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La Repubblica Romana del 1849

di Riccardo Cochetti (*)

Era venerdì 9 febbraio 1849 da soltanto un’ora e mezza, quando centosettanta anni fa, al termine di una seduta durata 14 ore consecutive, l’apposita Assemblea Costituente approvò il decreto di instaurazione della Repubblica Romana, la cui cerimonia di proclamazione si sarebbe tenuta alle ore 15 del giorno stesso sulla Piazza del Campidoglio, che dichiarò “decaduto di fatto e di diritto” il potere temporale del papato.

I fatti precedenti ricordano come il crescente malcontento popolare nei confronti di Pio IX, il senigalliese Giovanni Mastai Ferretti, fosse definitivamente esploso nel luglio dell’anno prima, in quanto ritenuto responsabile della definitiva sconfitta dell’esercito piemontese a Custoza per aver rifiutato la partecipazione dello Stato Pontificio alla guerra contro l’Austria: con la speranza di riuscire a contenere la dilagante ostilità nei suoi confronti, aveva perciò nominato Capo del Governo il Conte Pellegrino Rossi, dalla fama di progressista. Il 15 novembre 1848, mentre si recava all’apertura della nuova sessione legislativa, Pellegrino Rossi rimase invece vittima di un agguato sulla scalinata del Palazzo della Cancelleria, allora sede del Parlamento, e morì accoltellato: quella stessa sera si ebbero addirittura cortei di manifestanti che inneggiavano all’omicidio, cantando “benedetta quella mano che il tiranno pugnalò”, mentre Garibaldi, ricevuta la notizia a Ravenna, si spinse immediatamente a scrivere, in una lettera inviata all’amico Carlo Notari a Livorno, che “quella pugnalata ha migliorato alquanto la nostra condizione e grazie a quel medicamento non saremo più accompagnati in Italia da guardie svizzere.”

Nel tardo pomeriggio del 24 novembre Papa Pio IX abbandonò in gran segreto il Quirinale, ormai assediato dalla popolazione inferocita, e scappò a Gaeta travestito da prete, per essere ospitato nel Regno delle Due Sicilie da Ferdinando II di Borbone, colui che era stato soprannominato Re Bomba per aver posto fine a colpi di cannone alla rivolta popolare di Messina.

Nella a dir poco imprevedibile situazione di una Roma senza Papa, la città e le sue nuove istituzioni laiche riuscirono a gettare le basi di una repubblica fortemente democratica ed insieme sovversiva, in quanto finalmente emancipata dal potere temporale della Chiesa, ma che durerà purtroppo soltanto cinque mesi a causa del successo dell’intervento militare francese volto a riconsegnare la Città eterna al Papa: nonostante la brevità, un momento storico visionario e di grandioso impegno politico, civile e di resistenza armata, durante il quale conversero generosamente in città patrioti da tutta Italia, la “meglio gioventù” di allora.

La Repubblica Romana rappresenta infatti un potente episodio fondativo della nostra storia patria, essendosi data come obiettivi fondamentali l’unità e l’indipendenza nazionale, ed uno dei momenti più alti del Risorgimento, che prefigurò anche rilevanti sviluppi dell’Italia moderna, quali l’adozione di un regime repubblicano, una Costituzione decisamente avanzata ed il contributo alla partecipazione di diverse categorie di cittadini, comprese le eroiche donne, anche se, incredibilmente, non ha tuttavia mai beneficiato di adeguate attenzioni storiografiche.

Il 21 e 22 gennaio 1849, incuranti della scomunica preventivamente lanciata da Pio IX contro organizzatori, elettori ed eletti, nelle elezioni per l’Assemblea Costituente circa 250.000 votanti, vale a dire un terzo degli aventi diritto, di cui 25.000 nella sola città di Roma, avrebbero poi scelto, con suffragio universale maschile, i propri 200 rappresentanti.

La neonata Repubblica Romana procede rapidamente a riforme di enorme significato ed impatto, quali la confisca dei beni ecclesiastici, l’abolizione del Tribunale del Sant’Uffizio (con la trasformazione del vergognoso edificio di Piazza della Minerva in abitazioni per le famiglie bisognose), l’abolizione della pena di morte, la cancellazione del monopolio del sale, del dazio sul macinato e delle tasse sulle patenti per l’esercizio dei mestieri, la riforma agraria (che comportò l’attribuzione a ciascuna famiglia di ventimila metri quadrati di terra agricola), l’introduzione dell’obbligatorietà dell’insegnamento primario finalmente sottratto al clero, la soppressione della censura preventiva e la concessione della piena libertà di stampa, l’istituzione del matrimonio civile e l’abrogazione della norma che prevedeva l’esclusione delle donne dalla successione. Una vera e profonda rivoluzione, che vide sorgere un’immediata opposizione da parte delle famiglie più ricche: i Barberini, i Chigi, i Teano, non solo si sottrassero al pagamento del prestito forzoso disposto per fronteggiare il debito pubblico di 46 milioni di scudi lasciato in eredità dal regime pontificio, ma arrivarono addirittura a promettere centomila scudi alle truppe che per prime avessero deposto il legittimo governo della Repubblica.

Si fosse trattato solo di questo, non avrebbe forse potuto rappresentare per i nuovi governanti, l’Assemblea Costituente ed il Triumvirato formato da Mazzini, Armellini e Saffi, una soverchia preoccupazione, ma l’inevitabilità della sconfitta si sarebbe invece presto palesata in particolar modo a causa del diffuso e persistente isolamento internazionale della neonata Repubblica, considerato che nessuna potenza europea l’avrebbe riconosciuta, come preannunciato già dal fatto che il corpo diplomatico presente a Roma aveva seguito al gran completo il Papa a Gaeta, e vista anche la mancanza di qualsiasi iniziativa diplomatica da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, gli unici due Stati che avrebbero potuto non avere, sia pure per motivi diversi, alcuna difficoltà ad intervenire nella questione.

Si aggiunga a questo il mancato coordinamento del movimento democratico italiano, reso ancor più drammatico dalla grave involuzione politica in atto in quegli stessi mesi nella penisola, dove si era assistito alla definitiva sconfitta piemontese nella Prima guerra d’Indipendenza, alla sospensione della proclamazione del regime repubblicano in Toscana e della progettata unificazione con Roma, alla repressione dell’insurrezione repubblicana di Genova ed alla riconquista della Sicilia da parte delle truppe borboniche.

La fuga di Pio IX aveva d’altro canto paradossalmente inflitto il colpo di grazia proprio alla strategia di coloro che fino ad allora avevano invece ritenuto di poter attuare a Roma una politica blandamente riformista confidando nel benestare del Papa: lo scontro si radicalizzò e gli eventi lasciarono ben presto capire al Pontefice che la pretesa di continuare a beneficiare, nell’Europa di metà Ottocento, di quel potere temporale che continuava a tenere il mondo laico lontano dalla gestione dello Stato sarebbe ormai stata difficilmente negoziabile. Così, il Segretario di Stato Antonelli ebbe l’incarico di rifiutare udienza alle deputazioni romane, respingere tutte le richieste di aiuto o di mediazione e nel frattempo attivare i canali per ottenere un intervento militare straniero contro la Repubblica Romana. Già il 4 dicembre del 1848 era partito in tal senso un appello del Papa ai sovrani cattolici, che trovò attente orecchie in Francia, Spagna, Austria, oltre ovviamente che nel Borbone che lo stava ospitando. In un clima di interessi contrapposti e reciproche diffidenze, si preferì comunque non mettere in atto un’iniziativa congiunta, ma attribuire a ciascuna potenza una zona di intervento, e Roma venne affidata alla Francia, che aveva posto la propria partecipazione al piano di restaurazione del Papato come conditio sine qua non per una rapida soluzione della crisi italiana.

Il 25 aprile di quel 1849 il corpo di spedizione francese, comandato dal generale Oudinot, sbarcò a Civitavecchia, peraltro in palese violazione di quell’articolo 5 della Costituzione che proibiva esplicitamente alla repubblica transalpina di impiegare le proprie forze militari contro le libertà di un altro popolo; due giorni dopo arrivò a Roma la Legione italiana di Garibaldi, ed il 30 si ebbe un primo scontro sul Gianicolo, durante il quale venne ferito anche il ventiduenne genovese Goffredo Mameli, attivo con Nino Bixio nel precedente biennio delle grandi manifestazioni di Genova, poi volontario in Lombardia e quindi aiutante di Garibaldi, famoso soprattutto per essere l’autore del testo di quello che diventerà l’inno nazionale italiano: i francesi attaccano a mezzogiorno e la battaglia dura sette ore, ma Garibaldi, uscito con le sue truppe dal Quartier Generale di Villa Savorelli, riesce infine a metterli in fuga. Tra morti, feriti, e prigionieri, i francesi lasciano sul campo 1.000 uomini, e l’indomani i romani, recatisi in migliaia sul Gianicolo a godersi i luoghi della vittoriosa battaglia, potranno leggere il sarcastico e spavaldo resoconto a cura della “Commissione delle Barricate”, organismo creato per preparare e motivare i cittadini alla difesa interna: “L’ingresso de li francesi a Roma incominciò ieri: entrarono da Porta San Pancrazio … in qualità de priggionieri!”. Garibaldi, nonostante una ferita subita ad un fianco, li aveva inseguiti fino a Castel di Guido nella loro ritirata verso Civitavecchia, prima di essere fermato da Mazzini, fautore di un negoziato con la Francia, che sarebbe stato a suo dire invece vanificato da una troppo umiliante sconfitta sul campo.

Secondo Mazzini, infatti, l’unico concreto progetto politico che avrebbe potuto consentire di riprendere la guerra nazionale, e nella circostanza di difendere la Repubblica Romana, non poteva che fondarsi sull’appoggio della Francia repubblicana, peraltro promessogli in precedenza da Alphonse de Lamartine, all’epoca Ministro degli esteri nel Governo provvisorio, sulla base di una comune azione contro l’Austria, che aveva appena occupato la Romagna, la Toscana, le Marche: come Mazzini, del resto, nessuno avrebbe potuto lontanamente immaginare la pesantissima svolta moderata che nelle elezioni legislative francesi di maggio, grazie al massiccio voto dei cattolici e dei contadini, avrebbe invece consegnato al Partito dell’Ordine e dunque al Presidente Luigi Napoleone i due terzi dei seggi.

In effetti il Governo di Parigi, prima di essere spazzato via dall’esito delle nuove elezioni, aveva incaricato di una missione straordinaria a Roma il diplomatico Ferdinand de Lesseps (che il disincantato popolo romano soprannominò prontamente “er trappolaro”, nella purtroppo fondata consapevolezza che l’armistizio non sarebbe stato per la Francia un impegno concreto, ma solo un modo per prendere tempo mentre provvedeva a far arrivare truppe di rinforzo e cannoni) che raggiunse un accordo con le autorità della Repubblica, ma immediatamente rigettato dal Generale Oudinot, che addirittura il 3 giugno, con un giorno di anticipo rispetto alla concordata data di scadenza della tregua, lanciò un nuovo e proditorio attacco sul Gianicolo, conquistando al termine di un feroce combattimento durato 17 ore le ville fuori Porta San Pancrazio (oggi splendido contesto del Museo della Repubblica Romana e della Memoria garibaldina), con la sola eccezione di quella denominata Il Vascello, attualmente sede del Grande Oriente d’Italia, dando il via da quell’altura all’assedio ed al bombardamento francese della città, la cui difesa resterà affidata a 16.000 tra soldati e volontari della Repubblica, 2.000 volontari provenienti da altre regioni italiane e 300 da paesi stranieri, in un’impari lotta contro un nemico ben più numeroso, organizzato e meglio armato.

Per un intero mese vengono colpite dall’alto case, chiese, palazzi e monumenti: si contano fino a 150 bombe a notte, che raggiungono anche gli ospedali nonostante fossero convenzionalmente segnalati con delle bandiere nere per tenerli al riparo dai bombardamenti. Il Papa davanti alle sofferenze ed ai lutti imposti ai suoi fedeli ed ai figli di Roma non profferì neppure una parola di sdegno, di preoccupazione né di pacificazione: quando una palla di cannone colpì la facciata di S. Andrea della Valle, si scoprì che qualche irridente francese vi aveva inciso sopra per sfregio, evidentemente stimolato dall’atteggiamento del Pontefice, “Pio IX ai suoi amatissimi…”

Non fossero bastate le bombe, l’assedio francese comportò anche il pesantissimo blocco dei rifornimenti di viveri e, in un giugno che in quell’anno presentò come mai prima temperature fino a 36 gradi per moltissimi giorni, la popolazione veniva anche condannata alla sete con l’insopportabile interruzione del flusso dell’Acqua Paola, che riforniva Trastevere, San Pietro ed i quartieri limitrofi. Il massacro dei romani diventa sempre più terribile, e dopo 27 giorni di atrocità anche le ultime resistenze sono ormai vinte: nell’ultimo giorno di giugno e di assedio i francesi hanno buon gioco a sfondare anche le linee interne di difesa cittadina e farne cadere l’ultimo baluardo, quella Villa Spada dove Garibaldi, sempre più in ripiegamento, aveva posto il suo ultimo Quartier Generale, nella cui strenua ma vana difesa muore, così come l’uruguaiano Andrès Aguiar, detto “il Moro di Garibaldi”, anche il ventiquattrenne milanese Luciano Manara. Già combattente nelle gloriose Cinque Giornate di Milano ed accorso a Roma alla guida di 600 bersaglieri dopo la sconfitta di Novara che aveva posto fine alla Prima guerra d’indipendenza, era stato nominato da Garibaldi Capo di Stato Maggiore della Repubblica Romana, succedendo a Francesco Daverio caduto il 3 giugno a Villa Corsini, e ne sarà l’ultimo caduto.

L’Assemblea Costituente, poco dopo la mezzanotte del 1° luglio 1849, deliberò la resa, a certificare una sconfitta che resterà però tale esclusivamente sotto il punto di vista militare e dovuta soltanto all’enorme sproporzione tra le forze in campo, perché invece quella sublime dichiarazione, che l’Assemblea cessava una difesa divenuta impossibile e rimaneva al suo posto, avrebbe tramandato tutta intera la possente valenza simbolica di quella esperienza romana, ed il fatto che le truppe francesi, ben dopo la dichiarazione di resa, avessero voluto sciogliere con le armi in pugno quell’ultima seduta dell’Assemblea Costituente di mercoledì 4 luglio 1849 avrebbe mantenuto per sempre quella resa ancor più gloriosa.

Nonostante avesse affermato di aver visto le truppe della Repubblica stremate e sfinite, Mazzini non volle assolutamente accettare quella dichiarazione di resa, asserendo come dal popolo non fosse mai venuta alcuna indicazione a desistere, e rassegnò dunque le dimissioni insieme agli altri Triumviri: dichiarò di aver avuto addirittura orrore della dichiarazione del deputato dell’Assemblea Enrico Cernuschi, responsabile della Commissione delle Barricate, “la resistenza non ha più scopo, non ci resta più altro che coprirci il volto come Cesare, vengano e ci finiscano”, ma le più consone e riconoscenti parole nei confronti dell’Assemblea Costituente possono invece essere considerate quelle di Carlo Pisacane, il socialista libertario napoletano che era stato posto a capo dell’esercito popolare: “ha sì mancato del coraggio del guerriero che muore con le armi in mano, ma ha avuto invece quello del giusto, che intrepido espone il petto ai colpi dei suoi assassini.”

Anche il giorno successivo alla resa offrì due eventi in grado di suscitare un’ancora impressionante partecipazione di popolo: nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, con l’appassionata orazione funebre del patriota Ugo Bassi, un sacerdote barnabita, si svolsero i funerali di Luciano Manara, ed al tramonto Giuseppe Garibaldi, accompagnato da Anita, Ciceruacchio con i figli Luigi e Lorenzo e da ben 4.000 volontari, lasciò Roma attraverso Porta San Giovanni per accorrere in difesa di Venezia. Garibaldi aveva mobilitato i suoi ancora numerosissimi seguaci sostenendo che “Ovunque noi saremo, colà sarà Roma”, e pensare che non aveva potuto promettere loro “né onori né stipendi, ma solo fame, sete, marce forzate, battaglie e morte.”

La straordinaria ed insieme terribile esperienza della Repubblica Romana cesserà, con due eventi temporalmente contemporanei ma di senso diametralmente opposto, il 3 luglio di quel 1849: alle ore 12 in punto, mentre sulla Piazza del Campidoglio veniva promulgata tra gli applausi e la partecipe commozione della pur vinta popolazione la sua modernissima Costituzione, le truppe francesi guidate dal Generale di divisione Gueswiller prendevano possesso di Piazza del Popolo, che fornendo un possente significato simbolico ai luoghi è posta esattamente all’altra estremità del Corso, e cominciarono ad entrare in Roma.

Scolpito sul Muro della Costituzione posto sul Belvedere della Passeggiata del Gianicolo nel 2011, un possente monolite in calcestruzzo rosato lungo 50 metri, quel testo di soli 69 articoli, organico ed essenziale, destinato per circostanze e tempistica della sua promulgazione a non diventare mai operativo e rivolto quindi più alle generazioni successive che ai propri contemporanei, rimane la viva testimonianza di una modernità forse ancora oggi sconosciuta alle attuali democrazie: aveva però in ogni caso posto le indelebili fondamenta di una cultura di governo repubblicana destinata nel secolo successivo a riproporsi come la sola degna di reggere l’Italia.

Il 15 luglio 1849 la bandiera pontificia torna nuovamente a sventolare su Castel Sant’Angelo e, prima ancora del rientro a Roma del Papa, che avverrà soltanto il 12 aprile dell’anno successivo, la riconsegna della città al potere papale dà il via ad una pronta e totale restaurazione, di cui viene incaricata una commissione di tre cardinali, con il compito non solo di annullare puntigliosamente tutto l’operato del governo repubblicano, ma anche le blande concessioni del primo Pio IX, in modo tale da riportare le lancette della storia all’assolutismo del precedente pontificato di Gregorio XVI. Osservò infatti in quei giorni Marco Minghetti, il magistrato bolognese appartenente alla Destra storica che era stato Ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo costituzionale concesso da Papa Mastai Ferretti, che “niente sta a cuore al buon Pio IX quanto il purgarsi della taccia di principe riformatore.”

 

(*) Giornalista, scrittore di satira, prosa e teatro, fondatore e Presidente dell’Associazione Café Voltaire di Roma, Riccardo Cochetti è anche autore del testo “Roma senza Papa, il sogno breve della Repubblica Romana”, pubblicato dalle Edizioni Ensemble unitamente ad un CD (Edizioni Heristal Entertainment) che ne riporta l’integrale registrazione della rappresentazione teatrale, comprensiva delle musiche appositamente composte dal M° Giuseppe Natale. Si tratta di una pièce che, accuratamente basata su un’approfondita ricerca documentale e bibliografica sulla Repubblica Romana, ne restituisce le atmosfere ed i fatti più salienti grazie ai tre personaggi vividamente in scena: il triumviro Giuseppe Mazzini, la giornalista americana Margaret Fuller, all’epoca corrispondente da Roma per il New York Daily Tribune, ed Annetta Cimarra, moglie del capopopolo Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, che incarna lo spontaneo sentimento popolare vicinissimo a Garibaldi.

 

Il Giorno della Memoria: Una speranza tra tanto odio

Nella grande Storia sono tessuti i racconti di persone che cercano di scivolare tra le trame degli eventi, per sopravvivere ed aiutare, silenziosamente, a sopravvivere.

È sopravvivere quello che una comunità circense cerca di fare, mentre le persecuzioni si trasformano in assassinii, trasformando un circo in un rifugio per l’umanità sgradita alla Germania nazista.

È il circo l’ambientazione scelta dalla scrittrice statunitense Pam Jenoff per il suo “La ragazza della neve” dove Noa viene accolta da Herr Neuhoff e dove Astrid la introduce, per sopravvivere, all’arte del trapezio. La storia delle due donne, Noa e Astrid, che imparano a fidarsi, prende ispirazione dai fatti realmente accaduti.

Noa, una giovane olandese cacciata di casa dopo la scoperta dei genitori del suo essere rimasta incita da un soldato tedesco, nella sua continua fuga salva un neonato ebreo, tra i tanti lasciati morire in un vagone nel freddo dell’inverno. Ad Astrid, ebrea virtuosa del trapezio e ripudiata dal marito ufficiale nazista, Noa non dirà della sua maternità e la rinuncia del figlio appena nato in una struttura per ragazze madri.

Un libro sui buoni sentimenti in un periodo dove si discriminavano le singole persone per la loro appartenenza ad una cultura o piuttosto che ad un’altra, distraendo il popolo da ben altri eventi.

Sono passati 80 anni dalla “Notte dei Cristalli”, passando da una strisciante vessazione ad una aperta persecuzione, prendendo a pretesto, come se i nazisti ne potevano avere bisogno, l’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi e farsi scudo dell’indignazione del popolo per bruciare abitazioni e negozi di ebrei e le loro sinagoghe.

E poi vennero le Leggi Razziali fasciste in gran parte dell’Europa, per rendere dei cittadini che hanno contribuito alle singole nazioni di crescere di essere declassati, emarginati, esclusi dai diritti di ogni altro cittadino.

80 anni non sono bastati per non far emergere tanto odio per i propri simili, ma per fortuna, come 80 anni fa, c’è sempre chi si adopera per salvare anche una sola persona, anche sino al sacrificio.

Un libro romanzato su storie reali che si incrociano nella tessitura dell’autrice, lasciando ancora qualche speranza in un periodo impegnato ad incolpare gli altri della propria insoddisfazione, dove lo sdoganamento dell’odio manifestato pubblicamente, ha portato ad un esondazione di cinismo e cattiveria, in una società incline all’individualismo ed all’ egoismo, facilmente mutabili in razzismo.

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La ragazza della neve
di Pam Jenoff
Traduttore: Tullia Raspini
Editore: Newton Compton, 2017, pp. 351
Prezzo: € 10.00

EAN: 9788822707727
ISBN: 8822707729

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Tumblr addio?

Per chi non la conosca, Tumblr è una piattaforma in rete simile a Istagram, dove convergono da una decina d’anni soprattutto le esperienze grafiche e fotografiche di tutto il mondo. Ora la doccia fredda: dopo il 17 dicembre Tumblr ha deciso di eliminare dal portale tutte le immagini sessuali non artistiche. Leggi: pornografia, ma non solo, visto che sono state censurate anche le foto erotiche del grande Grigori Galitsin. Sono leggibili le nuove regole, con esempi grafici che sembrano risalire ad altri tempi: il seno femminile è permesso solo se è una madre che allatta, o se è un quadro di un museo; la nudità è concessa in un contesto medico o elioterapico. Sembra di rivedere i ragazzi di una volta mentre sfogliano un atlante di anatomia per artisti o le riviste germaniche di nudismo balneare. Si sono attivati strani algoritmi che ovviamente prendono pure qualche buffa cantonata, ma conducono una folle operazione – si tratta di milioni se non miliardi di immagini – per bonificare un portale che nel migliore dei casi perderà molti clienti e quindi anche la pubblicità, diretta o indiretta che sia. Come il Codice Hayes, è una censura esterna alle istituzioni e per questo più efficace. Ora, il motivo di tale iniziativa non è chiaro, ma merita qualche commento. Il primo è che la censura è un fiume carsico che ogni tanto ricompare impetuoso, ma trova ormai un ambiente diciamo saturo: non c’è settore della nostra vita sociale che non sia sessualizzato, né si creda che questa sia un’esclusiva occidentale: proprio su Tumblr c’era anche ampio spazio per la pornografia islamizzante, soprattutto malese e indonesiana. Piuttosto, il vero problema della censura è che da anni sbaglia il proprio obiettivo: è ossessionata dal sesso ma miope di fronte alla violenza. Proprio su Tumblr ci sono una serie di blog che mostrano immagini di crimine violento, di sadismo, di tortura. Altri blog inneggiano al nazismo, all’intolleranza religiosa, all’islamismo aggressivo, allo sterminio della razza bianca e – viceversa- alla supremazia dei bianchi sui neri. Se le donne sono vestite, allora tutto è permesso? Strano criterio. E se difendiamo il diritto di opinione di un islamista o di un nazista, perché vietarlo a chi ha fatto del sesso la sua cultura? Fermo restando il limite del rispetto della persona (che, diciamolo, nel porno è raro: la donna è sempre passiva e disponibile), il problema non è drammatico. Rispetto alle censura di cinquant’anni fa il mondo è cambiato, ma non pe questo la società si è sfasciata, mentre l’imitazione della violenza è molto più pericolosa. E’ la violenza che permea i videogiochi, i rapporti sociali, il cinema. In prima serata si possono vedere anche atti violenti nelle varie serie televisive “poliziottesche”, ma una breve scena di nudo integrale nelle puntate de L’amica geniale è stata tagliata. Era davvero così pericolosa per le famiglie, quando qualsiasi bambino può andare in giro per la rete a imparare il Kamasutra? Per piacere, siamo seri.

Clod Pat

A Claudia Patruno che apprezzava profondamente gli interventi di Luigi M. Bruno su RomaCultura ed i suoi scritti poetici e narrativi e non ha avuto il tempo dimostrarlo con il suo lavoro ispirato al racconto “Peccato di gola”

A metà dicembre ci ha lasciato Claudia Patruno, una giovane donna e madre di grande creatività non solo nell’ambito digitale, ma anche nella pittura.

Claudia era una grafica e una webmaster che nel 2005 ha promosso e realizzato il magazine RomaCultura.it, con una particolare attenzione all’arte.

Questo suo interesse per l’arte ha stimolato il progetto del calendario di RomaCultura.it dedicato alle immagini ed alle parole di artisti e poeti conosciuti in ristretti ambiti, partecipando anche  in prima persona a delle iniziative dedicate ai Diritti (Visioni dell’Umanità, 2007) ed ai progetti di microeconomia del Magis in Africa (Opere solidali, 2015) ed in particolare ha collaborato nel 2016, nonostante la malattia, alla realizzazione della tela a più mani, ispirata all’opera dell’artista ciadiano Idriss Bakay, come omaggio all’opera missionaria di padre Martellozzo nel Ciad per la promozione degli orti comunitari e le banche delle sementi.

Era entusiasta nel realizzare un’opera ispirata ad uno dei racconti (Peccato di gola) della pubblicazione “Nuvole nell’Armadio” di Luigi M. Bruno, ma la malattia non gli ha lasciato la concentrazione e la forza.

Ci mancherai è stato bello conoscerti e collaborare con te

 

Paura di vincere (o di aver vinto)

05 MP AdN Paura di vincere 1A cento anni dalla fine della Grande Guerra, il manifesto ufficiale del Ministero della Difesa che celebrava il 4 novembre mostrava un esercito italiano in versione “Caritas”. Ora, se vuole mantenere la propria identità, un’istituzione non deve mai derogare alla propria funzione esclusiva: per la religione è la trascendenza, per l’esercito il combattimento; tutto il resto è solo un valore aggiunto che non può tuttavia sostituire la funzione primigenia. Ma quello che è più curioso, quel manifesto non conteneva alcun accenno all’avvenimento che doveva commemorare. Celebrare un anniversario senza chiarirne il motivo è assolutamente illogico e può essere spiegato unicamente dalla pervasiva rimozione politica della nostra identità nazionale, di cui la vittoria del 1918 è un simbolo identitario. Vittoria all’epoca “mutilata”, oggi rimossa. Eppure da quella vittoria uscì un’Europa diversa, senza più gli Imperi centrali, anche se la pace fu realmente raggiunta solo nel 1945. Le istituzioni politiche italiane non furono all’altezza della situazione né al momento del trattato di pace né dopo, quando nel giro di quattro anni furono assorbite dal Fascismo. Avevano però completato sia pur a caro prezzo l’unificazione della nazione e forgiato nello sforzo collettivo una nuova società italiana. E anche se non priva di difetti, l’azione militare italiana nella prima G.M. fu sicuramente meno confusa che nella seconda, dove erano invece sbagliate le motivazioni, le scelte strategiche, la condotta delle operazioni e la logistica. Ma la classe militare italiana accettò lo stesso di combattere, col risultato di una disfatta totale. E proprio questo peccato originale peserà per anni sulle nostre forze armate, peraltro ricostruite invece che riformate, come furono invece quelle tedesche. Questo per dire che il rifiuto della forza militare stessa in Italia ha una sua storia e forti basi ideologiche, al punto che l’articolo 11 della nostra Costituzione nel 1948 lo mette nero su bianco:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.05 MP AdN Paura di vincere
La politica però non può negare la realtà di un fatto storico. In questo modo invece i programmi scolastici continueranno ad accennare al Novecento senza studiarlo e i ragazzi resteranno nella loro ignoranza, convinti che l’Italia non ha mai fatto una guerra e che soldati aiutano i migranti e le vecchiette. Questa sistematica castrazione simbolica delle nostre Forze Armate va avanti da anni, ma non è dovuta solo alla sconfitta della seconda G.M. Quando ho fatto il militare, in piena Guerra Fredda, nessuno ci chiedeva realmente di combattere, ma la guerra si chiamava col suo nome e dovevamo essere pronti a farla, anche se difensiva. Le parate militari poi duravano ore e per via dei Fori Imperiali sfilavano decine di mezzi pesanti e migliaia di soldati. Mentre ora il video di propaganda delle nostre Forze armate è stato “riveduto e corretto” perché ritenuto troppo bellicista, all’epoca i filmati analoghi mostravano uomini armati e in addestramento, proiettando all’esterno un’immagine di forza militare sicuramente sovrastimata, ma esplicita. Il cambiamento è avvenuto nella seconda metà degli anni Settanta, quando Sandro Pertini era presidente della Repubblica: si approfittò del terremoto in Friuli per dare una nuova motivazione ai militari (all’epoca non c’era ancora la Protezione civile), col risultato che i manifesti e la pubblicistica militare dell’epoca mostrano i soldati all’opera per aiutare la popolazione colpita da calamità naturali, ma senza fucile. Allo stesso tempo si rilanciò l’immagine della Guerra dei partigiani (Pertini lo era stato) e dell’Esercito di popolo (immagine rimossa a fine secolo col passaggio al professionismo militare). Qualche anno dopo l’Esercito trovò una nuova motivazione nell’impegno profuso nelle missioni all’estero (dal Libano nel 1982 in poi), stando però molto attento che nessuno le interpretasse come azioni di guerra.
In realtà in tutti questi anni si è sparato, e anche tanto; ci sono stati anche morti e feriti. Lo dimostrano da sole le motivazioni di tante medaglie al valore, il numero dei caduti e feriti nelle varie missioni c.d. di pace. In realtà ve ne sono state anche di guerra, nel senso che per mantenere o imporre la pace si è dovuto usare anche le armi, ora per difendere se stessi o le popolazioni da proteggere, ora per imporre lo status quo a chi non voleva saperne di deporre le armi. Ma questo la gente spesso non lo sa, né i militari avevano interesse a farlo sapere al di fuori del loro ambiente, dove tutto invece viene narrato in modo esplicito. Ma l’Italia non può rimanere al di fuori dei giochi politici e delle alleanze internazionali, quindi tutto si gioca sempre sul filo del compromesso.