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Omicido Regeni: il triangolo italo-egiziano-britannico

Chiedersi se la vicenda che ha portato all’assassinio di Giulio Regeni sia un caso criminale, politico o un intrigo internazionale può essere plausibile, ma limitante e forse superfluo. I valenti procuratori italiani (Pignatone e Colacicco) che da mesi indagano, per nulla aiutati dalla sponda egiziana e da quella britannica, sanno perfettamente svolgere il proprio mestiere e, ci auguriamo, potranno sciogliere nodi giudiziari della questione. Che però, come dimostrano le varie tappe sviluppatesi nei ventuno mesi successivi al fatidico 25 gennaio 2016, ha valenze geopolitiche non secondarie, con tutti gli interessi, gli intrecci e gli intrighi che questa branca si trascina dietro. E non da oggi. Da osservatori delle questioni di quel Paese sin dalla crisi del regime di Mubarak, alla rivolta di Tahrir e oltre, abbiamo toccato con mano come il susseguirsi di accadimenti vede all’opera soggetti interni (strati della popolazione, partiti e movimenti politici e sindacali, attivisti d’opposizione e di regime, Forze Armate, polizie e mukhabarat) ed esterni (media internazionali, giornalisti, ricercatori, intellettuali, Intelligence e politici stranieri). Un aspetto non nuovo, che ha avuto un crescendo nei quasi settant’anni dalla nascita dell’Egitto moderno.

L’omicidio Regeni coinvolge il nostro impegno d’informazione, oltreché la coscienza civile che ci appartiene ben oltre l’identità nazionale e lo sguardo rivolto anche ai palazzi della politica nostrana ha già evidenziato i comportamenti governativi (prima con Renzi, ora con Gentiloni) nell’agire con uno squilibrato bilancino dell’opportunità economica e geostrategica. Da qui: l’iniziale voce indignata verso il Cairo, il segnale del ritiro dell’ambasciatore Massari e l’acquietamento col rinvio dell’ambasciatore Cantini. Tutt’attorno interessi economici su commesse e partenariati di varia natura (forniture di armi, sfruttamento di giacimenti di gas, lancio e rilancio dell’affarismo turistico), con l’aggiunta di attuazioni di piani di sicurezza internazionale su scenari di conflitto, riguardanti anche il jihadismo dell’Isis, e l’annosa questione del traffico di profughi e migranti. Connessione diretta con la vita e la morte dello studioso friulano? Non del tutto, ma il palcoscenico egiziano degli ultimi anni offre una buona quantità di addentellati. Perché Giulio osservava e studiava aspetti della società su cui poggia, come su altri scenari, l’attenzione dell’establishment di quel Paese. E chi ha toccato, anche solo come narratore, la realtà di questi anni ha ricevuto e riceve dalle forze della sicurezza un trattamento draconiano.

I giornalisti di Al Jazeera Greste, Fahmy, Mohamed, fino all’attuale tuttora in galera Mahmoud Hussein, ne sono un esempio. Certo, trattati con autoritarismo brutale non giunto sino alla tortura e all’uccisione, che invece, ben prima di Giulio ha stroncato l’esistenza di oppositori, attivisti e blogger, egualmente rapiti, spariti e non più ritrovati. La sequela di atrocità rivolte all’apolitico Khaled Saeed, mese dopo mese, anno dopo anno, s’è abbattuta sul copto Mina Daniel e sullo sheik Emad Effat sino a stroncare la laica Shaima Al-Sabbagh, tutte vittime di quella repressione di strada che ha affiancato e preparato il sistema dell’omicidio di Stato più o meno occulto. Fra i primi ottocento morti della rivolta di Tahrir e lo strazio di Regeni, si contano – da qualche mese lo dicono in tanti, eppure se si torna al biennio 2011-2012 l’informazione mainstream raccontava altro – migliaia di vittime e di sparizioni, decine di migliaia di arresti, in gran parte immotivati. O motivati solo dall’essere oppositori, prima di Mubarak poi di Suleiman e del Consiglio Supremo delle Forze Armate, quindi del nuovo restauratore, il generale Al-Sisi, dipinto da liberali e dalla stessa sinistra egiziana come il liberatore dallo spettro della Fratellanza Musulmana.

Oggi, sulle pagine de la Repubblica, gli ottimi Bonini e Foschini, evidenziano i contorni omertosi della tutor di Regeni presso l’Università di Cambridge: Maha Mahfouz Adbel Raham. La docente che indirizzò il dottorando friulano verso la ricerca sul sindacalismo indipendente degli ambulanti (nel cui ambiente il giovane incrociò l’informatore della polizia che lo denunciò). Secondo i sospetti dello stesso Regeni la donna sarebbe stata un’attivista e nei contatti cairoti lo avrebbe indirizzato verso un’altra attivista (la professoressa dell’American University Rabab Al Mahdi) ben nota alla polizia locale. Da quest’ottica, pur confidando in un cambio di posizione della tutor anglo-egiziana che potrebbe offrire un contributo ai nostri magistrati, il mistero sulla morte di Regeni non muta. Anzi, viene a confermare quel che da tempo è evidente nei comportamenti di Al Sisi e dei collaboratori di governo, il ministro dell’Interno Ghaffar su tutti: mettere attivisti, ricercatori, giornalisti nella condizione di non nuocere, con ogni mezzo. Crediamo all’affermazione dei genitori di Giulio che lui fosse animato dal solo desiderio di studio. Bisognerà scoprire se gli intenti di Maha Mahfouz Adbel Raham si fermassero lì. Indubbiamente nella fobìa di regime questo poteva già bastare per stroncare ricerca e ricercatore.

In tal senso Giulio diventa doppiamente vittima, dei suoi aguzzini e di chi voleva trarne vantaggio, utilizzando la ricerca sul minatissimo campo diretto, per altri fini. Questa è comunque un’ipotesi, che fra l’altro ha bisogno di un riscontro di una sua vera utilità sulla politica egiziana. Chi vive in loco, e prova ad agire politicamente, conosce benissimo la realtà e ben pochi vantaggi può trarre da una simile indagine. Utile, invece, a una lettura dall’esterno dell’attuale fase. Nel controverso rapporto di ricerca-studio-lavoro che Regeni ha avuto in terra britannica c’è anche l’ormai nota  collaborazione di circa un anno (fra il 2013 e il 2014) con Oxford Analytica, una delle strutture di consulenza geostrategica mondiale. Organismo che sta nelle attenzioni dell’MI6 britannica, che in non pochi casi ha visto l’Intelligence scegliere dalle file dei ricercatori elementi a lei utili. E’ l’antefatto, indicato da alcuni cronisti anche italiani, d’un Regeni collaboratore dei Servizi, che tanto ha fatto arrabbiare i familiari dello scomparso. Se gli interessi di Giulio sono quelli ricordati dalla madre Paola, potrebbe anche qui risultare aggirato contro la sua volontà. E il suo distacco da quella collaborazione potrebbe essere scaturito dal rifiuto di prestarsi a simili scopi.

Come per il caso della tutor, potrebbe essere Graham Hutching, uomo più in vista della Oxford Analytica, a offrire agli inquirenti notizie. Sebbene si sa che se si lavora per taluni organismi difficilmente si è disposti a svelarne piani e progetti.  Eppure fra triangoli e misteri, nel martirio dello studioso di Fiumicello, resta una certezza finora non indagata: la responsabilità dei vertici politici, prima che polizieschi, del Cairo. Partire da lì o all’inverso arrivarci sarebbe la giusta strada per la “verità per Giulio” e per la sua “giustizia” che incredibilmente gli attuali cartelli di Amnesty International sembrano aver archiviato.

Pubblicato giovedì 2 novembre 2017
Articolo originale

Migrazione: Conflitti e insicurezza alimentare

Nell’estratto del recente rapporto The State of Food Security and Nutrition in the World 2017 (Lo Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo) redatto dall’Onu con la FAO, WFP (Programma alimentare mondiale) IFAD e al quale per la prima volta hanno collaborato anche Unicef e Oms, viene messa in risalto la correlazione tra insicurezza alimentare e migrazione. Un’insicurezza alimentare dovuta più ai conflitti che direttamente da situazioni di carestia.

Una correlazione che è stata al centro della Giornata mondiale dell’alimentazione dello scorso 16 ottobre, promossa dalla Fao, per investire nella sicurezza alimentare e nello sviluppo rurale dove Ifad (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo), la terza e più giovane delle agenzie Onu che si interessano di alimentazione, è impegnata nel trasformare l’agricoltura e le comunità rurali per porre entro il 2030 fine alla fame e garantire un accesso sicuro al cibo nutriente e sufficiente per tutto l’anno.

Una meta che sembra irraggiungibile se i conflitti e i cambiamenti climatici hanno aumentato, dopo una costante diminuzione, il numero delle persone che soffrono la fame, raggiungendo circa 815 milioni, pari all’11% della popolazione mondiale.

Sono 38 milioni di persone in più rispetto all’anno scorso vittime, come dimostrano i recenti appelli di aiuto dalle città siriane poste d’assedio, della proliferazione di conflitti o per quei migranti “trattenuti” sulle isole greche dell’Egeo, ma anche tutta quell’umanità bloccata in Turchia o nei campi libici che non ha accesso regolare ai generi alimentari e medicine.

Mentre nell’Occidente sono circa 41 milioni di bambini ad essere in sovrappeso nel Mondo sono circa 155 milioni di bambini di età inferiore ai cinque anni non hanno una crescita regolare (troppo bassi per la loro età) e 52 milioni soffrono di deperimento cronico, che significa che il loro peso non è adeguato rispetto alla loro altezza.

Da una parte i conflitti, con i cambiamenti climatici, ad opporsi alla vita serena di milioni di famiglie e dall’altra sono i mutamenti nelle abitudini alimentari a tracciare per gli “occidentali” un futuro di obesità e malattie cardiache condite con il diabete.

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Qualcosa di più:

Cibo: senza disuguaglianze e sprechi
Spreco Alimentare: iniquità tra opulenza e carestia
Cibo per molti ma non per tutti

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Marocco: tra opere faraoniche e rivolte berbere

Il paese di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici

di Ilaria De Bonis

Il Marocco di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici. Architetti di fama internazionale e finanziatori cinesi fanno a gara per attribuirsi la paternità delle Grandi opere. Mentre nel Rif berbero non si placa la rabbia del movimento Hiraq. Come convivono baraccopoli e parchi industriali? Pescatori poveri e super lusso? Questo è un ‘grande salto’ dalle bidonville di Casablanca ai villaggi del Rif, dal Mall più grande d’Africa alle coste berbere.

Morocco mall a Casablanca

Col suo perimetro elicoidale, tre piani di megastore su 250mila m² di superficie, palme vere e un gigantesco acquario (40 specie di pesci), il Morocco mall di Casablanca è il secondo centro commerciale più grande d’Africa.

Un transatlantico Dubai style in pieno deserto. Sale ristorante da mille e una notte, più di 600 brand di gran lusso. Cinema multisala. Camere d’hotel, hall per i ricevimenti.

L’architetto che l’ha ideato è italiano e si chiama Davide Padoa. Ha firmato anche altre opere faraoniche con la Design International: è suo il Cleopatra Mall de il Cairo per i turisti del Golfo.

“Il sito per il Mall di Casablanca presentava già una forma allungata – racconta Padoa, ricordando di come dal deserto delle corniche marocchine ha avuto per la prima volta ‘la visione’ a forma di otto – Così ho immaginato qualcosa di cui si potesse vedere l’inizio ma non la fine. Mi è venuta l’idea di disegnare una facciata curva e lunga, dove il centro della curva è lontano dal mare, e camminando lungo l’edificio non vedi la fine”.

Lui la chiama ‘idea filosofica dell’infinito’. Ma di infinito questo transatlantico su terra ferma possiede soprattutto l’impronta ecologica.

Tuttavia le trovate dell’architetto dal gusto ‘emirico’ sono perfettamente in linea con gli sfarzi architettonici di un Marocco che vuole stordire i sensi.

Modificando anche la skyline delle città imperiali. I nuovi materiali vanno dal cemento ai marmi alle plastiche. “Conobbi Re Mohammed VI ad un evento privato – ci racconta Padoa in una intervista – organizzato da Madam Selwa Akhannouch, durante la fase conclusiva del progetto. Per il gruppo Aksal abbiamo in seguito progettato altri tre mall, uno a Rabat, uno a Marrakech e uno a Tangeri. Ma Aksal è tuttora alla ricerca di finanziamenti per poterli sviluppare”.

Padoa insiste sull’estetica: “Sono stato profondamente colpito dalla ricerca del bello della signora Selwa, e dalla sua sete di design di qualità”.

A fargli compagnia, nel firmamento delle archistar amiche, c’è Rachid Andaloussi, che firma CasArt, il nuovo Teatro a Casablanca, il più grande del Marocco. Sorge su una superficie di 25mila m2 e lo spazio all’aperto può contenere 35mila persone.

Le sale interne sono tre e quella degli spettacoli teatrali ospita 1800 persone. Niente a che vedere col Mall: il teatro di Casablanca si ispira comunque ad altri criteri.

Predominano il bianco, il legno, le terre. Gli architetti parlano di «un dispositivo scenografico urbano trasformabile”.

Eppure la città è completamente trasformata rispetto agli anni Novanta. Distrutte alcune icone architettoniche (come la villa Mokri e il teatro municipale). Costruiti hotel, parchi industriali e torri. A ribadire la grandezza del regno.

“L’organizzazione delle nostre città racconta quello che siamo, come condividiamo il nostro spazio. E che tipo di cittadini saremo un domani – spiega la scrittrice marocchina Leila Slimani – E’ evidente che la cultura popolare ha abbondonato le città in Marocco. I soldi, il consumo, l’ostentazione sono diventati i principali svaghi”.

A goderne sono soprattutto i molto ricchi e le classi medio-alte. Mentre nelle bidonville di Casablanca e Rabat le famiglie vivono ancora in cubetti di muratura e lamiera.

Largo ai sino-marocchini

Ma chi finanzia tutto lo sfarzo delle grandi opere? Mohammed VI ha stretto già da qualche anno un sodalizio finanziario abbastanza solido con banche e mecenati cinesi.

Il sito istituzionale di Morocco World News non manca di segnare la cronaca di ogni stretta di mano con il partner asiatico.

Come quella che ha portato a progettare, per un miliardo di dollari, ad est di Tangeri, una nuova città imperiale completamente high tech: “Il progetto si estende su 2mila ettari di terreno, oltre all’area residenziale collegata alla ferrovia e ad una rete di autostrade. Tra i primi progetti industriali previsti ci sarà quello dei bus elettrici e delle componenti aeronautiche”.

La mania dei mega-parchi industriali (ancora sulla carta però) sembra contagiare l’intero Nord Africa che si ‘golfizza’.

Ed appare anche la risposta più immediata del Re di Rabat alla povertà di zone a lungo trascurate come quella del Rif berbero.

“La Tangier Tech City di Mohammed VI sarà realizzata tramite un accordo con la Regione di Tangeri -Tetouan Al Hoceima, e il gruppo cinese Haite e la Bmce bank», afferma il ministro dell’industria e del commercio Moulay Hafid Elalamy.

In realtà queste opere hanno un dubbio impatto ambientale e un incerto effetto moltiplicatore del reddito.

Dalla povertà estrema e dal disagio dell’isolamento – come denunciano i pescatori poveri di al-Hoceima dopo la morte di Muchine Fikri – non se ne esce con i finanziamenti miliardari diretti all’industria e al turismo elitario.

Ma con la pazienza certosina delle cose ‘piccole’. Degli investimenti in scuole, ospedali, elettricità e piccole attività artigianali. Col microcredito, la promozione dei mercati e delle attività locali. E soprattutto con la formazione e l’istruzione dirette ai più giovani.

La strategia cinese invece punta ad altro. Sta ridisegnando le città africane (e anche i villaggi) con lo stesso criterio che ha adottato in patria. Ossia: trasferire la gente dalle campagne alle periferie.

“Negli ultimi nove anni – scrive l’Herald – la Cina ha pubblicato due documenti che spiegano la sua strategia in Africa. Pechino fa chiaramente sapere che non è interessata ad interferire con la politica interna degli Stati africani ma ha due priorità: la modernizzazione agricola e lo sviluppo industriale”.

Le grandi opere e il turismo d’elite si inseriscono in questo quadro.

In Marocco le periferie povere, come Sidi Moumen a Casablanca, restano grosso modo dove erano. Però tutto attorno crescono strade, autostrade e infrastrutture.

Questa modernità che costa, stride con la semplicità della vita rurale o periferica.

“Nei quartieri svantaggiati assistiamo ad una crescita folle, ad una vera follia speculativa e immobiliare”, spiega ancora Leila Slimani. “Gli edifici venuti su dalla terra, arrivano fino all’Oceano (il riferimento è appunto al Morocco Mall ndr.), la pianificazione territoriale de la corniche, la ferrovia e la ristrutturazione dei parchi, la creazione di tunnel e la riabilitazione della medina, lo sviluppo di enormi centri commerciali: la città cambia faccia ad un ritmo folle”.

Trappole per topi in bidonville

Molti altri mondi, quelli delle periferie dolenti, sono lasciati a se stessi, nascosti e invisibili agli occhi; sono le bidonville appena fuori città o ai suoi margini.

Come Al Manzah, tra le 500 baraccopoli di Casablanca. “Sovrastate da palazzi alti cinque piani, le famiglie vivono schiacciate dentro quelle che sembrano delle gabbie di legno per conigli ricoperte da lastre di metallo all’altezza delle loro teste. Il percorso, a tratti, è così stretto che siamo costret¬ti a camminare in fila indiana mentre ci facciamo largo tra i rampicanti sparsi un po’ ovunque”, scrive Andrew Connelly per Cafè babel.

“Nonostante il governo affermi che ci sia stato un ‘significativo progresso’ nella bonifica dei bassifondi – scrive Connelly – si stima che, solo a Casablanca, ci siano ancora più di 111mila famiglie stipate in oltre 500 baraccopoli. Se un giorno una rivoluzione prendesse piede nel paese, i distretti come Sidi Moumen sarebbero il focolaio della rivolta”.

Il 16 maggio 2003 Casablanca venne mutilata da un attentato kamikaze multiplo ad opera di cinque ragazzi tra i 20 e i 25 anni. Che ne feriscono la terra, le coscienze e i sogni. I protagonisti di quest’atto terroristico che uccide 41 persone è rivolto contro i simboli dell’Occidente.

I kamikaze vengono tutti da Sidi Moumen, agglomerato di baracche in lamiera e legno o muratura, a ridosso di un’enorme discarica. Fetidi effluvi e immondizie disseminate ovunque. Puoi non vederli se sei in città. E della città puoi non accorgerti se sei dentro Sidi Moumen.

“Potevi passeggiare per il nostro quartiere senza nemmeno accorgerti che esisteva. Un alto muro merlato in terra battuta lo separa dal boulevard dove un flusso ininterrotto di macchine fa un rumore infernale. In quel muro avevamo cavato fessure simili a feritoie dalle quali potevamo contemplare a piacere l’altro mondo”.

Inizia così Il grande salto, bellissimo romanzo di Mahi Binebine, ambientato per l’appunto a Sidi Moumen. Lo scrittore immagina di penetrare nelle vite e nei sogni dei protagonisti di quell’azzardo verso la morte. Che distruggerà alcune vite, oltre alle proprie.

E così si dipana la storia – a tratti commovente, lucida, intima – di Yashin (che racconta in prima persona), Nabil, Hamid e gli altri.

Sono le stelle di Sidi Moumen, un giorno reclutate dagli emiri (fondamentalisti islamici che li seducono e li spingono alla morte).

L’autore tradisce una conoscenza non solo dei luoghi, ma delle dinamiche sociali e psichiche: un preziosissimo indizio per interpretare tutti ‘i grandi salti’. Anche quelli delle città europee, tra giovani radicalizzati e in cerca di Paradiso. Istruiti a distanza tramite internet e i social.

In ogni bidonville che sia vicina o lontana dall’Europa, si fa l’abitudine alla barbarie. Alla bruttezza fisica, estetica e morale. E’ un’abitudine anche alla morte e alla violenza. Perché porta con sé la normalità della mancanza di dignità.

Però è anche un’occasione di condivisione e amicizia. Di destini comuni. Per i ragazzini, i giovani senza famiglia e quelli che hanno famiglie spezzate, la baraccopoli è destino collettivo. Su questo fanno perno i progetti di sviluppo rivolti alle periferie marocchine.

E su questo fanno perno pure i seminatori di morte. Sono due forze educative in concorrenza che puntano allo stesso obiettivo: i piccoli.

“Il miracolo di Sidi Moumen – dice il protagonista de Il Grande Salto – è la strana facilità con la quale ci si adattano i nuovi arrivati. Provenienti da campagne inaridite e da metropoli voraci, cacciati da un potere cieco e dai benestanti sanguisughe, scivolano nel calco di una rassegnata disfatta, si abituano al lerciume, si spogliano della loro dignità, imparano a cavarsela, tirano a campare”. Ma anche: «nonostante la fame dispieghi i suoi tentacoli, serrandogli il collo fino a soffocarli, a Sidi Moumen non uccide, perchè la gente divide ciò che possiede. Perché le persone misurano a vicenda la loro comune disperazione”.

Parola ai ribelli del Rif

E la disperazione più grande, oltre alle baraccopoli del Marocco più centrale, sta nel nord berbero. Da sempre trascurato.

Lo scorso 24 ottobre il re ha licenziato tre ministri per via dei ‘ritardi’ nello sviluppo dell’area del Rif, che da un anno esatto è in protesta permanente. Si tratta evidentemente di un capro espiatorio per placare gli animi dei rivoltosi. Ma non basta a fermare il movimento Hirak.

Nawal Ben Aissa è diventata un po’ la portavoce ufficiale del movimento sociale spontaneo hirak, da quando l’altro leader carismatico Nasser Zefzafi è stato arrestato con l’accusa di sobillare il popolo e dividere la comunità islamica.

Trentasei anni e quattro figli, capelli biondi e lisci, niente velo, Nawal è l’eroina del Rif. Sulla sua maglietta bianca è ritratta l’immagine dell’eroe degli anni ’20: Abdelkarim e-Khattabi.

Le forze dell’ordine al soldo di re Mohammed VI, che con l’arresto di Nasser e di molti altri pensavano d’aver interrotto il crescendo di contestazioni, si ritrovano tra le mani un osso ancora più duro.

Gli attivisti di hirak (sostanzialmente gli abitanti berberi dei villaggi, dagli studenti ai pescatori; dalle donne con figli ai blogger ai disoccupati) dal 28 ottobre scorso (giorno della morte del pescatore Mouhcine Fikri) riempiono le piazze con le loro rivendicazioni.

Chiedono “sanità, scuola e acqua. Cibo e case”. Il movimento nasce spontaneamente subito dopo la morte di Mouhcine, rimasto rimane stritolato dai meccanismi del veicolo della nettezza urbana.

Da quel momento in poi è stata guerra aperta nel Rif. Gli altri pescatori e poi tutti gli abitanti del villaggio ogni giorno manifestano contro un governo che chiamano ‘corrotto’. E’ come se si fosse aperta una voragine e data la stura al risentimento popolare.

Il re è nudo. L’imam pure

Sono due le parole forti che stavolta accendono gli animi delle fazioni in Marocco. Una è la parola fitna (che sta per dissenso, litigio o anche scontro teologico). E’ l’accusa rivolta dal re a Nasser Zefzafi e agli altri ribelli di hirak.

Vuol dire molte cose questa parola e soprattutto colora la rabbia di una sfumatura religiosa. I rivoltosi di hirak non risparmiano infatti le critiche agli imam. Sono molto religiosi anche i ribelli. Basti pensare allo stesso Nasser che per certi versi è di un tradizionalismo quasi talebano.

Ma il loro integralismo li porta a contestare in moschea gli imam che pensano che le moschee “siano più di Dio che dei poveri”, come ha gridato Nasser Zefzafi alla folla poco prima d’essere arrestato.

Contestano un’autorità, quella del re, che per statuto sarebbe discendente di Maometto ma che, dicono loro, fa solo i propri interessi.

Per i berberi del Rif un re che non guarda al bene dei suoi sudditi e un’autorità religiosa che predica senza tener presente le reali richieste della gente povera, non sono “rispettabili” da un punto di vista coranico.

Ed ecco che si tirano addosso l’accusa di fitna. Nasser Zefzafi critica il makhzen, l’amministrazione reale, e fa da stimolo all’identità rifaine attraverso video postati su facebook.

Il governo marocchino lo accusa di mettere «a repentaglio l’integrità territoriale del Paese e di ricevere fondi dall’estero per i suoi scopi». Questa loro rivendicazione è molto azzardata, rischiosa. E nuova.

Ma è anche un’arma a doppio taglio. Perché consente al governo di metterli più facilmente sotto accusa.

“Quando i manifestanti reclamano ospedali e scuole e attaccano la corruzione governativa, le autorità marocchine difficilmente possono fermarli. – spiega Pierre Vermeren, ricercatore dell’université Paris-I-Panthéon-Sorbonne – Ma l’accusa di fitna invece può consentire allo Stato di intervenire. Dice implicitamente che i rifaine sono dei cattivi musulmani, corrotti da un islam rigorista”.

Non lascia indifferente un credente islamico questa onta di dividere e sostanzialmente creare malumori e rotture all’interno della comunità dei credenti.

Imzouren: città fantasma dopo il terremoto

Ma c’è quell’altra specialissima parola che è hogra. Umiliazione. E i ribelli la usano assai spesso.

E’ l’umiliazione subita storicamente dal Rif prima negli anni di rivolta anticoloniale e poi subito dopo, con una monarchia (quella di Hassan II) che ha sempre marginalizzato e non amato questa regione del nord berbero.

Hogra che è andata avanti fino al 2004, quando un terremoto ha distrutto parte della cittadina di Imzouren, e ucciso 600 persone e però non ha mai visto una seria ricostruzione.

Hogra del 2011 con la primavera marocchina, messa a tacere da un re riformista che ha prontamente prodotto una Costituzione per certi versi più garantista della precedente.

E infine la hogra dei pescatori poveri del 2016. Il ribelle ventiduenne Nasser dice: “Noi abbiamo tre cose sacre: dhamwath, dhamghath, dhasghath», ossia la nostra terra, le nostre donne e i nostri diritti.

E questi ultimi sembrano proprio messi da parte. Ma l’umiliazione non è solo quella di Al Hoceima. C’è anche Imzouren che fa appello alla sua Storia e non è più disposta a subire.

Cittadina piccola e arida, che sorge a quindici chilometri da Al Hoceima. Negli ultimi mesi le proteste si sono estese anche qui, sebbene la stampa ne abbia parlato meno.

La foto simbolo di questo villaggio-fantasma è lo scheletro di un ospedale. Quello che dal 2004 avrebbe dovuto essere portato a termine e invece è rimasto fermo. Come un segno indelebile. Ne parla la stampa locale, tra gli altri il Courrier Picard e Desk, che dedicano dei reportage ai moti di giugno.

I giovani manifestanti si fanno ritrarre davanti alla carcassa del grande ospedale mai terminato: «è così da tantissimi anni», dice Mohammed, poco più che ventenne. I lavori sembrano essersi arenati. Fermi ad un punto morto. Il bianco della facciata nel frattempo è diventato grigio.

Ricordando la toponomastica di questo villaggio di 40mila persone i giornali scrivono che “è un aggregato di costruzioni cubiche disperse all’interno di un paesaggio roccioso ai piedi delle montagne”.

Ed in effetti guardando i video postati su youtube e le foto, Imzouren somiglia davvero ai martoriati centri abitati di certi Paesi arabi bombardati.

Una città fantasma, un po’ per via del terremoto di 13 anni fa che l’ha rasa al suolo, per vedere ricostruita in fretta e furia solo la periferia trasformata in bidonville; un po’ perché i suoi abitanti in effetti sono emigrati in gran parte nei Paesi Bassi decenni fa.

“Qui noi rifiutiamo l’umiliazione”, dice il militante Nabil. “Il sangue di Moulay Mohand scorre ancora nelle nostre vene”.

Eccolo di nuovo evocato Moulay Mohand, ossia Abdelkarim e-Khattabi, a capo dell’armata insurrezionale del Rif che nel 1920 sconfisse l’invasore spagnolo. Quest’uomo è ancora l’eroe dei berberi. Le magliette indossate dall’alter ego donna di Nasser, lo dimostrano.

E’ vivo e vegeto nei loro discorsi e negli slogan di piazza. E’ l’uomo che sconfisse l’umiliazione e che riscattò un popolo. Anche se poi quel popolo subì un’atra sconfitta.

Vittoria ed eredità delle Primavere

Il timore numero uno di Mohammed VI è che questi moti siano manipolati dall’esterno.

L’ossessione dei re (e dei dittatori) infine è sempre la stessa: colpo di Stato, rivoluzione, e nel caso di quelli del Nord Africa, complotto internazionale. Deposizione. Sovvertimento dell’ordine. Cambio di regime.

Ma ci sono ragazzi accusati anche di altri reati come Ilyas Moutaoukil. La cui storia è raccontata da Liberation che intervista l’avvocato Rachid Belaali, 54 anni.

“L’avvocato punta il faldone rosa più voluminoso. E’ il dossier di Ilyas Moutaoukil. Perché lui? E’ un’artista di 32 anni, vicino a Zefzafi, fa teatro, si occupa di fotografia. Non ce ne sono molti come lui ad Al Hoceima”.

È perseguito per “incitamento a commettere crimini”. Tra gli arrestati infatti ci sono persone comuni. Ci sono blogger. Artisti. Semplici studenti. Disoccupati. E li si spaventa in ogni modo. Ma loro resistono e soprattutto non cedono alla tentazione della violenza. Questa è un’eredità delle Primavere.

Forse è anche la certezza che se reagissero a rimetterci sarebbero i primi.

La ribellione del Rif è anche la dimostrazione del salto di qualità compiuto da un popolo insoddisfatto: nel 2003 Sidi Moumen aveva reagito all’umiliazione producendo kamikaze. Nel 2016 e 2017 Al Hoceima reagisce alla hogra producendo ribellione. Senza violenza e senza esplosioni.

Certamente i giovani di Al Hoceima, pescatori poveri come Mouhcine Fikri, conducono vite meno disperate di quelle delle Stelle di Sidi Moumen.

Strette dentro confini angusti che non lasciano spazio alla redenzione. Però hanno anche fatto una scelta consapevole di civiltà. Coraggio che non può non essere messo in continuità con il significato epocale delle Primavere arabe.

Quei moti di piazza, con l’epilogo che sappiamo, sono tutt’ora uno spartiacque eccezionale. Dalla paura alla redenzione.

Dalla rabbia cieca alla richiesta lucida. Dalla visione di un futuro nero al coraggio di dire no per un futuro più sfumato. E di rivendicare con le parole.

I giovanissimi di Sidi Moumen non avevano alternative che gli emiri (i fondamentalisti che li iniziarono al suicidio terrorista) per uscire dalla fogna. Oggi, quelli delle regioni berbere e anche delle bidonville cittadine, hanno un orizzonte meno oscuro davanti.

E’ l’eredità più grande e vincente lasciata dai compagni tunisini, egiziani, yemeniti, siriani.

Oggi i ragazzi che hanno fatto quest’altro salto, assaggiando il gusto della sana rivolta di piazza, sanno che dall’altra parte non li aspetta il vuoto.

Spesso c’è la morte (non voluta e non ricercata però). Ma ancora più spesso li attende la visione del “re nudo”. Che toglie sacralità al monarca e rende tutta la bellezza del reclamare a pieno diritto la giustizia a lungo desiderata.

tratto da Q CODE Magazine
del 04/11/2017

Migrazione: Il balzello pagato dall’Occidente

L’Europa continua a distribuire soldi per bloccare la migrazione, rincorrendo i cambiamenti dei flussi, affidandosi a stati o a gruppi che non hanno mai dato dimostrazione di operare nell’ambito dei Diritti umani.

Si è trattato per arginare gli spostamenti dai paesi dell’est, dal Medioriente e dal nord Africa, lasciando il lavoro sporco agli altri, limitandosi ad elargire contributi, mostrandosi sempre con le mani pulite, ma non è così. L’Europa cerca di creare una rete di sentinelle esterne e interne ai confini europei.

Una Unione europea che foraggia alcuni stati perché “ospitino” migliaia di persone, fa finta di ignorare l’edificazione di muri e il Parlamento europeo si lava la coscienza promovendo il Premio Sacharov  per la libertà di pensiero, affermando di sostenere i diritti umani.

Delega ad altri drammi e scontri sociali per non sapere come si tiene lontani dall’Europa i popoli che fuggono da conflitti e carestie, ma poi accade che uno dei tanti Adan muore a 13 anni nelle civilissime contrade europee per il rispetto delle burocrazie e qualcuno si indegna perché è venuto a conoscenza che è accaduto davanti alla propria porta e non gli avevano nascosto il fattaccio.

La Ue ha una fievole voce nell’ambito dei Diritti umani, fa delle dichiarazioni di rito, magari minaccia, ma non riesce ad andare ai fatti. L’Unione che esiste quando fa i richiami e le reprimende, apre procedure d’inflazione ai singoli stati o infligge multe sui rifiuti o sull’anti-trust delle grandi compagnie, non riesce poi ad aggregare l’attenzione per partecipare agli oneri di una politica migratoria condivisa e non lasciata come zavorra ad alcuni paesi, salvo quando è il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks che invia una missiva direttamente al ministro degli interni Minniti per avere dei chiarimenti sull’accordo con Libia, sul tipo di sostegno operativo e se i diritti degli migranti sono rispettati.

La questione dei migranti economici è un ispido punto che ha trovato l’ostilità di Macron non più lontano di un paio di mesi fà, ma Junker conosce i numeri e prevede che l’Europa avrà bisogno anche di nuovi lavoratori, una necessità per un continente europeo che sta invecchiando, prospettando l’apertura di canali legali, ma perché proporre dei «progetti pilota, quando i corridoi umanitari sono ben collaudati dal dicembre del 2015, dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Tavola Valdese che hanno sottoscritto un protocollo con Viminale e Farnesina, corridoi attivati in Libano, Marocco e Etiopia, a spese delle stesse associazioni, grazie alle risorse provenienti dall’8 per mille, con controlli scrupolosi e la rilevazione delle impronte digitali?

I corridoi umanitari pensati per la Ue sono differenti, non sono a fine umanitario, prevedono di agevolare l’ingresso in Europa dei migranti qualificati e il rilascio della Carta blu, contrastando il pensiero di Macron del luglio passato, basato sulla diversificazione dei diritti, ostacolando la migrazione di chi è in cerca di lavoro, ribadendo la necessità di istituire “una polizia europea delle frontiere”.

Più che una polizia europea abbiamo, con le ultime elezioni politiche in Austria e nella Repubblica Ceca, un cordone xenofobo che dalla Polonia scende giù nei Balcani per bloccare la nuova via di migrazione che dalla Turchia porta alla Romania, più che alla Bulgaria presidiata da milizie anti profughi, dove la migrazione è attiva con battelli per attraversare il Mar Nero.

È un’illusione pensare di bloccare le migrazioni, tuttalpiù si possono momentaneamente arginare, ma poi trovano altre vie ed ecco timidamente si riapre il flusso dal Marocco alla Spagna, ma anche dalla Tunisia e molti sono i migranti salvati dai pescatori tunisini e altri, molti altri, come purtroppo la sessantina di corpi, tra giugno e agosto 2017, sono arrivati senza vita sulle coste tunisine di Zarzis.

L’Occidente paga per spostare sempre più lontano dai sui confini i centri per “ospitare” i tanti profughi, invece di creare e gestire in prima persona la migrazione, le strutture di accoglienza e di assimilazione.

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Afghanistan, i pendolari del Jihad

Non è escluso che negli ultimi sanguinosi attentati contro la comunità sciita afghana di Kabul (venti morti il 29 agosto e quarantadue lo scorso 20 ottobre) ci sia la mano dei pendolari del Jihad, quelli che abitualmente attraversano in alcuni punti stabiliti il confine afghano-pakistano, lungo la storica linea Durand. Un tragitto gestito dalla Shura di Quetta e ormai noto alle polizie dei due Paesi, ma da esse ignorato. Le citate stragi sono state rivendicate dall’Isis contro cui la componente ortodossa dei talib si è  apertamente pronunciata. Però in quell’autostrada del traffico di miliziani, armi, droga e commerci vari può essersi inserito anche qualche dissidente sconosciuto perché, a detta di osservatori geopolitici locali, gli attentati rivendicati dalla Stato Islamico sono compiuti da ex talebani che usano il brand del Califfato. Sia costoro (ad esempio il gruppo del Khorasan) sia i più numerosi combattenti talebani fanno di quel confine poroso il proprio territorio. Nessun apparato di sicurezza sembra interessato a fermarne attraversamenti, flussi, scambi, e creazione di basi per addestramento, incontri, riposo e riabilitazione dei feriti. E’ una zona senza controllo terrestre che corre per 2.400 chilometri, toccando un terzo delle province afghane. Chi ha studiato geograficamente l’area cita ben 235 punti di possibile attraversamento, uno ogni 10 chilometri. Quelli usati ufficialmente dai mercanti locali sono una ventina, due con check-point presidiati: la cosiddetta Porta di Torkham, nell’area di Nangarhar e quella di Wesh-Chaman a sud verso Kandahar. Lì c’è dogana con tanto di poliziotti sui due lati inviati da Kabul e Jalalabad; non incorruttibili, ma presenti.

Però chi vuole evitare controlli, anche per la semplice merce legale come frutta e verdura, non dunque per oppio e derivati, sceglie altri passaggi. Che poi sono gli stessi da decenni, forse da secoli. Gli ultimi a usarli erano stati i mujahhedin islamici opposti alle truppe sovietiche intervenute in appoggio al governo del Pdpa e trattate da occupanti. Sigillare tanti passaggi significa disporre in quei punti migliaia di soldati e rifornirli periodicamente, esponendoli a quegli attacchi che vengono portati anche in vigilatissime aree urbane, figurarsi in lande sperdute. Perciò i governi dei due Stati non hanno mai imboccato questa strada, restando però tagliati fuori da una presenza sul territorio e da un rapporto con le sue popolazioni. Prevalentemente d’etnia pashtun e in molte aree legate da relazioni tribali centenarie, non a caso il Pashtunistan è considerato da molti clan un’entità assai più credibile degli Stati nazionali afghano e pakistano. Quest’ultimi, lì dove sono presenti con check point e uomini, mostrano verso la ‘lunga linea dello sconfinamento’ un comportamento opposto: tendenzialmente repressivo da parte di Kabul, seppure con risultati di sconsolante incapacità fino a confessarsi riluttante ad affrontare il problema. Benevolente sul lato di Islamabad, i cui agenti sembrano offrire il benvenuto ai turbanti e non solo per la comune fede islamica. Cosicché i transiti proseguono indisturbati con manipoli armati mescolati alla gente che commercia oppure traffica illecitamente.

Essere lì è sicuramente strategico, perché i talib stabiliscono relazioni con la popolazione, l’aiutano nel commercio legale e nel contrabbando, la ‘proteggono’ in cambio di tangenti o favori. I transiti di Bahramcham, a 300 chilometri a sud di Lashkargah, e quello di Badini, in una zona più centrale del confine nel distretto di Zabul, sono da una quindicina d’anni passaggi controllati esclusivamente dai talebani. Nessuna Enduring Freedom o Isaf Mission è riuscita a bloccarne la movimentazione. Solo l’uso dei droni ha raccolto qualche risultato, colpendo il bersaglio prescelto. Nel maggio 2016 c’è stato uno strike significativo quando è stato centrato il pick-up su cui viaggiava il leader Akhtar Masour, neo eletto dopo il lungo periodo in cui la famiglia talebana aveva celato la morte del mullah Omar proprio per superare le divisioni interne. Mansour attraversava il confine come un qualsiasi commerciante, fra gli stessi mercanti della tribù Eshaqzai, e i vertici talib sospettano che la Cia l’abbia individuato grazie alla lucrosa soffiata di uno di loro. Quell’operazione venne definita da Obama “un passo verso la pacificazione del Paese”. Una delle mille boutade del ‘presidente We can’. Dopo neppure due settimane tutti i talebani d’Afghanistan (dalla Shura di Quetta alla rete di Haqqani) eleggevano Hibatullah Akhundzada, un chierico molto più intransigente del precedente capo, che ha accelerato il disegno offensivo interno. Perché, ben oltre i piani della Casa Bianca e i sogni del replicante Ghani, il progetto di pacificare l’Afghanistan con un accordo deve fare i conti col disegno talebano di riconquistare il potere con le armi. Un percorso lungo, al quale comunque credono.

A fronte d’una propria strategia sempre più aggressiva nel Paese dell’Hindu Kush i turbanti si trovano a dover contenere politicamente le fughe verso il Califfato dei dissidenti del Khorasan o i Teerek del Waziristan e altri ancora, più o meno coperti, che seminano bombe firmandosi Isis. I talebani ortodossi, che puntano a un proprio governo, utilizzano la frontiera coloniale Durand, ma pensano alla nazione afghana più che a rincorrere i fantasmi del Pashtunistan. Ultimamente ricevono minor trattamento di favore da parte pakistana, che per anni gli ha consentito di addestrare guerriglieri e riversarli oltreconfine. Una benevolenza non del tutto spassionata da parte di Islamabad, visto che nelle sue mire di potenza regionale persiste l’idea di tenere i vicini nel caos per poterne trarre i vantaggi della possibile disgregazione territoriale. Tuttora permane in territorio pakistano qualche centro di cura per guerriglieri feriti, ma lo stato maggiore talebano per non trovarsi in difficoltà ha cercato alternative creando strutture in Afghanistan. La più adeguata dal punto di vista sanitario è a Nawa, nel distretto di Ghazni. E sebbene permanga il rischio d’essere infiltrati e traditi, come nell’ipotesi fatta sull’eliminazione di Mansour, si è programmato di collocare certe basi di addestramento e casematte non più in aree isolate, che diventano bersaglio facile e sicuro, bensì fra la popolazione usata come scudo umano. Non è detto che si evitino con certezza i raid dell’aviazione Usa, anche per quel che rivelano le accresciute cifre 2016 su vittime e feriti fra i civili, ma la tendenza degli ultimi tempi ha preso questa direzione. In Afghanistan la guerra prosegue, come sempre sulla pelle degli abitanti.

Pubblicato giovedì 26 ottobre 2017
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