimenti è mezz’ora di bus dal centro di Bratislava, passando per quartieri di edilizia pianificata e ampi spazi verdi. Con una sorpresa: lungo il percorso leggo “Gerulata”. Il nome m’incuriosisce e scopro che è un forte costruito dalle legioni romane a guardia della riva destra del Limes Danubiano. Non c’è tempo per visitare la zona archeologica, ma annoto la posizione con l’aiuto di Google maps. E qui un’altra sorpresa: i confini con Austria e Ungheria distano pochi km dal sito. Una ragione in più per aver scelto un’isola sul Danubio come incrocio fra culture diverse.
Il nome ufficiale del museo è in realtà Danubiana Meulensteen Art Museum, dal nome del collezionista olandese (vivente) che insieme al gallerista slovacco Vincent Polakovič ha fondato questo museo nel 2000, confidando nel generoso supporto del Ministero della Cultura slovacco. Il risultato è un moderno edificio di due piani tutto vetrate e sale espositive, con una naturale continuità verso lo spazio esterno, un parco fluviale dove al tramonto statue e istallazioni si stagliano controluce sullo sfondo della pianura alluvionale e del verde profilo montuoso dei Piccoli Carpazi, creando un paradossale effetto di “Natura”. Al di là della loro funzione primaria, le ampie vetrate con vista sul Danubio amplificano dunque il senso di arte come comunicazione. Il segreto di Danubiana è proprio questo: una studiata continuità tra Arte e Natura, erede dell’Armonia dell’arte classica. E’ un sentimento che prova anche chi si accosta all’arte contemporanea senza avere una cultura specifica, magari bevendo un tè nella caffetteria del museo mentre oltre le vetrate i bambini giocano nel parco attorno a una “buffa” statua di Peter Pollàg e alcuni turisti con Canon e treppiede fanno capire di non essere passati lì per caso.
Nel dettaglio, il museo ha una parte dedicata alle collezioni permanenti, l’altra alle mostre temporanee, anche se gli spazi sembrano sfumare uno dentro l’altro. Le 200 opere della parte “stabile” le ha messe insieme il collezionista Gerard Meulensteen, che iniziò a comprare dalla seconda metà degli anni ’80 le opere di artisti del gruppo sperimentale CoBrA, del pittore cinese americano Walasse Ting e in seguito di Claes Oldenburg, Paul Jenkins e quanto di meglio circolava nelle gallerie tra Europa e Stati Uniti. Nel parco sono disseminate sculture di El Lissitzky, Magdalena Abakanowicz, Jim Dine, Hans van de Bovenkamp, Josef Jankovic’, Peter Pollàg, Arman, Jean-Claude Farhi, Vladimir Kompanek, Billio Nic, Sam Francis e Rudolf Uher. Come si vede anche solo dai nomi, l’ambiente è internazionale, stavo per dire per obbligo morale.
Nela parte dedicata alle mostre temporanee intanto ci siamo divertiti con la delicata e umoristica grafica dell’illustratrice slovacca Petra Lukovcsova. In più quest’estate il museo ospita una interessante raccolta di 23 artisti dalle Filippine, già da sole un intrico di contaminazioni culturali. E infatti la mostra si chiama, tradotta in italiano, “Remoto ma stranamente familiare”. Una gita dunque da non perdere.
A
Bratislava ci siamo arrivati con calma, risalendo la Mitteleuropa da Trieste,
via Lubiana, Graz e Vienna e usando solo treni e pullman. Solo al ritorno io e
mia moglie ci siamo concessi un volo RyanAir per Roma. A Graz volevo
assolutamente vedere l’arsenale storico cittadino, mentre Bratislava non la
conoscevo. C’ero in realtà passato davanti nel 1980 con una gita in battello da
Vienna, ma all’epoca non potevamo scendere senza il visto e per metà percorso
una motovedetta cecoslovacca ci scortava a vista. Ricordo però la sagoma del
castello, oggi perfettamente restaurato ma vuoto. Sì, vuoto, a parte cinque
quadri (sic) e un paio di mostre. Purtroppo la Slovacchia non ha sempre avuto
una corte o una monarchia autonome e per secoli è stata solo un satellite dei
vicini. La stessa Bratislava ha più nomi: Pressburg per gli Austriaci, Poszòny
per gli Ungheresi. E qui il vantaggio dell’Europa di oggi: puoi andare dove ti
pare senza che nessuno ti chieda i documenti; che hai sconfinato te lo dice
solo un sms di Vodafone. Nelle varie gite, mi sono accorto solo dalla mappa di
quanto fosse vicina la frontiera ora ungherese, ora austriaca, ora cèca e
morava, frontiere che seguono le sponde del Danubio, oppure sono il retaggio di
due guerre mondiali. Della Slovacchia ho visto solo la capitale, ma ci ha
sorpreso lo sviluppo industriale e commerciale della città, con un centro
storico perfettamente restaurato, grandi centri commerciali, quartieri nuovi e
grattacieli sede delle multinazionali. I trasporti pubblici sono efficienti e i
mezzi sono tutti nuovi, mentre dei tassisti è meglio non fidarsi troppo. La
Slovacchia uno sviluppo industriale lo aveva già avuto grazie ai Sovietici: socialista
è metà dell’architettura pianificata dei nuovi quartieri. Ma negli ultimi anni
gli investimenti stranieri (soprattutto tedeschi, ma non solo) e un regime
fiscale favorevole ne hanno fatto una sorta di Austria Felix. Da un’amica
abbiamo anche saputo che per le professioni c’è molto lavoro disponibile anche
per gli stranieri, e in fondo lì si vive bene, tutto pulito e organizzato.
Peccato che la lingua slovacca non sia poi così facile, vista anche la sua
scarsità di vocali. Ma mentre in quella settimana di vacanza io cercavo di
imparare qualche parola di slovacco e di pronunciarla in modo decente, mia
moglie si ostinava a parlare una specie di inglese con gente che parlava una
specie di inglese, col risultato di non pochi malintesi, visto che non sempre
il personale di servizio e le commesse sono gentili. Residuo del socialismo
oppure lavoratori inurbati dalla campagna? Forse tutt’e due.
Il
nostro albergo è delizioso: un vecchio battello da crociera ancorato sul
Danubio, con comode cabine e sala da pranzo in stile Titanic. Il nostro sonno è
cullato dalle onde del fiume, ma più spesso dallo spostamento d’acqua causato
da navi da crociera lunghe quanto l’astronave di Guerre stellari e da chiattoni
con la capacità di venti Tir. La sponda destra è tutta verde a parco pubblico,
quella dove siamo ancorati dà sulla collina del castello, e sul lungofiume devi
solo star molto attento ai ciclisti, molto bravi a pedalare a luci spente. La
città in fondo è tutta piatta, quindi le due ruote sono non solo popolari, ma
attirano il cicloturismo internazionale. Da Vienna a Budapest è tutta una pista
ciclabile e Bratislava sta in mezzo. Io invece sognavo di scendere il Danubio
in canoa, e so che ogni tanto i circoli sportivi internazionali organizzano
queste imprese collettive. Siamo comunque andati a Vienna in battello e sempre
in battello il sabato e la domenica di può raggiungere un’isola dove è
allestita Danubiana, una mostra permanente di arte contemporanea che da sola
merita un articolo a parte.
Prima dicevo che la città vecchia – Stare mesto – è stata perfettamente restaurata. Come fosse prima s’indovina da alcuni edifici cadenti che attendono l’immobiliare di turno. Oggi è la Disneyland perfetta: nessun abitante, tutto pulito e colorato, solo B&B, alberghi e case vacanze, nessun negozio che non sia funzionale al turismo, ristoranti e birrerie di ogni tipo, più saloni massaggi Thai e locali di strip-tease aperti h24. In compenso c’è molto ordine (mai visto un abusivo), molti negozi sono di qualità – tutte firme internazionali – e l’area è realmente pedonalizzata, senza italiche deroghe alla legge. Tutta la città vecchia è contenuta in due km quadrati, è piena di chiese barocche e conserva ancora parte delle mura. Tutto sommato è una piacevole passeggiata, a patto di non fare troppo caso alle masse di turisti scesi dai pulmann o dai battelli fluviali, e avendo cura di mangiare da un’altra parte: i prezzi sono come Roma se non più alti.
Oggi abbiamo mangiato lungo il Danubio, al ristorante dello scalo passeggeri, un edificio che sia dentro che fuori è un capolavoro di architettura socialista: razionale, elegante come si concepiva negli anni Sessanta. Fuori cemento armato, dentro tutto legno e ferro. Ci fanno accomodare in terrazza: le sale interne sono prenotate da due gruppi provenienti da Vienna o Budapest. Tavoli con salviette gialle, italiani; salviette celesti, forse tedeschi. Dico forse perché qui nazioni e dialetti s’incrociano quasi sfumando, e il tedesco che parlano non è quello che s’insegna a scuola. Gli italiani del primo gruppo si rivelano torinesi e con loro scambiamo racconti e informazioni. Gli altri giorni avevamo conosciuto una studentessa romana che lavora in un campo archeologico del FAI e una matura coppia di viaggiatori “lenti”, tutto il contrario dei tour che caricano e scaricano in continuazione turisti di ogni tipo. Purtroppo invece non abbiamo potuto incontrare la nipote di un mio amico che qui studia slovacco e certo troverà qui un buon lavoro. Il suo programma è per ora molto intensivo.
Ieri
sera abbiamo mangiato a bordo della nostra nave-albergo, due giorni fa in un
piccolo ristorante fuori le mura, per scoprire oggi che la sera lì vendono solo
da bere. Già, qui molti ristoranti chiudono la cucina dopo il pranzo, la sera
la gente beve birra. La bevono sia gli slovacchi, sia gli stranieri che
affollano i tavoli all’aperto dei locali. La cucina locale è tutto sommato
semplice: zuppe, molta carne (manzo, maiale, anatra, pollo), ottimi contorni.
Ma non mancano ovviamente ristoranti di ogni nazione, e noi italiani siamo ben
messi. Anche il caffè espresso è diffuso come tale, e preferivamo prenderlo da
un ambulante che aveva attrezzato a caffetteria italiana un furgone Ape.
La
messa nella cattedrale di San Martino merita due righe a parte. La chiesa è
gotica con qualche aggiunta barocca nell’interno, che non copre complesse scene
lignee di scuola tedesca. San Martino è rappresentato in divisa da ussaro in
una grande statua nella navata destra e un grande organo accompagnava la messa
della domenica. Quando c’è funzione i turisti non possono entrare e la liturgia
qui è presa molto seriamente sia dal clero che dai fedeli. La Slovacchia è
l’unico paese europeo che non accetta migranti musulmani, e durante la guerra
la Slovacchia era un protettorato tedesco governato da un ecclesiastico,
monsignor Tiso, figura ambigua ma significativa del sentimento popolare.
Passato il socialismo, l’anima slovacca si è ritrovata cattolica, anche se qui
in città il rapido sviluppo sicuramente porterà cambiamenti profondi. Qui i
giovani sono tanti, c’è lavoro e il pil quest’anno è al 4%. Ed è anche una
bella gioventù: sportiva se non atletica (anche qui il socialismo aveva
lavorato bene); le donne sono molto belle ed eleganti e ovunque c’è gente che
pedala o fa jogging.
L’ultimo
giorno, dopo una passeggiata nel parco del lungo Danubio, saliamo a vedere il
panorama dall’UFO. E’ un cugino più svettante e moderno del Fungo all’EUR, che
si erge sopra il ponte nuovo, meraviglia ingegneristica tutto cemento armato e
stralli, senza neanche un pilone. Da 100 metri di altezza vediamo tutta la
città e il Danubio da una parte, e i quartieri nuovi o addirittura in
costruzione dall’altra. E’ un finale di viaggio quasi obbligato, ma dall’alto
ti rendi realmente conto della natura della città.
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