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Costanza Alvarez de Castro: le contraddizione dell’immaginario

In esposizione un corpus di 16 opere costituito da lavori pittorici di formato medio-grande, realizzati ad olio su tela tra il 2020 e il 2021 appositamente per lo spazio della galleria. Protagonisti delle opere sono oggetti, elementi meccanici e strumenti tecnici di varia natura – tra cui eliche, bitte, compassi e calamai – risultati di una raffinata e intensa ricerca artistica. Il lavori oscillano tra un’elegante concretezza materica, data dalla rappresentazione iper-accurata degli oggetti, e una profonda astrazione da cui emerge la sensibilità espressiva dell’artista. Grazie ad una sapiente stesura del colore, gli oggetti ritratti affiorano nei loro toni brillanti da uno sfondo monocromo, che li connette indissolubilmente trasportandoli all’interno di una dimensione altra, uno spazio indefinito i cui confini oltrepassano i limiti reali della tela fornendoci l’illusione di una traccia di infinito tangibile.


Costanza Alvarez de Castro
Dal 20 febbraio al 27 marzo 2021

Roma
Kou.Gallery
via della Barchetta, 13

Informazioni:
tel. +39 0621128870

Orari:
lLun-ven
10:00-19:00
sab 15:19:00

Prenotazione accesso
kou.gallery

A cura di Massimo Scaringella


COLLIGITE NE PEREANT (raccoglieteli perché non vadano perduti)

«I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, custodiscono artefatti ed esemplari nella fiducia della società, salvaguardano memorie diverse per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità per raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario »

Con queste parole ICOM, la principale organizzazione internazionale che rappresenta i musei e i suoi professionisti, annunciava nel 2017 la volontà di ridefinire il suo statuto approvato nel 2007, che definiva il museo nel seguente modo:

    “Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.”

ICOM Italia aveva partecipato assieme a 115 paesi all’appello del MDPP (Standing Committee on Museum Definition, Prospects and Potentials) proponendo una sua definizione di museo. Ne erano state presentate 269.

    “Il Museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, accessibile, che opera in un sistema di relazioni al servizio della società e del suo sviluppo sostenibile. Effettua ricerche sulle testimonianze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità.”

Il finale? Una bufera. La politicizzazione della funzione del museo “per adeguarla al linguaggio del XXI secolo” (Jette Sandhal, direttrice del Museo di Copenhagen e chair del comitato ICOM) non è piaciuta e fra il 70% dei membri ancora non si è trovato un accordo, mentre le dimissioni di molti membri hanno confermato le spaccature interne. Nell’intento di Sandahl e della “sinistra museale” le istituzioni museali dovrebbero aprirsi alle crescenti “richieste di democrazia culturale”, facendo del patrimonio materiale e immateriale accumulato una occasione di critica – e autocritica – delle politiche culturali dominanti. In tal senso, secondo Sandahl, «la definizione di museo deve essere storicizzata, contestualizzata, denaturalizzata e decolonizzata».

Leggendo il testo con gli occhi disincantati di chi nei musei ci lavora, sorprende questo tono messianico, saturo di onnIcomprensive enunciazioni di principio che comunque nessun paese autoritario sarebbe capace di accettare senza chiuder tutto. E se invece dell’ICOM il documento l’avesse stilato papa Francesco? Provate a sostituire “museo” con “chiesa” e non vi accorgerete della differenza. Ma se una definizione circoscritta a un specifico ambito scientifico diventa un’inclusiva frase alla moda, allora vuol dire che qualcosa non funziona. Forse si è messa troppa carne al fuoco: per estendere il senso e  la funzione del museo se ne ottunde il carattere specifico, esclusivo, né questo aiuta un direttore di museo nella gestione ordinaria: al momento di chiedere i fondi o far approvare un progetto, egli potrebbe chieder tutto e il contrario di tutto, ma anche vedersi bloccare un progetto elitario e poco inclusivo, perché tutti i musei dovrebbero dimostrare di rientrare nei criteri della nuova definizione. Vediamoli.

L’esame linguistico del testo individua una serie di termini pertinenti alla vita politica e sociale: il museo è democratizzante (promuove e ostenta sentimenti democratici), inclusivo (valorizza le differenze e offre a tutti le stesse possibilità di crescita civile) , polifonico (unisce voci diverse per suonare e cantare insieme in modo armonico uno spartito condiviso), dialoga criticamente tra passato e futuro,  riconosce e affronta i conflitti e le sfide del presente (obiezione: il museo per definizione conserva testimonianze del passato, il presente non essendo ancora storicizzato). Custodisce artefatti (oggetti prodotti dall’uomo) ed esemplari (campioni, magari da prendere a modello; non è chiaro l’accostamento dei due termini ) “nella fiducia della società” (virgolette mie: il testo inglese recita in trust for society, il che è più chiaro). Diverse sono le memorie per le generazioni future; son garantiti pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutti, in linea con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. I musei poi sono partecipativi e trasparenti, quindi gestiti mediante la partecipazione e in modo trasparente (magari! ndr.) e infatti lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità (il pensiero per il diverso è ossessivo). Il termine collaborazione attiva traduce l’inglese active partnership, ma nei documenti UE non ha una traduzione univoca: partenariato attivo, collaborazione attiva, partnership attiva, sinergie attive, compartecipazione estesa (fonte: eur-lex.europa.eu). Il capoverso finale è prolisso: raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo (e perché non piuttosto la storia di una cultura, di una civiltà, di una nazione?) con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario. Premettendo che molti standard ormai erano già realtà (accessibilità, finalità sociale, abbattimento delle barriere architettoniche, funzione didattica), potremmo dire lo stesso parlando di una scuola, di un centro di ricerca sui cambiamenti climatici, della Casa del Popolo, di GreenPeace o di un orfanatrofio femminile in Somalia.  E’ un  problema di semantica: se i termini usati non sono esclusivi della realtà museale, ma comuni ad altri ambiti o istituzioni, dove risiede dunque lo specifico del museo? Per i Greci, era l’istituzione protetta dalle Muse e per questo esclusiva e sacra, mentre la definizione attuale sembra una fuga in avanti verso funzioni alle quali il museo può concorrere, ma snaturando la sua funzione originaria: conservare per valorizzare e trasmettere. Non a caso, a opporsi a questa nuova definizione sono stati soprattutto i musei europei ritenendola troppo ideologica, mentre quelli africani e sudamericani- chehanno poco da conservare ma molto da dimostrarel’hanno promossa, in modo analogo alla Teologia della Liberazione.Purtroppo la definizione proposta non risponde nella forma ai criteri minimi di una definizione circoscritta chiara, breve e applicabile in tutti i contesti culturali e normativi interessati. Una nuova definizione deve ribadire la necessità della conservazione della molteplicità delle esperienze dell’umanità ma al contempo indicare una direzione di sviluppo non tanto “sostenibile”, quanto praticabile.

Per concludere, si pongono almeno due ordini di problemi: l’applicabilità della definizione di museo quale ora definita e la sua stessa base ideologica. Un museo non solo va caratterizzato rispetto ad altri istituti culturali, ma va anche gestito, per cui si deve anche valutare il ruolo che la definizione assume nel momento in cui entra nelle legislazioni nazionali e conduce a conseguenze non sottovalutabili anche dal punto di vista operativo. Il museo è già di suo una macchina di produzione ideologica, e politicizzarlo ulteriormente ne complica solo la gestione. E qui entriamo nel secondo problema: davvero un museo è quell’istituzione inclusiva che contribuisce alla dignità umana, alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario? Un museo intanto è selettivo per sua natura e deve aver sottesa un’ideologia capace di dare un valore agli oggetti conservati. Questo valore non è univoco: l’ISIS ha distrutto tante opere d’arte in quanto esse per loro erano idoli pagani. Dietro ogni museo c’è uno stato o una nazione, i cui confini sono spesso arbitrari o frutto di guerre. Il destino storico di un popolo è solo un mito politico del nazionalismo di turno: ogni stato nazionale crea artificialmente una propria mitologia delle origini (per noi italiani la Romanità esaltata dal Duce, Alessandro Magno per l’attuale Macedonia del Nord ) valorizzando alcuni episodi, scartandone o rimuovendone altri e negando l’identità delle minoranze. Lo stesso avvenimento storico ha valenze diverse secondo la comunità di riferimento (andate a Vienna al Museo di storia militare: Custoza e Caporetto sono vittorie austriache), niente è scelto a caso: i musei aiutano a costruire l’identità collettiva e quindi non possono essere neutrali. Specialmente i musei di storia moderna sono condizionati dalla politica e quelli di arte antica – spesso frutto di spoliazioni coloniali – danno per scontata la superiorità di un modello culturale sugli altri e il relativismo culturale sposta solo i confini del problema e moltiplica i centri di potere. C’è sempre un conflitto nel modo di interpretare la medesima realtà, e alla fine c’è sempre chi decide per gli altri, quindi nessuno si illuda che il Museo possa essere un’inclusiva macchina per contribuire al benessere planetario. E’ semplicemente uno strumento a cui non deve essere chiesto di cambiare il mondo, ma di trasmetterne la cultura accettandone i compromessi.


Beni culturali: UN FARO CON TANTI FILTRI
http://www.motodellamente.eu/arte/beni-culturali-un-faro-con-tanti-filtri/

Finalmente riappaiono !!!!!

Come fantasmi provenienti da un remoto passato appaiono nella Villa Caffarelli una novantina di reperti facenti parti della grande Collezione Torlonia. Questa raccolta ha una storia interessante, complessa e talvolta oscura.
I Torlonia, di origine francese, giunsero a Roma nella seconda metà del ‘700 ed esercitarono il commercio e soprattutto l’attività bancaria; questa si rivelò particolarmente lucrosa a fine secolo, durante l’occupazione francese, quando tasse, confische ed estorsioni costrinsero le famiglie nobili romane e i grandi ordini religiosi ricchi di terre, palazzi ed opere d’arte ma non di denaro contante a svendere buona parte del loro patrimonio. Ed i Torlonia che disponevano invece di grande liquidità acquistarono di tutto: titoli nobiliari, tenute, ville ed un gran numero di opere d’arte pittoriche e scultoree; entrarono così in possesso di un cospicuo numero di reperti archeologici romani, ceduti da altre famiglie, e molti altri ne acquisirono promuovendo scavi sistematici nei terreni di loro recente proprietà.
A metà ‘800 avevano la più grande raccolta archeologica privata e costruirono in via della Lungara, vicino a Porta Settimiana, un edificio apposito destinato ad accogliere l’imponente collezione. Nel frattempo i Torlonia si erano inseriti tra la più eletta nobiltà romana acquisendo, nei vari rami, i titoli di Principi di Civitella Cesi, del Fucino, di Poli e Guadagnolo. Il Museo Torlonia non era aperto al pubblico e soltanto studiosi, amici e poche persone selezionate dalla famiglia avevano occasione di visitarlo; tale situazione si protrasse fino agli anni ’60 del XX secolo quando i Torlonia decisero di valorizzare la loro proprietà trasformando il museo in una serie di mini appartamenti di gran pregio.
Il mondo culturale dell’epoca si scatenò in un’epica lotta per impedire il misfatto ma i Torlonia con la complicità o l’ignavia dell’allora Amministrazione Comunale tirarono dritto, effettuarono la trasformazione e celarono la collezione in qualcuna delle loro proprietà. Nella primavera del 1992, presso il Palazzo delle Esposizioni, si tenne una mostra dal titolo “Invisibilia”; erano esposte opere scarsamente visibili perché in depositi o in raccolte private e tra loro appariva una selezione di marmi Torlonia. Nel catalogo poi era presentato un progetto di futura esposizione di parte della collezione in vari piani del Palazzo Giraud Torlonia in via della Conciliazione. A fine mostra i reperti sono tornati nei loro “ascosi recessi” e sui marmi Torlonia è sceso nuovamente l’oblio che ora si dirada con l’apparizione di una novantina di marmi nella mostra a loro dedicata.
Le opere esposte sono bellissime e perfette anche perché in parte provengono dalla raccolta Cavaceppi un abilissimo scultore del tardo ‘700 specializzato nel restauro delle statue romane danneggiate secondo il gusto dell’epoca che prediligeva opere perfette da utilizzare per arredamento di interni e giardini. La mostra è stata organizzata dal Ministero e dal Comune con allestimento a cura di David Chipperfield Architects; i Torlonia con il supporto di Bulgari hanno provveduto al restauro di molte statue. L’esposizione è articolata su cinque sezioni che ripercorrono le vicende storiche che hanno permesso il formarsi della collezione.
Si inizia con il Museo cioè con i primi lotti acquistati ad inizio ‘800 e costituenti il nucleo originario ospitato in via della Lungara, seguono i reperti rinvenuti negli scavi nelle varie proprietà, le statue ottenute con l’acquisto di Villa Albani e della collezione Cavaceppi, l’acquisizione della raccolta dei Principi Giustiniani ed infine opere sparse provenienti da raccolte formatesi nel Rinascimento.
La mostra è conclusa scenograficamente da un tavolo con il piano in porfido antico su cui è esposto il primo esemplare fotografico del catalogo della collezione Torlonia. Grandi sono gli entusiasmi destati dalla mostra ma cosa succederà alla chiusura? Dovremo aspettare altri trenta anni per rivedere qualcosa?


Marmi Torlonia
Dal 14 ottobre 2020 al 29 giugno 2021

Roma
Musei Capitolini


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Gli Anni ’60 Oggi

I curatori, per questa edizione della Quadriennale d’arte, hanno selezionato 43 artisti, presentati attraverso sale monografiche e nuovi lavori, con l’intento di delineare un percorso alternativo nella lettura dell’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi.
“Abbiamo voluto connettere gli immaginari degli artisti più giovani e mid-career con le sperimentazioni di pionieri che non sempre hanno trovato posto nella narrazione canonica dell’arte italiana” – dichiara Sarah Cosulich – “Sono artisti che si confrontano e si sono confrontati con diversi campi disciplinari quali la danza, la musica, il teatro, il cinema, la moda, l’architettura e il design, dando vita a percorsi talvolta discontinui ma che arricchiscono la lettura del nostro passato artistico e fortificano quella prodotta nel presente”. E sottolinea Stefano Collicelli Cagol: “Per costruire una mostra visionaria ci siamo ispirati ad alcune linee di ricerca: l’espressione di desideri e ossessioni; l’esplorazione dell’indicibile e dell’incommensurabile; l’indagine delle tensioni tra arte e potere, rappresentate dalla metafora del Palazzo”.

La Quadriennale d’arte 2020 è il risultato di un triennio di lavoro caratterizzato da ricerche, incontri, visite a mostre, analisi di portfolio d’artista e studio-visit in un confronto continuo con la storia dell’istituzione e del suo archivio. Centrali sono stati anche il passato della Quadriennale e il suo rapporto con la città di Roma, la storia delle precedenti edizioni e quella del Palazzo delle Esposizioni.

La selezione degli artisti, rappresentati ciascuno da più lavori in mostra, il raddoppiamento degli spazi espositivi (oltre 4.000 metri quadri) insieme a un allestimento innovativo di Palazzo delle Esposizioni e a un progetto di storytelling sulla storia dell’istituzione, ambiscono a mettere in scena una macchina espositiva che esalti al massimo le opere d’arte e ne favorisca un’efficace leggibilità, dando la possibilità ai visitatori di creare relazioni tra opere, tematiche e approcci.


Fuori
La Quadriennale
Dal 30 ottobre 2020 al 17 gennaio 2021

Palazzo delle Esposizioni
Roma

A cura di Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol

Gli artisti selezionati sono: Alessandro Agudio, Micol Assaël, Irma Blank, Monica Bonvicini, Benni Bosetto, Sylvano Bussotti, Chiara Camoni, Lisetta Carmi, Guglielmo Castelli, Giuseppe Chiari, Isabella Costabile, Giulia Crispiani, Cuoghi Corsello, DAAR – Alessandro Petti – Sandi Hilal, Tomaso De Luca, Caterina De Nicola, Bruna Esposito, Simone Forti, Anna Franceschini, Giuseppe Gabellone, Francesco Gennari, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Diego Gualandris, Petrit Halilaj and Alvaro Urbano, Norma Jeane, Luisa Lambri, Lorenza Longhi, Diego Marcon, Raffaela Naldi Rossano, Valerio Nicolai, Alessandro Pessoli, Amedeo Polazzo, Cloti Ricciardi, Michele Rizzo, Cinzia Ruggeri, Salvo, Lydia Silvestri, Romeo Castellucci – Socìetas, Davide Stucchi, TOMBOYS DON’T CRY, Maurizio Vetrugno, Nanda Vigo, Zapruder.


Beni culturali: UN FARO CON TANTI FILTRI

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La ratifica finale del Parlamento italiano della Convenzione di Faro ( più esattamente: Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, STCE n. 199, 2005) ha creato violente polemiche. E’ quindi il caso di leggersela per intero e analizzarla con calma. Il testo, stilato in inglese e francese, è reperibile in rete anche in lingua italiana (1) anche se il nostro Ministero dei beni culturali ne mantiene in linea una traduzione non ufficiale, il che è già una carenza. Molte le domande inevase: perché ratifichiamo solo oggi una convenzione stilata nel 2005? E perché tra le nazioni che l’hanno ratificata mancano Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Grecia? A tutt’oggi i firmatari sono venti, consultabili in rete, ma mancano all’appello paesi di peso culturale non indifferente. Da noi la firma ma non la ratifica fu stilata nel 2013: all’epoca emersero dubbi sul puro aspetto formale della convenzione (ne abbiamo firmate decine senza mai applicarle) e sugli strumenti attuativi per renderla operativa, argomento particolarmente delicato perché la convenzione, come vedremo, delega molto potere alle comunità locali. E ci si chiede pure se fosse necessaria una convenzione nel quadro del Consiglio d’Europa per attuare quello che dovrebbe già fare l’UNESCO. A leggere comunque il testo integrale s’indovina una mediazione continua che sfuma nell’ambiguità linguistica, accanto a frasi fatte sentite quaranta volte nei documenti ufficiali su cultura e musei, più l’invito tanto attuale allo sviluppo sostenibile.

Ma passiamo al testo. Dopo un lungo preambolo e una serie di riferimenti a documenti ufficiali pregressi, si passa agli articoli. L’art.1 definisce gli obiettivi: riconoscere il diritto all’eredità culturale come inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo;   riconoscere una responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale;   sottolineare che la conservazione dell’eredità culturale, ed il suo uso sostenibile sono funzionali allo sviluppo umano  e alla qualità della vita; ne segue il ruolo dell’eredità culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile e nella promozione della diversità culturale. Infine si fa appello a una maggiore sinergia di competenze fra tutti gli attori pubblici, istituzionali e privati coinvolti. Il termine qui usato è “eredità culturale” (Cultural Heritage) e non “patrimonio culturale” (come  nel nostro art.2 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 – Codice dei beni culturali e del paesaggio). Il termine – tanto caro agli inglesi – è sostanziale: introduce un concetto dinamico nella definizione di cultura e memoria. Né sfugge l’accento dato alla sinergia tra istituzioni e attori vari.

L’art. 2 spiega meglio il concetto di eredità culturale:

  1. l’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi; b.  una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

Come si vede, nel concetto di eredità culturale viene inserita la variabile temporale: la cultura è il prodotto dell’interazione tra popoli e luoghi nel corso del tempo. Sono poi le comunità a identificare quanto vale la pena di trasmettere agli altri, fermo restando il supporto dell’azione pubblica. Nota: nella stampa accademica (nota 2) il termine “comunità di eredità” è tradotto correntemente come “comunità patrimoniale”. Non è ancora disponibile il testo ufficiale approvato dal nostro Parlamento, per cui teniamo presenti le due traduzioni. Si riconosce comunque che tutti hanno un diritto inalienabile all’eredità culturale. Si accenna anche al concetto di  patrimonio  culturale  immateriale quale  processo  collettivo capace di integrare nella memoria sociale anche elementi ancestrali e non immediatamente tangibili come potrebbero essere opere d’arte figurativa.

L’art. 3 definisce l’eredità culturale dell’Europa, in termini molto “pacifisti”:

  1. tutte le forme di eredità culturale in Europa che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività; e, b.  gli ideali, i principi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e facendo tesoro dei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto

L’art. 4 è il più discusso e ha provocato p0lemiche violente. Il titolo recita: Diritti e responsabilità concernenti l’eredità culturale, ma è un testo bifronte: da un lato si garantisce il diritto di trarre beneficio, dall’altro si ha l’obbligo di tutela:

  1. chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento; b.  chiunque, da solo o collettivamente, ha la responsabilità di rispettare parimenti la propria e l’altrui eredità culturale e, di conseguenza, l’eredità comune dell’Europa;

Il comma c poi è la pietra dello scandalo:

l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà.

Quali limitazioni? Che significa protezione dell’interesse pubblico? E quali altrui diritti e libertà potrebbero essere limitati dall’esercizio del diritto all’eredità culturale? Le reazioni violente hanno tirato in ballo il politicamente corretto, l’Islam che si offende, l’identità europea, ma il comma è ambiguo: le limitazioni possono riferirsi sia a un intervento dello Stato a scapito del diritto soggettivo di fruizione del bene culturale, sia a un controllo politico dell’esercizio del diritto all’eredità culturale. Sarebbe dunque possibile aprire un museo del fascismo?

Più ovvio l’art. 5: Leggi e politiche sull’eredità culturale. Le parti firmatarie s’impegnano a promuovere: l’interesse pubblico associato agli elementi del patrimonio culturale (a); a valorizzare il patrimonio   culturale   attraverso la   sua   identificazione,   studio,   interpretazione,   protezione, conservazione    presentazione” (b); ad  assicurare  che,  nel  contesto  specifico  di  ogni  Parte Firmataria,  esistano  le  disposizioni  legislative  per  esercitare  il  diritto  al  patrimonio  culturale, come  definito  nell’articolo  4 (c); favorire  un  clima  economico    sociale  che  sostenga  la partecipazione  alle  attività  del  patrimonio  cultuale” (d); a  promuovere  la  protezione  del patrimonio  culturale, quale elemento prioritario di quegli obiettivi(e); a riconoscere il valore del  patrimonio  culturale  sito  nei  territori  sotto  la  propria  giurisdizione,  indipendentemente  dalla sua origine”(f); formulare strategie integrate per facilitare l’esecuzione delle disposizioni della presente Convenzione”(g).  

L’art. 6, Effetti della Convenzione, concerne le misure tese a salvaguardia dei  diritti  dell’uomo  e delle  libertà fondamentali contenute nella  Dichiarazione  universale  dei  Diritti  dell’Uomo  e  nella Convenzione per la protezione dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Con questo finisce la prima parte del testo. La parte seconda (artt. 7-12) analizza le  principali  Convenzioni internazionali ed  europee che  regolano  il  patrimonio  culturale,  con  particolare  attenzione  al patrimonio  culturale  di  natura  immateriale (definito nel 2003 dall’UNESCO stessa). Tutte le fonti confermano che l’idea di una nuova convenzione tiene conto delle distruzioni causate dalla guerra civile jugoslava e cerca di superare i testi dell’UNESCO, troppo specialistici. Questo spiega frasi scontate in Italia ma non nei Balcani:

  • stabilire i procedimenti di conciliazione per gestire equamente le situazioni dove valori tra loro contraddittori siano attribuiti alla stessa eredità culturale da comunità diverse; c.   sviluppare la conoscenza dell’eredità culturale come risorsa per facilitare la coesistenza pacifica, attraverso la promozione della fiducia e della comprensione reciproca, in un’ottica di risoluzione e di prevenzione dei conflitti;

Gli artt.8 e 9 sono invece attenti all’ecologia: Ambiente, eredità e qualità della vita e Uso sostenibile dell’eredità culturale. L’unico comma innovativo è il c dell’art.8: rafforzare la coesione sociale promuovendo il senso di responsabilità condivisa nei confronti dei luoghi di vita delle popolazioni. Gli altri parlano della necessità di curare manutenzione e gestione in modo corretto, usando materiali adatti e tecnici preparati: qualità degli interventi, principi per la gestione sostenibile e per incoraggiare la manutenzione. Come al solito, più raccomandazioni che vincoli.

L’art. 10 affronta un altro problema: Eredità culturale e attività economica. In sostanza, lo sfruttamento economico di un bene culturale è un valore, a patto di b.   considerare il carattere specifico e gli interessi dell’eredità culturale nel pianificare le politiche economiche; e c.  accertarsi che queste politiche rispettino l’integrità dell’eredità culturale senza comprometterne i valori intrinseci. Il turismo di massa, il folklore reinventato e il falso artigianato non hanno dunque spazio.

E ora passiamo alla terza parte: Responsabilità condivisa nei confronti dell’eredità culturale e partecipazione del pubblico. Artt. 11-14. Si tratta di una serie di raccomandazioni per realizzare quanto scritto prima. Si parla (art.11) della organizzazione delle responsabilità pubbliche in materia di eredità culturale; di incoraggiare (art. 12) l’accesso  all’eredità  culturale  e alla  partecipazione democratica. La novità è l’accento (12.b) su  il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale all’eredità culturale in cui si identifica; c. il ruolo delle organizzazioni di volontariato, sia come partner nelle attività, sia come portatori di critica costruttiva nei confronti delle politiche per l’eredità culturale. L’art. 13, Eredità culturale e conoscenza inserisce giustamente l’eredità culturale all’interno di un sistema scolastico e formativo, professionale e di ricerca. Infine l’art.14 si preoccupa invece di adeguare la cultura ai nostri tempi: alla voce Eredità culturale e società dell’informazione si parla doverosamente di tecnologie digitali, di standard internazionali di catalogazione e gestione dei beni culturali, ma anche di difesa della diversità linguistiche e di lotta al traffico di opere d’arte. Sibillino il comma d: che mai significa riconoscendo che la creazione di contenuti digitali relativi all’eredità culturale non dovrebbe pregiudicare la conservazione dell’eredità culturale attuale ? E’ forse un invito a non buttar via i vecchi schedari di carta e i libri rilegati passati allo scanner? O forse che una copia digitale diffusa in rete ha lo stesso valore dell’originale ai fini della divulgazione e conservazione della cultura? Testo ambiguo.

Le ultime sezioni della Convenzione sono la conclusione di quanto enunciato in precedenza. Parte 4, artt.15-17: Controllo e cooperazione; parte 5, artt.18-23: Clausole finali. Sono impegni che vanno dalla cooperazione internazionale al monitoraggio (tramite un comitato) e allo scambio di informazioni, ma non sembrano particolarmente vincolanti. Unica novità degna di nota è la possibilità di uno Stato di estendere il proprio intervento a realtà nuove ogni volta che se ne presenti l’occasione. Citiamo qui dall’art. 20.b, Applicazione territoriale:

Ogni Stato, in qualsiasi data successiva, può, mediante una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione di questa Convenzione a qualunque altro territorio specificato nella dichiarazione

In calce alla Convenzione, una serie di indicazioni in caso di ratifica.

Conclusioni e/o osservazioni.

  1. Convenzione? Il testo sembra più  un insieme di raccomandazioni, e in Europa di dichiarazioni di principio finora ne abbiamo viste proprio tante. La  stessa relazione esplicativa precisa che le convenzioni quadro definiscono obiettivi generali e identificano aree di azione, non creando alcun obbligo di un’azione specifica e perciò lasciando allo Stato membro la competenza in merito alla forma e ai mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati. Per quale motivo un documento poco vincolante è stato ratificato con tanto ritardo e neanche da tutti? Alla data attuale (settembre 2020) solo 20 stati hanno ratificato.
  2. Nell’articolo 3 si parla per la prima volta di “patrimonio comune dell’Europa” e se ne fornisce una definizione chiara e scevra da religioni e nazionalismi.
  3. Il baricentro si è spostato dagli oggetti agli uomini. C’è un forte accento sullo sviluppo di una società umana più democratica, pacifica e sostenibile. La peculiarità della Convenzione sta, infatti, nel superare la visione di un patrimonio culturale da tutelare soltanto per il suo valore intrinseco o scientifico, per promuovere la concezione di un patrimonio governato da più attori e valutabile anche attraverso l’efficacia del suo contributo allo sviluppo umano e al miglioramento della qualità della vita.
  4. Si riconosce il diritto al patrimonio culturale, ma in che senso e in quali termini di responsabilità giuridica? E come verrà esso  recepito all’interno del quadro giuridico e normativo dei singoli stati europei e del diritto internazionale?
  5. C’è un passaggio importante dalla cultura materiale alla centralità della comunità che di questa cultura si assume la responsabilità della conservazione e della trasmissione. E’ come passare dal museo a qualcosa di più avvolgente e dinamico. L’ICOM (l’istituzione internazionale che coordina i musei) ancora non è riuscita a dare una definizione univoca e aggiornata di museo, ma questa convenzione fornisce interessanti linee guida in argomento.
  6. L’articolo 2.a (vedi) è generosamente onnicomprensivo: la formulazione di patrimonio culturale è talmente estesa che nel concetto di eredità culturale è compreso tutto e il contrario di tutto. Come esercitare realmente le funzioni di tutela e valorizzazione e gestione davanti a una definizione così estesa?
  7. E’ evidente un forte accento su realtà associative non statali o istituzionali: singole comunità locali, associazioni culturali, comunità patrimoniali. Il confronto fra enti di natura diversa non sarà facile: va necessariamente rielaborata una legislazione che coordini forme istituzionali di dialogo tra pubblico e privato per la gestione dei beni culturali o eredità culturale che sia. Da un lato viene esaltata l’importanza della partecipazione attiva delle comunità locali, ma dall’altra vanno perfezionati gli strumenti normativi.
  8. Nell’art.12.b (vedi) si dice che gli Stati debbano prendere in considerazione il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale al patrimonio culturale in cui essa s’identifica, ma in che modo gestirlo? In Italia il modello è fortemente statale e centralizzato, pur essendo l’Italia una democrazia.
  9. La c.d. comunità patrimoniale è trasversale e numerose sono le organizzazioni o associazioni che, alla luce della Convenzione, possono definirsi tali. Sono gruppi flessibili, trasversali e aperti, più o meno spontanei, non necessariamente accomunati da parametri quali la cittadinanza, l’etnia, la professione, la classe sociale, la religione, ma piuttosto uniti da interessi  e  obiettivi simili.  Possono  avere  un’estensione locale,  regionale,  nazionale, sovranazionale; essere temporanei o permanenti; formati da individui che appartengono allo stesso tempo a più gruppi, senza alcuno schema predefinito. Questa impostazione può superare gli schemi classici a cui siamo abituati.

NOTE

  1. https://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1492082511615_Convenzione_di_Faro.pdf
  2. http://paduaresearch.cab.unipd.it/9619/1/Miranda_Martins_Juliana_tesi.pdf
  3. Bibliografia in rete: https://farovenezia.org/materiali/testi-download/