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W Il libro elettrico!

Tutti quelli che sviliscono l’e-book esaltando il gusto tattile del polpastrello sulla pagina stampata, annusando con voluttà l’aroma della cellulosa intrisa di inchiostro, del sudore assorbito dalla legatura, sinceramente io li trovo ridicoli: il feticismo è una perversione. Ma soprattutto, si continua a confondere la lettura con lo studio e la consultazione. Leggere un romanzo in poltrona non è lo stesso che dover scrivere un articolo entro poche ore su un argomento specializzato o dover mettere insieme o tenere sotto controllo una documentazione derivata dalle fonti più disparate e voluminose. Che poi i dispositivi per la lettura degli e-book sembra siano stati progettati da gente che legge poco è un’altra storia; si arriverà prima o poi a uno standard accettabile anche in quel campo, a patto che gli elettricisti ne discutano con chi i libri li legge sul serio. Solo a quel punto margini, luminosità e leggibilità raggiungeranno livelli civili. Aggiungo pure che un libro in digitale non può essere la semplice fotocopia elettronica della pagina stampata: a parte il diverso formato e orientamento della pagina, le note devono esser risolte con un link ipertestuale.

Io purtroppo la questione la vedo da un punto professionale: sono un bibliotecario e faccio questo mestiere da molti anni, durante i quali le risorse assegnate – spazio, soldi, personale – si sono sempre più assottigliate, sia per la crisi economica, sia per il disinteresse di politici e amministratori. E’ una situazione comune a molte biblioteche specializzate, e la ricaduta negativa sul servizio è disastrosa. E allora, in mancanza di spazio e personale, ben vengano i documenti che non occupano spazio fisico, si possono trasmettere via email in pochi secondi, sono facilmente accessibili, copiabili e stampabili. E basta con le fotocopie che distruggono i libri rilegati, con le raccolte di leggi e leggine che cambiano ogni giorno, con le annate rilegate della Gazzetta Ufficiale: quei tomi non servono a niente. E se una università tedesca o americana decide di trasferire in digitale l’intero corpus della letteratura latina classica e medioevale, benissimo, purché non si valga di edizioni critiche antiquate (per non pagare il copyright). E se le riviste accademiche fossero stampate in pdf invece che su carta, il risparmio sarebbe enorme, a patto di non cedere i diritti a editori monopolisti come Elsevier o Serra, che fanno pagare un’annata quanto un’auto di seconda mano. E invece ogni giorno mi devo sentire l’elogio della carta da parte di chi non deve tenere in ordine 20.000 volumi, tre quarti dei quali non sono mai stati consultati da nessuno. Quindi, almeno per il futuro cerchiamo di occupare meno spazio possibile.

 

All’estero si va solo in borghese!

Una recente circolare del Ministero della Difesa sospende da oggi le autorizzazioni per l’uso della divisa al personale militare in congedo non in attività di servizio o missione, che vuole recarsi all’estero per significative manifestazioni di carattere militare (gare sportive, incontri di delegazioni militari, raduni, esercitazioni) (1). Finora l’associazione d’Arma di riferimento mandava formale richiesta all’ente o Comando responsabile della manifestazione per il nulla-osta, e tutto poi passava per gli addetti militari d’ambasciata. Ora invece si dice che: “Il mutato quadro geo-politico che ha interessato la comunità internazionale suggerisce di valutare la limitazione dell’uso delle uniformi fuori dal territorio nazionale per i militari in congedo non in attività di servizio. Infatti, negli ultimi anni gli Addetti Militari hanno richiamato l’attenzione circa la necessità di attenersi ai divieti di indossare le uniformi fuori dall’attività di servizio che le autorità internazionali impongono anche ai propri militari”. Terrorismo, dunque: ormai i singoli militari sono diventati bersagli invece che deterrenti, ed è  meglio non creare confusione con la presenza di personale in divisa d’incerta identità, soprattutto all’esterno delle zone militari.

Dopo avervi annoiato, vi chiederete il motivo di tanto interesse da parte mia: ebbene, sono uno di quelli che ha partecipato a gare sportive internazionali indossando la divisa del militare in congedo, e con me centinaia di connazionali che a suo tempo hanno fatto il militare ma amano ancora tenersi in forma. Sia chiaro: nessuno di noi è antimilitarista. Chi è vicino alla frontiera trova molto interessante e poco costoso partecipare con la propria squadra a una gara addestrativa in Svizzera, Baviera, Austria o Slovenia, dove sei accolto dai riservisti locali, ti sposti con mezzi militari, puoi usare armi vere e partecipare ad esercitazioni dure e complesse, entrando in competizione con reparti in servizio e riservisti ben addestrati. Mentre in Italia sei castrato e malvisto dall’inizio alla fine, all’estero hai una dignità. Anche arrivando agli ultimi posti – ma non sempre – la mia squadra si è misurata con reparti di professionisti e nel corso degli anni ha riempito di coppe la nostra sezione del Fante. Altri preferiscono invece andare a sparare nei poligoni militari stranieri perché lì puoi usare armi che in Italia puoi solo guardare anche se sei un carabiniere. Infine, sono venuto a sapere che l’Associazione volontari di guerra (esiste ancora) è assidua frequentatrice della festa della Legione Straniera a Calvi (Corsica). Non stupitevi: chi vuole avere una copertura giuridica spesso s’iscrive ad associazioni morenti, purché riconosciute dal Ministero della Difesa. Il guaio è che spesso non è facile controllare l’assetto formale e la disciplina di certa gente: ho sentito di uno che è andato in giro in mimetica per le vie di Amsterdam, mentre poteva farlo solo in caserma e per la durata dell’esercitazione. Voi direte: per chi sgarra c’è la polizia militare. Ebbene, il problema nasce proprio dallo status dei militari in congedo italiani: esistono associazioni di ex-combattenti e associazioni d’Arma riconosciute dal Ministero della Difesa, ma non esiste la Riserva, quindi giuridicamente i militari in congedo italiani sono solo civili iscritti ad associazioni di diritto privato, le quali accolgono nei loro ranghi anche simpatizzanti che non hanno mai fatto il militare. Partecipare a gare “riservate ai riservisti” senza esserlo è stata una bella acrobazia, finora tacitamente tollerata. Ora la pacchia è finita. So bene che tutto questo piacerà molto alla maggior parte dei lettori e delle lettrici, ma concedetemi – è il caso di dirlo – l’onore delle armi.

 

NOTE

  • La normativa SMD-G-010, sezione VI, regola le disposizioni sui militari in congedo e il regolamento sulle uniformi. La parte riferita all’estero è al paragrafo 31.

Gramsci: a 80 anni un pensiero più vivo che mai

AP Gramsci          Antonio Gramsci è considerato uno dei politici e degli intellettuali italiani più studiati a livello internazionale. A ottanta anni dalla sua morte dovuta alla carcerazione fascista, il 27 aprile 1937, la diffusione internazionale degli studi sul suo pensiero sono in costante crescita. La Bibliografia gramsciana, curata da Francesco Giasi e da Maria Luisa Righi con la collaborazione dell’International Gramsci Society, raccoglie ad oggi 19.828 unità bibliografiche (cioè volumi, saggi e articoli su Gramsci pubblicati dal 1922 e pubblicazioni e traduzioni degli scritti di Gramsci dal 1927, fino ai giorni nostri)[1]. Guido Liguori ricorda che dal 1997 ad oggi, solo in Italia sono stati pubblicati «circa 180 volumi (libri o numeri di rivista monografici) di o su Gramsci, mediamente uno al mese per oltre quindici anni»[2]. Liguori è peraltro autore proprio quest’anno di un interessante volume sugli scritti gramsciani relativi alla rivoluzione russa (della quale ricorre il centenario)[3]. Una nuova biografia è stata invece curata, sempre quest’anno, da Angelo D’Orsi[4], che dal 2015 dirige la rivista “Gramsciana”[5].

La statura intellettuale e politica di Gramsci sembra quindi aver resistito alla crisi del socialismo e del movimento operaio internazionale. Ciò probabilmente perché, come ha scritto Michael Walzer, la vita e le opere dell’intellettuale sardo sono destinate a «sollevare questioni controverse» che derivano «dal rapporto carico di tensione […] tra la scienza marxista e la politica della classe operaia»[6]. D’altronde, quello fra il Gramsci studioso e il Gramsci dirigente politico è un rapporto che difficilmente può essere disgiunto, non fosse altro perché, come ha ricordato Eric Hobsbawm, esso si attuò attraverso il PC(d’)I[7].

Proprio per questo, in un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla crisi di credibilità e di fiducia dei partiti politici tradizionali, la riflessione gramsciana sugli intellettuali, sviluppata nei Quaderni del carcere, assume ancor oggi un evidente significato e, diciamolo pure, un discreto fascino. Si tratta di una riflessione mai disgiunta da quelle che l’intellettuale sardo portò avanti, fra il 1929 e il 1935, sul partito, sul rapporto fra Stato e società civile nei Paesi a capitalismo avanzato, sull’egemonia, ecc.

            Stato e società civile

Di fronte alla sconfitta subita dal movimento operaio e rivoluzionario in Italia e in Europa ad opera della reazione borghese e del fascismo intorno agli anni Venti del Novecento, Gramsci analizza le società industriali occidentali, ritenendo che non sia sufficiente la mera presa del potere politico, ma sia necessaria una battaglia per quella che Walzer ha chiamato «la “conquista” della società civile […] una lotta culturale lunga e faticosa in cui il nuovo mondo soppianta lentamente, dolorosamente quello vecchio»[8].

Questa “guerra di posizione”, questa battaglia per l’egemonia nella società civile sarebbe dovuta essere, secondo Gramsci, la natura dello scontro di classe in Europa dopo la sconfitta della rivoluzione in Europa occidentale[9].

            Il ruolo degli intellettuali

Le funzioni di egemonia e di dominio politico, esercitate rispettivamente nella società civile e nello Stato vengono svolte, secondo Gramsci, dagli intellettuali:

Gli intellettuali sono i “commessi” del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso “spontaneo” dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce “storicamente” dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2) dall’apparato di coercizione statale che assicura “legalmente” la disciplina di quei gruppi che non “consentono” né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo viene meno[10].

Per il comunista sardo, l’attività intellettuale è presente in tutte le attività umane, ma nelle condizioni contemporanee non tutti gli uomini e le donne svolgono quelle funzioni intellettuali mirate al conseguimento dell’egemonia sociale e del dominio politico di una classe sull’altra. Di fronte alla figura dell’intellettuale tradizionale, che si autorappresenta come autonomo e indipendente dalle classi sociali dominanti[11], Gramsci individua un nuovo tipo di intellettuale, definito in base alla sua funzione di organizzatore nella società e in tutte le sfere della vita sociale[12], sebbene sia nelle sovrastrutture dello Stato e della società civile che la loro funzione si dispiega, si struttura e, per certi versi, si rende autonoma (sia nel campo dell’egemonia sociale, sia in quello del dominio statale).

Già durante il Congresso di Lione del PCI nel 1926, Gramsci aveva respinto la concezione (molto diffusa anche a sinistra) dell’intellettuale che «crede di essere il sale della terra e vede nell’operaio lo strumento materiale dello sconvolgimento sociale, e non il protagonista cosciente e intelligente della rivoluzione»[13]. Con le lotte sindacali e le occupazioni delle fabbriche (1920-21), la classe operaia italiana aveva dimostrato nel primo ventennio del Novecento di saper dirigere gli aspetti tecnici della produzione capitalistica; si trattava a quel punto, secondo Gramsci, di acquisire la capacità di dirigere quelli “politici”[14]. Il concetto gramsciano di “intellettuale organico” quindi permette, come ha scritto Walzer, di ricomporre «l’homo faber» con «l’homo sapiens», nell’interesse non di una classe o di un gruppo sociale, ma della «società nel suo insieme»[15].

La teoria gramsciana sugli intellettuali è inoltre interessante anche per un altro aspetto, che (nell’epoca del cosiddetto “capitalismo cognitivo” in cui viviamo oggi) assume un’importanza non secondaria. Secondo il comunista italiano, si stava assistendo a un ampliamento della categoria degli intellettuali, una “massificazione” che «ha standardizzato gli individui […], determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: concorrenza che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazione, superproduzione scolastica, emigrazione, ecc»[16]. L’avverarsi di questa intuizione gramsciana è oggi dispiegato al massimo livello, come dimostra la precarizzazione molte attività intellettuali e/o tecniche specializzate.

Partito politico, rivoluzione passiva ed egemonia

La riflessione gramsciana sugli intellettuali non può essere scollegata da quella sul partito politico e sui suoi rapporti con la classe operaia e con gli intellettuali come massa. Per Gramsci, il partito svolge il ruolo di saldatore «fra intellettuali organici di un dato gruppo, quello dominante, e intellettuali tradizionali»[17]. Un’altra funzione fondamentale del partito è quella di elaborare i propri intellettuali: politici qualificati, dirigenti, militanti, capaci di sviluppare una lotta di classe egemonica in tutti gli apparati egemonici della classe dominante (scuole e università, mezzi di informazione, sindacati, associazionismo, anche la Chiesa, ecc.), e in grado, come è stato ricordato nel paragrafo precedente, di svolgere tutte le funzioni intellettuali previste in una società “integrale” come quella capitalistica[18].

Per Gramsci, chi milita nel partito deve essere al tempo stesso un “dirigente proletario” (alla testa, cioè, delle lotte della classe operaia) e «un nuovo tipo di filosofo», intendendo per filosofia «un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale». Queste funzioni comportano, per l’intellettuale di partito, una costante opera di mediazione fra la spontaneità del conflitto sociale e la direzione consapevole della politica intesa come scienza.

Tuttavia questa “saldatura” non è possibile se non si ha consapevolezza dello Stato, della sua essenza, dei suoi meccanismi fondamentali di funzionamento.

Proprio dagli studi sul Risorgimento e sullo Stato unitario italiano, Gramsci elabora tre concetti principali: il concetto di rivoluzione passiva, che sta ad indicare processi di trasformazione politica guidati “dall’alto” che non rivoluzionano le sovrastrutture, non instaurano un nuovo Stato né un nuovo apparato egemonico; quello di egemonia, inteso come «messa in opera di meccanismi destinati ad assicurare il consenso delle masse per una politica di classe (poggiando, del resto sulla forza)», da non ridurre alla categoria marxista di ideologia dominante, o al concetto weberiano dei meccanismi di legittimazione; a questo, infine, è legato il concetto di crisi di egemonia (detta crisi organica), ossia la strategia attraverso la quale la classe operaia si rende autonoma e si costituisce a sua volta in classe egemone. Questa strategia, come è stato brevemente esposto in precedenza, è la guerra di posizione, «che permette alla classe operaia di lottare per un nuovo Stato»[19].

Conclusioni   

Il tentativo originale di declinare la teoria marxista e la strategia politica leninista sulla base del contesto storico, sociale, politico e culturale italiano, non fu solo fra i pochi particolarmente significativi nella prima metà del secolo scorso, ma ancora oggi riveste una importanza non marginale: il rapporto fra Stato e società civile; la funzione egemonica di una classe sociale dominante attraverso la figura dell’intellettuale “organico” e attraverso la “rivoluzione passiva”; la “guerra di posizione” come processo di “contro-egemonia” delle classi subalterne che producono i propri intellettuali organici e attirano a sé quelli tradizionali; sono cardini interpretativi che ancora oggi, pur in condizioni profondamente mutate rispetto a quelle di 80 anni, possono contribuire non poco alla comprensione dei meccanismi di funzionamento delle post-democrazie contemporanee, e (auspicabilmente) ad elaborare e sperimentare percorsi – chissà, strategie? – di superamento, “rivoluzionarie” avrebbe detto Gramsci.

 

[1]      http://www.fondazionegramsci.org/bibliografia-gramsciana/.

[2]      G. Liguori, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche. 1922-2012, Editori Riuniti university press, Roma, 2012, p. 11.

[3]      G. Liguori, Come alla volontà piace, Castelvecchi, 2017.

[4]      A. D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano, 2017.

[5]http://www.mucchieditore.it/index.php?option=com_virtuemart&page=shop.product_details&category_id=23&product_id=2234&Itemid=4&lang=it

[6]      M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 109-110.

[7]      E. J. Hobsbawm, Note su Gramsci, in I rivoluzionari, Einaudi, Torino, 2002, p. 330.

[8]      M. Walzer, L’intellettuale militante, op. cit., p. 112.

[9]      E. J. Hobsbawm, Note su Gramsci, cit. p. 344.

[10]     A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. 2, Gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 20-21.

[11]     Ivi, p. 16.

[12]     A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. primo (quaderni 1-5), Einaudi, Torino, 1977, p. 37.

[13]     A. Gramsci, La costruzione del partito comunista, Einaudi, Torino, 1971, p. 504, cit. in C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 43.

[14]     A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. 2, Gli intellettuali, op. cit., p. 18.

[15]     M. Walzer, L’intellettuale militante, op. cit., p. 114.

[16]     A. Gramsci, Gli intellettuali, cit. p. 22.

[17]     A. Gramsci, Gli intellettuali, cit. p. 24.

[18]     C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, op. cit., p. 52.

[19]     C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, op. cit., pp. 73-77.

Un premio anglofono autoreferenziale

GL Roma e Anglofonia del Best Practices AwardÈ imperante l’anglofona mania di infiocchettare l’antico e nobile linguaggio italico con contributi british eccessivi e inutili in nome di una cattiva abitudine provinciale molto nostrana, forse con l’idea malsana di rendere più accattivante e intrigante l’enunciato o il discorso da fare. È dimostrato anche con Best Practices Award, non unico in questa usanza, come anche il scegliere di ricevere delle autocandidature piuttosto che monitorare e indagare sulla realtà urbana per scovare quale attività interviene profondamente sul tessuto sociale di una città.

Molte sono state le persone che hanno percorso le strade di Roma lasciando una traccia in ognuno che hanno incontrato, ma non hanno avuto riconoscimenti.

Un premio nato per evidenziare le buone pratiche dovrebbe iniziare con l’utilizzare e promuovere la lingua italiana, come cerca di fare, con risultati altalenanti la Società Dante Alighieri o magari nel suo piccolo Luigi M. Bruno con le sue aspre riflessioni dalle pagine di questo magazine.

Non è necessario utilizzare indiscriminatamente termini come: location, briefing o make-up, quando in italiano abbiamo luogo, riunione o trucco. Può apparire estremistico il comportamento dei francesi che in difesa della propria lingua si esibiscono in traduzioni eccentriche, un esempio è il computer che si trasforma in ordinateur, ma si può curare di più il quotidiano linguaggio. Né è auspicabile ritornare a tradizioni tipiche del bieco ventennio che arrivava, nel suo furore indigeno, a chiamare arzente il cognac e Louis Armstrong in Luigi Fortebraccio!

Una delle buone pratiche per Roma è denunciare il degrado urbano, difficilmente scindibile da quello sociale, capace di dare delle soluzioni per migliorare la vita quotidiana dei cittadini.

Per fortuna Best Practices Award ha un sottotitolo: “Mamma Roma e i suoi figli migliori”, ma appare, come altri premi, accodato all’offrire lustro a chi li conferisce più a chi viene attribuito.

In certi casi basterebbe poco per dare un’immagine differente di Roma, magari l’Atac ne guadagnerebbe curando di più il trasporto pubblico se non in tutta la città almeno nei percorsi “culturali” come l’asse Piramide – Ostiense – Basilica di San Paolo che partendo dalla piramide di Cestio e porta san Paolo, con l’omonimo museo, porta al complesso conventuale e museale di san Paolo, passando per diverse testimonianze di archeologia industriale recuperate a nuove funzioni come l’ex centrale Montemartini a museo o fornaci e vetrerie locali di svago e sedi universitarie, senza dimenticare il lungo e laborioso lavoro di riconversione dei Mercati generali nella città del divertimento adolescenziale e per la promozione culturale.

Forse c’è troppa carne al fuoco con un premio anglofono autoreferenziale che non si scomoda a guardare nel sottobosco di una città fatta perlopiù di apparenza, facendosi sfuggire fragoline e lamponi, perché è meno faticoso aspettare chi si presenta invece di andare a cercare chi se lo merita.

 

Manchester e la sua memoria operaia

AP OlO Manchester 2Se Londra, con la “Gloriosa Rivoluzione” del 1649, è il luogo di nascita della democrazia moderna e del parlamentarismo come sistema politico, Manchester lo è della Rivoluzione Industriale, del movimento operaio e della lotta di classe contemporanea.

Fondata nel 79 d. C. dal governatore romano Giulio Agricola, con l’immigrazione di una folta comunità fiamminga nel XIV secolo, la città inaugurò quella che sarebbe diventata la sua grande tradizione tessile. Il famoso telaio idraulico inaugurato nel 1769 da Richard Arkwright nel suo cotonificio (una cui riproduzione è esposta al Museum of Science and Industry) segnò il destino economico della città (che venne ribattezzata Cottonopolis) e della regione (il Lancashire), dando il via a quella rivoluzione industriale che cambiò la faccia del mondo.

Manchester fu però non solo la prima capitale economica del nuovo capitalismo industriale, ma anche – e di conseguenza – quella della formazione dei primi nuclei di classe operaia. Fu ai lavoratori mancuniani e alle loro drammatiche e degradate condizioni di vita che Friedrich Engels guardò quando scrisse il suo celebre saggio, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), in cui il nuovo ambiente industriale veniva dipinto come un inferno sociale dove i lavoratori, mal pagati e affamati, morivano negli slums, negletti, disprezzati e coartati da una borghesia che li considerava oggetti e non esseri umani. Da questa condizione di subalternità pian piano maturò quella che più tardi venne chiamata la “coscienza di classe”. Il movimento operaio nacque e si sviluppò in tutta la Gran Bretagna attraverso varie fasi: la rivolta individuale; il luddismo; il tradunionismo e gli scioperi; il cartismo; le organizzazioni sindacali e le teorie socialiste.

A duecento anni di distanza il tessuto economico e sociale della città è radicalmente cambiato, non senza profonde crisi: nel secondo dopoguerra la filiera del tessile fu sostanzialmente spazzata via dalla concorrenza asiatica e statunitense, ma fu sostituita da quella dell’informatica (il primo computer fu costruito proprio a Manchester nel 1948). Dopo la depressione degli anni Ottanta, la città vide poi una profonda ristrutturazione urbanistica che la rilanciò come importante centro turistico e soprattutto culturale (con tre sedi universitarie). Ciò non ha, però, impedito alla comunità mancuniana di mantenere e preservare la propria memoria.

 

Un corteo lungo duecento anni di storia

AP OlO Manchester People_s History Museum«Join a march through time following Britain’s struggle for democracy over two centuries»: con questa frase si apre la presentazione del People’s History Museum sul proprio sito web. Allestito in un edificio che nell’epoca edoardiana (1901–1910) era adibito a centro di pompaggio, il museo di sviluppa su due piani in rigoroso ordine cronologico.

Al primo piano lo spazio è suddiviso in cinque sezioni. Revolution (1780-1840), è la parte dedicata alla rivoluzione industriale e alle prime grandi battaglie per il suffragio universale (come quella del 1818-1819 proprio a Manchester, che culminò in una manifestazione di 80mila persone duramente attaccata dall’esercito che fece 11 morti e centinaia di feriti, il famoso “Massacro di Peterloo”). In questa sezione trovano posto anche oggetti personali appartenuti a personalità di spicco del movimento democratico e rivoluzionario di allora, come la scrivania sulla quale Thomas Paine scrisse il suo I diritti dell’uomo (1791). Reformers (1786-1846) è invece lo spazio dedicato alla formazione dei primi due grandi partiti politici, i liberali (Whigs) e i conservatori (Tories), al Great Reform Act (1832) la legge sulla rappresentanza del popolo, e al Cartismo. Workers (1821-1930) e Voters (1880-1945) sono le sezioni più ampie del primo piano. In un tripudio di stendardi sindacali, ma anche di manifesti di propaganda ed elettorali, in questi spazi viene ricostruita la storia delle forme di organizzazione del movimento operaio, dalle prime società segrete, ai sindacati di mestiere, dai primi sindacati industriali al partito laburista e comunista (ma ci sono anche spazi dedicati alla propaganda conservatrice e liberale sui temi del lavoro). Questa parte, che raccoglie anche l’esposizione dedicata alla battaglia del movimento delle donne per il diritto al voto, si conclude con il periodo della seconda Grande Depressione e dei due conflitti mondiali. Infine, al centro della galleria è presente un piccolo teatro, dal quale si possono vedere o ascoltare brevi ricostruzioni audio-video degli eventi caratterizzanti l’esposizione.

Al secondo piano la galleria è costituita da quattro sezioni. Citizens (dal 1945 ai giorni nostri), raccoglie fotografie, manifesti, striscioni, prime pagine di giornali che riassumono la storia delle lotte democratiche e sociali del secondo dopoguerra britannico: dall’epoca del Welfare State e dell’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale a quella del “consenso” ai partiti (1946-1979), dal Thatcherismo alla crisi della politica tradizionale, dall’esplosione dell’immigrazione alle grandi lotte per l’eguaglianza (in particolare i diritti della comunità LGBTQ), per la pace, contro la Poll Tax e contro il nucleare, fino ai grandi scioperi fra i quali giganteggia quello dei minatori del 1984. Banners è una parte dedicata agli striscioni e agli stendardi che, come un po’ nella tradizione militare, venivano issati alla testa della grandi manifestazioni sindacali, pacifiste e per i diritti civili. Accanto a questo spazio è possibile visitare il Textile Conservation Studio, dove per l’appunto vengono conservati e restaurati gli stendardi esposti all’interno del museo. Infine, con Time Off? l’esposizione si conclude con una sezione dedicata alla lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, al sindacato dei calciatori, alle società di mutuo soccorso e al movimento cooperativo. A salutarci mentre usciamo dalla galleria, un juke-box d’epoca manda a getto continuo canzoni di lotta, ma anche brani di musica pop che hanno caratterizzato i movimenti sociali in Gran Bretagna e le loro lotte.

Ma il People’s History Museum non finisce qui: oltre agli spazi per mostre temporanee, allo shop e alla caffetteria del piano terra, nel seminterrato è possibile visitare il vasto archivio, dove vengono raccolti documenti (anche interni), giornali, riviste, pubblicazioni del movimento operaio e democratico, del Partito Laburista e del Partito Comunista.

 

Esplorare il passato per cambiare il presente

AP OlO Manchester 1«Explore the past. Change the future». Questo invece è l’incipit sul volantino informativo della Working Class Movement Library. Situata a Salford, nella contea di Greater Manchester, la biblioteca è stata costruita negli anni Cinquanta del secolo scorso a partire dalla collezione personale di Ruth e Edmund Frow, militanti comunisti, e ora detiene decine di migliaia di libri, opuscoli, archivi, manifesti, striscioni, giornali, dipinti, fotografie, fumetti e molto altro ancora. La collezione copre documenti che riguardano temi che vanno dalla vita lavorativa a quella politica, dalla vita sindacale a quella sportiva. Che si tratti di un ricercatore o una ricercatrice,  che si venga mossi da semplice curiosità per i grandi eventi o la vita comune del passato, chiunque (l’accesso è libero) può non solo consultare l’enorme mole di materiale raccolto nella biblioteca, ma anche partecipare ai numerosi eventi gratuiti che lì vengono organizzati. Entrando nell’edificio, è possibile prendere visione della vasta gamma di documenti collezionati attraverso il display presente al piano terra. Fra questi: 1) le grandi campagne politiche del Paese, dal Cartismo al “Grande Sciopero Generale” del 1926, fino alle proteste più recenti; 2) il lavoro e la vita delle persone che hanno lavorato in fra la fine del XVIII e il XIX secolo (le operaie delle fabbriche di spazzole, i lavoratori della seta, i sarti, i calderai, ecc.); 3) le storie drammatiche di coloro che hanno lottato per le trasformazioni sociali – come Benny Rothman, il militante della Youth Communist League che nel 1932 guidò l’occupazione delle terre di Kinder Scout nel Derbyshire, per affermare il diritto di poter accedere alle aree di aperta campagna (all’epoca vietato); 4) altri importanti eventi come il Massacro di Peterloo, la storia dell’indipendentismo irlandese, la guerra civile spagnola.

Per concludere, il People’s History Museum e la Working Class Movement Library non solo sono due fra i maggiori istituti culturali della città, ma, attraverso metodologie espositive  e strategie comunicative che sfruttano a piene mani anche le nuove risorse digitali, riescono a garantire e preservare la memoria operaia e democratica della città (e del Paese), come confermano le numerose visite, non solo di studiosi e ricercatori, ma di scolaresche e di gruppi di giovani provenienti da tutta l’Inghilterra.