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La Repubblica che non fu

Purtroppo gli italiani frequentano poco la loro storia, e i romani ancor meno…. La Repubblica Romana del 1849 fu il punto più alto del nostro Risorgimento (fra l’altro pubblicò la prima costituzione democratica d’Europa!)… Il 3 Giugno di quell’anno le truppe dei volontari accorse da tutta Europa agli ordini di un certo Garibaldi inflissero, (da porta san Pancrazio al casino dei quattro venti di villa Pamphili) una memorabile sconfitta alle truppe francesi accorse a Roma invocate da papa Pio IX, truppe convinte di entrare in città senza colpo ferire (“gli italiani non si battono” disse con altezzosa sicurezza il generale Oudinot!)…

I volontari inseguirono le truppe francesi in rotta fino a Castel di Guido e le avrebbero rigettate in mare fino a Civitavecchia se Mazzini non le avesse fermate per “non infierire verso i nostri fratelli francesi” e per guadagnarsi le simpatie dell’0pinione pubblica francese… errore strategico gravissimo al quale dovette sottostare Garibaldi!..

Invito i romani che hanno dimenticato la storia della loro gloriosa Repubblica a visitare l’interessantissimo Museo di porta san Pancrazio che descrive minuziosamente tutti i fatti di quell’assedio fino all’inevitabile resa dopo tanta eroica resistenza!

Le parole e le cose

Per un malinteso, il mio articolo sulle bandiere ha attirato su Facebook le folgori della Folgore. Ma vorrei solo ricordare che proprio i parà nel 2008 in Afghanistan furono coinvolti in un incidente di percorso: un giornalista de L’Espresso notò la palma dell’Afrika Korps dipinta sulla fiancata di un mezzo della Folgore e ciò addirittura provocò un’ interrogazione parlamentare. Per i parà quella palma con A e K ai lati era un riferimento alla battaglia di El Alamein (1942) e alle tradizioni del reparto, ma per gli altri un simbolo nazista. E all’epoca la polemica sui simboli non era ancora così feroce come oggi, quando oltre i simboli del fascismo storico si vorrebbe distruggere l’architettura stessa del Ventennio. E perché non si è fatto in questi settant’anni? Semplicemente perché, cancellati i simboli, gli edifici mantengono comunque una funzione che va oltre la forma. Solo la Roma antica è letteralmente sprofondata sottoterra per essere riscoperta e valorizzata molti secoli dopo.

Ma se le immagini sono metafore, lo sono anche le parole, e anche qui andiamo sul pesante. Mi ha sorpreso l’elenco delle parole che il presidente Trump ha bandito ufficialmente dalla comunicazione sanitaria: transessuale, feto, diversità, vulnerabile, diritto, basato sulle evidenze, basato sulla scienza: sette termini che si vuole proibire nei documenti della sanità, con un approccio ideologico senza precedenti che ha già scatenato forti polemiche nel mondo politico e scientifico. Personalmente, quello che trovo più inquietante è la censura sulle due ultime espressioni: significa dar credito non a Galileo, ma alle chiese evangeliche americane e alle paranoie dei loro predicatori nomadi. Ma – a ben guardare –  la deriva fondamentalista l’hanno a suo tempo promossa proprio i “Liberals” con la loro ossessione del politically correct, di fatto una forma di censura che ormai permea il linguaggio e i rapporti sociali e nella versione italiana scivola facilmente nell’ipocrisia. Chiamare “non vedenti” i ciechi non ne ha migliorato la vista, e infatti l’Unione Italiana Ciechi non ha ancora cambiato nome. Sui rom il discorso è diverso, perché “zingaro” ha effettivamente una connotazione negativa e non definisce l’insieme della comunità (gitani, camminanti, zingari, zigani, sinti, korakanè, etc.). E almeno sui poveracci che sbarcano sulle nostre spiagge finalmente si è arrivati a un termine linguistico condiviso: sono migranti. Trovo invece oziose le discussioni di genere: assessora? sindaca? L’italiano permette di scegliere se privilegiare il sesso o la funzione sociale, il resto è politica, la quale piuttosto dovrebbe star più attenta a cambiare le cose invece dei nomi delle cose. In questo i politici sono ostinati: il geografo Tolomei scelse con cura tutti i nomi italiani per il Tirolo meridionale acquisito dopo la Grande Guerra, nomi che ora i sudtirolesi della Volkspartei cercano in ogni modo di cancellare, salvo far scrivere Alto Adige sulle confezioni di yoghurt da vendere nei nostri supermercati. I nazionalisti sono sempre sistematici poi nel cambiare a forza i cognomi o negare addirittura l’identità di un popolo: fino a pochi anni fa i curdi stanziati in Turchia erano semplicemente “turchi di montagna”. E se noi abbiamo italianizzato i cognomi sloveni in Carnia, chi ai tempi di Tito osava dire Zara e Spalato invece di Zadar e Split doveva comunque litigare con i croati, mentre un francese sa benissimo che la sua capitale noi la chiamiamo Parigi né si offende per questo, ma graziosamente francesizza i nostri nomi e cognomi accentandoli sull’ultima sillaba. E’ evidente che nominare significa comandare, e infatti Adamo nella Genesi dà il nome a piante ed animali, ma non potrà mai pronunciare il vero nome del suo Creatore. Né questo modo di vedere il mondo è un’esclusiva dell’ebraismo, essendo presente in molte religioni e mitologie. Per concludere, è bene ricordarsi sempre della massima del filosofo Wittgenstein: attenzione, perché alle parole corrispondono le cose.

 

Bandiere

In merito alla bandiera del Reich esposta in camerata dal carabiniere di Firenze e ben visibile dalla strada è stato scritto molto. Da parte mia osservo che, se il carabiniere si è comportato male, neanche i suoi superiori fanno bella figura: la camerata di una caserma è soggetta a continue ispezioni, per cui è impossibile che nessuno si sia mai accorto di quel vessillo appeso al muro. Forse nella caserma della Folgore ci sarà anche di peggio, ma almeno non è in vista strada. Sia chiaro: la bandiera incriminata non è quella nazista con la svastica al centro, ma quella del Reich, ovvero la formazione statale che ha governato la Germania dal 1871 al 1918, retta da un imperatore e governata da un cancelliere in parte svincolato dal parlamento. Storicamente, le navi della marina tedesca quella bandiera hanno continuato a sventolarla in mare aperto anche dopo quella data, in disprezzo sia della Repubblica di Weimar che del Terzo Reich di Hitler. Altro che neonazismo! Come si vede, i simboli possono cambiare significato politico e per questo vanno storicizzati: tanto per rimanere a casa nostra, il tricolore con lo stemma sabaudo storicamente da emblema del Risorgimento alla fine è divenuto il simbolo della complicità fra il Re e Mussolini, tant’è vero che l’Italia dal 1948 è una repubblica. Che poi ora la bandiera del Reich sia usata dai gruppi neonazisti europei è affar loro, lo definirei addirittura un falso ideologico, esattamente come le croci celtiche che col nazismo e il fascismo non hanno nessun vero legame storico, a differenza delle rune e della svastica. Trovo invece sconveniente che un carabiniere che ha giurato fedeltà alla patria non senta il bisogno di appendere al muro il tricolore e provi invece attrazione per un vessillo che non lo riguarda. E se afferma anche di studiare storia moderna all’università e di essere un appassionato del settore, a maggior ragione dovrebbe essere cosciente della riformulazione ideologica in chiave neonazista dei simboli politici della Germania imperiale. Siamo dunque di fronte a una cultura superficiale, come superficiali sono stati i suoi superiori. Ma è stato anche superficiale il comunicato dove si legge che esporre simboli del fascismo è reato per i civili ma non per i militari: per evitare fraintendimenti, più correttamente si doveva scrivere – come è stato fatto in seguito – che tale reato è di competenza dei tribunali ordinari, essendo la giurisdizione del codice militare di pace circoscritta ai reati specificamente militari, come l’insubordinazione e la diserzione. Al massimo il carabiniere rischia un provvedimento disciplinare.

 

L’Atlantico in canoa

Canoista da anni, mi sono appassionato delle incredibili gesta di Hannes Lindemann, (1922-2015), ma le ho dovute leggere in inglese perché del suo libro, scritto nel lontano 1958, non esiste alcuna traduzione italiana. Strano, vista la quantità e qualità della letteratura nautica pubblicata in Italia. Cultore dei grandi naviganti in piccole barche, ho preso quindi l’iniziativa di tradurre Alone in the Ocean una pagina per sera, per diletto, aggiungendo pure qualche nota in calce. Il testo in inglese è liberamente scaricabile dalla rete, era un peccato non approfittarne. Ancora non ho trovato un editore, ma volevo mettere a disposizione degli appassionati l’esperienza unica di quest’uomo che ha voluto sperimentare i limiti della resistenza fisica e psichica in mare. Lindemann era un medico di professione ed è stato anche pioniere del training autogeno: le sue opere sono state tradotte anche in italiano e godono ancora di una certa popolarità (1). Questa pratica l’ha aiutato a sopravvivere alle condizioni estreme di una traversata oceanica dalle isole Canarie fino ai Caraibi, condotta per 72 giorni a bordo di una Klepper adattata con due velette e un bilanciere, una di quelle canoe tedesche smontabili con intelaiatura in legno e tela cerata che da sempre si vedono in giro per mari e fiumi d’Europa (2). In realtà il nostro eroe ha pagaiato poco, sfruttando piuttosto gli alisei, i venti stagionali chiamati non per niente “trade winds”, i venti del commercio, ben noti a Cristoforo Colombo e a tutti i naviganti oceanici a vela. La canoa di Lindemann è ora conservata a Monaco nel Deutsches Museum, ma quel modello è ancora in produzione, anche se fabbricato con materiali più tecnologici. E’ infatti la tecnologia a marcare la differenza tra Lindemann e gli avventurieri più recenti (3) : non esistevano all’epoca i GPS e i telefoni cellulari, né i pannelli solari e i cibi liofilizzati. Lindemann non aveva radio a bordo, per cui, come altri navigatori solitari dell’epoca, ha trascorso in mare settimane in completo isolamento, soffrendo di allucinazioni e dovendosela cavare sempre da solo nei frangenti più estremi: tempeste, sole equatoriale, mancanza di sonno, disidratazione. Non è stato fortunato con le condizioni atmosferiche e del resto poco poteva fare con una canoa di legno e tela, buona per il turismo nautico, per giunta sovraccarica di viveri in scatola presto eliminati. Ma il nostro eroe scopre subito che il mare offre nutrimento agli audaci e a chi impara a conoscerlo: per sopravvivere, oltre al latte condensato, il pesce crudo e l’acqua piovana possono bastare. In realtà Lindemann non si dimostra sempre un esperto marinaio: zavorra male la prima barca che ha poca chiglia e calcola male il lavoro del timone; un errore fatto comunque anche da capitan Voss, marinaio ben più esperto di lui, il quale con una canoa di legno scorrazzò per il Pacifico all’inizio del ‘900 (4). Usa il sestante e quindi naviga “in parallelo”, ma nel diario di bordo non indica mai la posizione giornaliera, sia pur approssimata. Dimostra invece grandi doti di resistenza fisica, aiutato in questo anche dalla sua professione di medico, che gli permette una completa padronanza del corpo nelle circostanze più estreme, che era esattamente l’obiettivo prefisso. Ma diciamo pure che è stato fortunato, visto che si è trovato per due volte col battello rovesciato di notte in mezzo alla tempesta. E gli è bastato, visto che non mi risultano successive imprese nautiche di Hannes Lindemann.

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NOTE

(1) Come vincere lo stress e come affrontarlo nella vita di tutti i giorni (1976); Sopravvivere allo stress : guida al training autogeno (1978); Training autogeno : il più diffuso metodo di rilassamento (2003)
(2) https://www.klepper.de/de/
(3) Aleksander Doba nel 2011 in 99 giorni ha percorso in canoa il tragitto dal Senegal al Brasile, ma la sua canoa al confronto di quella di Lindemann è un’astronave spaziale.
(4) Gli incredibili viaggi : seguiti da venti consigli sul come governare una piccola imbarcazione in condizioni di mare difficili, non escluso il tifone : considerazioni sui maggiori disastri navali / di Capitan Voss. Ed. it. 1958, ristampati nel 2014.

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Alone at Sea
by Hannes Lindemann (Author)

ISBN-13: 978-1406750799
ISBN-10: 1406750794

Publisher RANDOM HOUSE

Collection universallibrary

Contributor Universal Digital Library

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Denis Mack Smith, l’inglese che amava l’Italia

Denis Mack Smith lo vidi quando ero studente di liceo: al ridotto del teatro Eliseo (oggi Piccolo Eliseo) c’era l’abitudine dei Martedì letterari, e lo storico fu invitato a presentare al pubblico italiano la sua Storia d’Italia dal 1861 al 1969. L’opera era stata pubblicata da pochi mesi ma già aveva creato un vespaio: rifiutata dall’Accademia, piaceva invece al pubblico italiano, sedotto dallo stile semplice della narrazione, dalla precisione delle fonti e dal taglio innovativo dell’analisi storica. Ostile invece la casta universitaria e istituzionale, a cominciare dall’Istituto italiano per il Risorgimento e giù a caduta le varie cattedre di storia moderna. Quando feci l’esame di Storia del Risorgimento nel 1973 con la Morelli – non per niente detta “la vedova di Mazzini” – guai a nominare “l’inglese”. Il testo di base era ancora l’Omodeo, dove c’erano frasi come questa: “<Cavour> da giovane si coricava sognando non di diventare un giorno primo ministro del Regno Sabaudo, ma bensì primo ministro del Regno d’Italia”. Niente di strano che noi giovani fossimo invece affascinati da un testo che, oltre ad essere scritto da un allievo di Trevelyan (molto apprezzato da mio padre), guardava la nostra storia dall’esterno e senza pregiudizi: Mack Smith non era in quota a nessuno, non cercava voti dai partiti né una cattedra universitaria in Italia.
Intanto, i protagonisti del Risorgimento erano riportati alla loro dimensione umana. Dalle scuole elementari fino all’università, nelle piazze e davanti ai monumenti ai caduti la storia italiana era stata per cento anni gestita come una religione laica, con tanto di santi, sacrari, reliquie e miracoli. Che l’unità d’Italia fosse stata un miracolo forse era anche vero, nel senso di essere la risultante di un insieme di circostanze eccezionali abilmente (ma non sempre) sfruttate dalle classi dirigenti e dalle forze che animavano la società italiana. Ma si trattava di uomini, non di santi. E qui Mack Smith smonta la retorica di Stato: Vittorio Emanuele non era il re galantuomo della storiografia di corte, ma un rozzo cacciatore di fagiani e di donne analfabete. Ma anche Garibaldi – assai più onesto del suo sovrano – i figli li ha sempre fatti con donne di bassa estrazione sociale. Cavour? Un abile tessitore – e fin qui lo sapevamo – ma anche meschino e arrivista, e neanche tanto rispettoso del parlamento. Ma nel gioco politico sicuramente era più lungimirante degli altri, anche se gli obiettivi erano in realtà più limitati di quanto la storiografia ufficiale avrebbe fatto credere in seguito. E’ come se Cavour, il Re, Mazzini e Garibaldi si fossero trovati a gestire una situazione che loro stessi avevano creato, forse intuendone le dinamiche possibili, ma senza saperne realmente valutare gli sviluppi e le conseguenze di lungo termine. Il risultato si sarebbe visto dopo: coalizioni deboli e quindi instabilità parlamentare, monarchia tutt’altro che super partes, leggi elettorali tardivamente adeguate alla nuova società, mancanza di rappresentatività di alcune classi sociali e dei cattolici, peso eccessivo dei notabili locali, squilibri sociali tra le regioni (ereditati ma non risolti neanche oggi), politica estera altalenante e infine nazionalismo, militarismo e colonialismo sfruttati in modo spregiudicato per compensare le tensioni sociali e defletterle verso l’esterno. Da buon inglese, Mack Smith nota che l’Italia è l’unico paese che con le colonie ci ha perso: infatti le motivazioni coloniali non erano economiche, anche se da Crispi in poi se ne intuisce la forza aggregatrice sull’opinione pubblica. Stesso discorso con i sacri confini della Patria.
Ma il nostro autore avrebbe ancora scandalizzato il belpaese quando si occupò di Mussolini, attirandosi anche gli strali di De Felice e levandogli il monopolio del revisionismo. A leggere Le guerre del Duce (1976) e Mussolini (1982) c’è da divertirsi, se non fosse in realtà una tragedia nazionale. In sostanza, Mussolini era un opportunista ossessionato dal Potere, prigioniero della sua autoesaltazione, padrone dei mass-media dell’epoca, intelligente in politica ma autocratico e incompetente sul piano militare. Dati alla mano, Mack Smith dimostra che il Fascismo (“parola italiana per un’invenzione italiana”) ha sempre cercato la guerra ma non si è mai preparato per farla, coi risultati che sappiamo. Purtroppo Mack Smith non si è mai occupato di Berlusconi. Ha seguito amorevolmente la nostra storia fin dove la sua cultura e la sua capacità di analisi potevano giungere, poi si è fermato. In fondo è stato onesto. E a suo modo ha amato l’Italia.