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Ebola e le lingue ariane

Anche lo studio sulla diffusione dei virus può aiutare la linguistica. Questo è il ragionamento che ha suggerito di applicare anche alla filologia metodi e algoritmi inizialmente studiati per ricostruire l’origine e seguire l’evoluzione dei virus e prevenire magari le epidemie. Tutto questo s’inquadra nella collaborazione tra discipline diverse che in linguistica ha messo in contatto i filologi con i biologi e gli informatici, nel tentativo di reinventare la linguistica storica su basi più scientifiche. Questi studiosi trattano le parole come i teorici dell’evoluzionismo trattano i geni e concettualizzano la diffusione delle lingue come gli epidemiologi modellano la diffusione dei virus. Il metodo – sostengono – ha permesso di rispondere a grandi interrogativi di vecchia data, in particolare quello sull’origine della famiglia c.d. indoeuropea. Sicuramente c’era bisogno di metter ordine, se solo si pensa all’ambiguità dello stesso termine *indoeuropeo*, che mischia etnia con lingua e geografia, esclude gli apporti di Medio Oriente e Asia Minore e fa quasi rimpiangere il vecchio e discusso termine *ariano*, anche se ai guerrieri a cavallo armati di armi di bronzo che invadevano dall’Asia le steppe d’Europa parlando una lingua comune ormai credono in pochi. Oggi gli studiosi sono sostanzialmente divisi tra i sostenitori di due ipotesi: la prima prevede che i primi parlanti fossero agricoltori del Neolitico che emigrarono dall’Anatolia, la seconda li individua in allevatori di cavalli dell’Età del Bronzo che, partendo dalle steppe dell’Eurasia, si diffusero successivamente in Asia e in Europa portando con sé importanti innovazioni tecnologiche come la ruota e le armi di metallo. Teoria classica e sfruttata anche troppo dalle ideologie nazionaliste e razziste degli ultimi due secoli. La seconda teoria, più recente, registra e segue l’aumento della popolazione e l’espansione dei popoli in funzione dell’agricoltura, che alla fine del neolitico permise di mantenere gruppi sociali più numerosi e di stabilizzarne le attività. Nessuna delle due teorie è esente da pregiudizio, ma almeno la seconda è supportata dalla genetica, la quale va apparentemente oltre l’ideologia. Vediamone in breve i risultati.
Intanto è ormai geneticamente provato che il genere umano si è espanso dall’Africa in almeno due migrazioni. Le analisi genetiche di Alan R. Templeton, della Washington University di St Louis, propongono un nuovo schema filogenetico, ottenuto combinando dati e geni di varie popolazioni, per ricostruirne i movimenti. (1). L’analisi di GEODIS ha indicato che una prima migrazione dall’Africa avvenne fra 840.000 e 420.000 anni fa, mentre una seconda, molto più recente, fra 15.000 e 80.000. L’analisi mostra anche che l’ondata di uomini non si limitò a sostituire le popolazioni già residenti in Europa, ma vi fu una fusione. La razza pura dunque non esiste.
Lo stesso sistema è stato usato per analizzare la variabilità delle parole imparentate in 109 lingue indoeuropee antiche e moderne. L’idea di base era che i tassi di apparizione e di scomparsa delle parole imparentate fossero assimilabili a quelli dei nucleotidi nell’evoluzione del patrimonio genetico del virus. Negli studi di linguistica del resto è normale individuare l’origine di una data lingua tracciandone anche la diffusione geografica, analizzando le variazioni nel vocabolario, nelle pronunce e nella grammatica e confrontandole poi con i dati disponibili sulle antiche migrazioni delle popolazioni dei parlanti. L’ultimo studio in ordine di tempo, diretto da Quentin D. Atkinson dell’Università di Oxford, porta a concludere che i primi parlanti indoeuropei abitavano l’Anatolia, che corrisponde all’Asia minore di Greci e Romani o, in termini moderni, alla Turchia asiatica, supportando così una delle due teorie concorrenti sostenute da diversi studiosi. Secondo le conclusioni dello studio, le simulazioni al computer sono infatti compatibili con l’ipotesi dell’Anatolia più che con l’ipotesi delle steppe euroasiatiche. Ma il risultato è destinato ancora a dividere gli studiosi. Alcuni linguisti hanno già sottolineato che non può essere considerato conclusivo, soprattutto per la parzialità dei dati utilizzati, relativi al solo vocabolario. Ma torneremo su quest’argomento.
Terzo punto: la fase successiva: circa 9000 anni fa, popolazioni provenienti dal Medio Oriente arrivarono in Europa passando per l’Anatolia, e da lì attraverso Creta e le isole del Dodecanneso, si diffusero per tutta l’Europa del sud. Lo ha stabilito un’analisi genetica su circa 1000 individui di 32 popolazioni diverse di Europa, Africa e Medio Oriente, e hanno cercato specifiche varianti denominate polimorfismi a singolo nucleotide, che riguardano differenze nei singoli “mattoni elementari” che costituiscono la catena del DNA. Risultato: le popolazioni del Neolitico potrebbero essere migrate dunque in Europa dal Medio Oriente lungo diverse isole del Mediterraneo. È il risultato di uno studio di genetica di Peristera Paschou, dell’Università “Democrito di Tracia” ad Alexandroupolis. Paschou e altri ricercatori hanno analizzato il DNA di soggetti europei, mediorientali e nordafricani ricostruendo la distribuzione geografica di specifiche varianti genetiche note come polimorfismi a singolo nucleotide e deducendone quindi le rotte seguite nelle migrazioni dei loro lontani antenati. Il genoma degli europei mostra i segni di un mescolamento di geni delle antiche popolazioni paleolitiche, che colonizzarono il Vecchio Continente circa 35.000 anni fa, con quelli delle popolazioni neolitiche, originarie del Medio Oriente, che arrivarono in Europa circa 9000 anni fa. Incerte sono ancora le stime del contributo dei geni neolitici al genoma europeo, variabili, tra il 10 e il 70 per cento, secondo il tipo di analisi usata. Gli studiosi tuttavia concordano sul fatto che queste popolazioni mediorientali abbiano portato in Europa trasformazioni epocali, come nuove tecniche agricole e forse anche le lingue c.d. indoeuropee. Ma quali rotte migratorie seguirono questi agricoltori neolitici? Le ipotesi, sostenute anche da scoperte archeologiche, sono tre. La prima, via terra, parte dal Vicino Oriente e passa per l’Anatolia, e poi da lì attraverso il Bosforo e i Dardanelli verso la Tracia, nell’attuale Grecia, e va verso i Balcani. Una seconda via, marittima, passa per le coste ora turche e attraversa le isole del Mediterraneo, arrivando alle coste dell’Europa meridionale. La terza via parte dalle coste del Medio Oriente e attraversa invece le isole dell’Egeo e arriva in Grecia. Con questo tipo di analisi, è possibile ricostruire come le caratteristiche possano variare con la geografia: le differenze tra il DNA di un europeo e quello di un africano aumentano andando da est verso ovest. In particolare, l’analisi dettagliata è compatibile con l’ipotesi che la maggior parte delle migrazioni del Neolitico abbiano seguito la rotta marittima, e nello specifico quella che collega la regione costiera dell’Anatolia, ed Europa meridionale, passando per Creta e per le isole del Dodecanneso. Da qui, le popolazioni di agricoltori del Medio Oriente si sparpagliarono per tutta l’Europa del sud.
La ricerca in realtà è condizionata da un pregiudizio: che una lingua sia un elenco di parole, mentre la realtà è che l’evoluzione linguistica non può essere compresa attraverso modelli non-linguistici che riducono la lingua a una semplice raccolta di parole. Né si capisce perché si parli tanto di agricoltura e poco di allevamento seminomade o di popoli cacciatori raccoglitori, che si devono spostare per ampi spazi in tempi anche brevi per trovare le risorse alimentari necessarie alla loro crescita demografica o per adeguarsi a un diverso regime climatico o idrico.
E qui arriviamo al quarto punto: per andare oltre le parole dobbiamo entrare in un campo più avanzato e affrontare grammatica e sintassi. Poiché i vocabolari cambiano molto rapidamente, il loro uso per determinare i cambiamenti delle lingue nel corso del tempo può consentire di raggiungere al massimo epoche distanti fra gli 8.000 e 10.000 anni. Per studiare i linguaggi del Pleistocene, il periodo compreso fra 1,8 milioni e 10.000 anni fa, Michael Dunn e colleghi del Max-Planck-Institut di psicolinguistica di Nimega, in Olanda (link: http://www.mpi.nl/), hanno sviluppato un programma al computer che analizza le lingue basandosi su come le parole sono legate le une alle altre. Rimandiamo al lungo articolo di Dunn, scaricabile liberamente (2), che ci porta però molto lontano dall’Europa, visto che studia la parentela genetica fra le lingue estese tra Australia e Nuova Guinea. Risultato notevole, visto che lì mancano testi scritti e le popolazioni sono notevolmente disperse o demograficamente poco consistenti. Dunn dimostra in modo convincente che le strutture profonde, sintattiche, permangono nel tempo e nella dispersione etnica in modo anche indipendente dal vocabolario, che può invece cambiare nel tempo o prendere parole dai vicini. E c’è solo da sperare che con lo stesso metodo si affrontino anche le lingue parlate in Europa, superando anche la tradizionale divisione scolastica fra grammatica e sintassi, cosa che Noam Chomsky aveva già fatto da tempo, a favore di uno studio dei processi mentali e genetici che sottendono la strutturazione gerarchica della sintassi intesa come organizzazione del linguaggio.

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Ebola diventa business peluche e magliette ebola_panty3NOTE:
• (1) Si è analizzato l’albero genealogico genetico ottenibile dal DNA mitrocondriale e da altre regioni di DNA. Usando il software GEODIS, creato dallo stesso Templeton nel 1995, sono state determinate le relazioni genetiche fra le popolazioni basate su specifici aplotipi, o gruppi di geni che vengono ereditati collettivamente. Le conclusioni raggiunte in questo modo sono più solide dei risultati ottenuti da studi che prendevano in considerazione una sola area del DNA.
• (2) http://www.plosbiology.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pbio.1000241

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Finché c’è guerra c’è speranza

Nei primi anni ’70 Alberto Sordi dava vita, con amarezza, al personaggio di un mercante d’armi in crisi esistenziale per quello che faceva. Un film che sintetizzava l’adagio Mors tua vita mea, con la distruzione di un’Africa dilaniata da conflitti regionali come terreno di confronto tra l’allora Comunismo e Capitalismo e dove piccoli e grandi spacciatori d’armi avevano il loro tornaconto.

A quarant’anni di distanza dal film Papa Francesco bolla quei mercanti come “pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi” che “hanno scritto nel cuore: A me che importa?”.

Una condanna gridata dal Sacrario di Redipuglia, traslitterazione dallo sloveno di “sredij polije”” (terra di mezzo), dove riposano decine di migliaia di militari della Prima guerra mondiale.

Sono gli “affaristi della guerra” che basano la loro filosofia di vita sul profitto dovuto prima alla vendita di strumenti di morte e distruzione e poi nell’offrire l’occasione di fare affari per la ricostruzione.

Cosa c’è di più capitalistico nel rendere obsoleti armi e munizioni di qualche anno e inabitabili interi quartieri e città dopo essere stati investiti da bombe e razzi, per poi ridar “vita” ad un’economia stagnante con la ricostruzione?

Sino a quando il “benessere” si basa sul consumismo – il distruggere per ricostruire ne è il nodo fondamentale – sarà difficile che la maggioranza delle persone possano essere interessate al destino dei loro simili in aree di conflitto.

Non sono bastate due Guerre Mondiali con decine di milioni di morti e di stermini, perché qualcuno riteneva qualcun altro diverso da lui e per imporre una visione della società a chi non la condivide, per poter fermare i sobillatori di conflitti e gli spacciatori di morte.

Quando il biblico “A me che importa?” potrà avere un significato per la maggior parte della popolazione che non si interessa del fatto che “La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà…” sino a quando non saranno loro le vittime degli altrui interessi?

Nella Striscia di Gaza ci vorranno, secondo le organizzazioni non governative Oxfam http://www.oxfamitalia.org/ e la norvegese Shelter Cluster affiliate alle Nazioni Unite, 20 anni per la ricostruzione di 17 mila unità abitative, tra edifici danneggiati o distrutti, e non meno di 4 milioni di euro, oltre agli edifici pubblici come scuole e ospedali.

Con i 2143 morti, in gran parte civili e bambini, in 50 giorni di reciproci attacchi è Gaza ad aver subito un ennesimo colpo al fragile tessuto sociale e all’economia, mentre a fare affari sono stati i trafficanti di armi prima e poi, appena Israele autorizzerà l’apertura dei varchi, gli imprenditori edili di qualsiasi nazionalità. È uno strano modo per rendere omaggio al 2014 come Anno Internazionale di Solidarietà con il popolo Palestinese.

Ora che tra il governo israeliano e Hamas si è raggiunta una tregua che sembra reggere, a chi può importare di consolidarla per dare un futuro alle popolazioni di una terra martoriata?

È faticoso e difficile a dare un volto ad ognuna delle migliaia di vittime del Medio Oriente come di altre aree di conflitto. Le persone diventano, superato il numero di cinque forse anche dieci vittime, solo un numero tra tanti, senza nome ne volto.

È più facile che l’attenzione empatica si focalizzi su di un volto e un nome, mentre un’umanità seppellita dalle bombe, trafitta da proiettili o sgozzata da algide mani ispirate dalla missione salvifica di sterminare chi ha altri comportamenti, è una moltitudine che rientra nella quotidianità degli eventi.

Cosa c’è di più tenero di un musetto d’orso reso orfano da un eccesso di zelo per sollevare l’indignazione di una folla piena di compassione per un batuffolo di pelo?

A chi importa di un mendicante quando sono sempre più numerosi gli indigenti che s’incontrano per le strade, se si evita di incrociare il loro sguardo?

Gli organi d’informazione possono veicolare l’attenzione su di una tragedia che coinvolga pochi personaggi, ma riesce a banalizzare le stragi quando diventano quotidianità.

In un mondo proteso alla separazione più che alla condivisione è palese il trionfo dell’individualismo che porta a suggellare la frase “A me che importa?” sulla lapide dell’indifferenza colpevole di Caino nei confronti di Abele.

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Medio Oriente: Un Buco Nero dell’islamismo

Il conflitto israelo-palestinese aveva momentaneamente oscurato ogni notizia sul buco nero che si sta creando tra la Siria e l’Iraq.

Ora che Israele ha ritirato le truppe dalla striscia di Gaza, dopo un quotidiano lancio di razzi islamisti sul territorio israeliano e le inevitabili ritorsioni israeliane, sembra che oltre 2mila e la distruzione di edifici si è giunti ad una tregua indeterminata, l’attenzione si sposta un po’ più al di là dell’altra sponda del Mediterraneo. In quell’area che sembra risucchiata in un buco nero di mille anni addietro. Un buco nero che sembra voglia allargarsi verso il Libano, dopo la Siria e l’Iraq, allungando la lista delle ormai migliaia di morti sgozzati o con una pallottola in testa.

Un’area sempre meno sicura per le persone che seguono confessioni differenti dal dettame sunnita imposto dal nascente califfato dello Stato islamico.

Per fronteggiare l’avanzata dell’Isis (Stato islamico di Iraq e Siria), ormai più famigliarmente Is (Stato Islamico) qual sia dir si voglia, sono intervenuti gli Stati uniti con martellanti raid aerei per distruggere gli armamenti di cui miliziani islamisti si sono impossessati con la ritirata dell’esercito iracheno e facilitare l’azione delle milizie curde dei peshmerga.

L’Occidente, dopo tanta incertezza, ha deciso di appoggiare le forze curde nel contenimento dell’affermazione islamista tra la Siria e l’Iraq che, nel tentativo di allargare l’influenza dell’Is nell’area con i continui sconfinamenti in Libano, si può quantificare come un territorio ampio quanto l’Ungheria.

I curdi, combattendo anche con le armi dell’Occidente per la loro terra e la loro autonomia, difendono anche noi e per non far crescere la considerazione sul loro operato e mitigare le future richieste curde che gli armamenti non andranno direttamente nelle zone di guerra, ma passeranno per Bagdad per ribadire la centralità del governo iracheno a spese dell’autonomia del Kurdistan.

A facilitare l’intervento occidentale in Iraq è il palese o il tacito consenso che non solo i paesi arabi ma anche la Russia e la Cina hanno dato, cosa che non poteva avvenire per la Siria, certo non perché i cristiani erano al sicuro, ma per gli interessi incrociati sullo scardinamento degli equilibri nell’area e rischiare di trovarsi in una situazione d’interminabile conflitto modello libico.

È per questo che dopo l’esempio di leadership debole riscontra in Iraq con il governo Nuri al-Maliki, celata dalla voce grossa che esibiva con il risultato di alzare l’acredine tra gli sciiti e i sunniti, è ora la volta di un governo inclusivo di tutte le realtà culturali irachene, cercando una rappacificazione tra schieramenti e togliere agli islamisti consenso.

Nel grande gioco delle alleanze variabili si sceglie chi è più nemico dell’altro e non il più affine negli intenti e nei sistemi. Così è possibile trovare un esponente di primo piano del regime di Saddam come il generale Izzat Ibrahim al Douri guidare l’avanzata di quelli dello Stato islamico in Iraq solo perché sono più odiosi gli sciiti che gli jihadisti. L’Occidente riflette sulla possibilità di aprire un dialogo con Assad, un’ipotesi impensabile sino a pochi mesi fa, perché è sin dalla prima ora avversario dei jihadisti. I cristiani in Libano si alleano con gli Hezbollah che combattono in Siria affianco del regime di Assad contro gli islamisti, per non diventare dei bersagli come in Nigeria o in altre parti del Mondo. I cristiani nel Medio oriente, vittime predestinate come ogni altra minoranza, sono in cerca di protezione. Una situazione di persecuzione già evidenziata da Francesca Paci del libro del Dove muoiono i cristiani
(2011).

Una persecuzione delle minoranze, da parte jihadisti, che annovera non solo le comunità cristiane, ma anche yazide e shabak, oltre che turcomanne, atta a perseguire una pulizia etnica di balcanica memoria.

È l’arroganza dell’ex premier Nuri al-Maliki, con il suo fomentare le violenze settarie che ha insanguinato il Paese, ma anche l’ottusità statunitense nel cancellare un esercito che ha portato un laico come al Douri a scegliere di unificare le sue forse baathiste a quelle dei jihadisti.

Un’alleanza contro natura, se la realtà jihadista era da eliminare sotto il regime di Saddam, accomunati non solo nello scansare dal potere la maggioranza sciita, ma anche dai modi sbrigativi nell’eliminare i “problemi”.

Questa’esaltazione della violenza ha esercitato una forte attrazione per molti adolescenti annoiati e senza un’ideale di vita, portandoli a seguire degli invasati per esternare il loro lato teppistico. Giovani in cerca di una guida che non vivono necessariamente in periferie disagiate, ma provenienti anche da i ceti benestanti dell’Occidente, mossi dal disagio di vivere, il cosiddetto mal de vivre. Una realtà basata sulla disciplina e la cieca adorazione del capo che sarebbe stata l’ovvia conclusione dei farneticanti protagonisti dell’Arancia Meccanica o dei “perseguitati” Guerrieri della notte nel vedere un futuro inquadrati in milizie religiose di vari credo.

In questo scambio di fronti e di alleanze s’inserisce anche l’intervento di Alessandro Di Battista, deputato del M5S, che offre una giustificazione all’uso del terrorismo come unica arma per i ribelli, dimenticando che le milizie del nascente Stato islamico non sono dei dissidenti perseguitati, ma un’orda conquistatrice. Rincara la dose del politicamente “scorretto” i twitter del cosiddetto ideologo dei penta stellati Paolo Becchi che offre una lettura di consequenzialità nel dare le armi ai curdi con la salvezza delle due volontarie italiane.

Ribellarsi è giusto, ma quelli dello Stato islamico sono degli aggressori e non si può dare una parvenza di legittimità alla violenza perpetrata da un esercito di conquista e non di difesa. Un gruppo di persone che sono discriminate possono arrivare all’utilizzo della violenza, ma chi si organizza in una forza di conquista per formare dal nulla uno stato tirannico, imponendo le sue regole di vita, non può essere paragonato a chi viene perseguitato e si vede negato ogni diritto fondamentale.

L’esercito del califfato per uno stato islamico non è un popolo scontento in cerca di una vita pacifica, ma è in guerra con tutto il mondo che non professa il loro senso della vita, ma non per questo si deve escludere un dialogo, anche se per dialogare bisogna essere almeno in due per trovare un compromesso, e quelli delle bandiere nere non sembrano disponibili ad una convivenza con altre religioni.

Oscurantismo jihadisti che si sta affermando anche nel caos libico, scene di prigionieri mostrati al pubblico ludibrio in Ucraina o la giustizia sommaria nei confronti di sospette spie a Gaza, il tutto condito con la crudeltà contro la popolazione, fa retrocedere la storia dell’umanità di alcuni secoli.

La situazione israelo-palestinese e quella iracheno-siriana sono la dimostrazione di come gli organi d’informazione appaiono incapaci di seguire contemporaneamente le varie aree di conflitto nel Mondo se non sono ai nostri confini o coinvolgono i rapporti tra schieramenti ideologico-economici.

Solo l’Ucraina non ha perso spazio informativo, forse perché oltre ad essere in Europa sta compromettendo i già difficili rapporti con la Russia di Putin nell’ambito delle esportazioni e dei rifornimenti energetici invernali che in una crisi economica europea diventa un grande problema.

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Francesca Paci
Dove muoiono i cristiani
Editore: Mondadori
Milano, 2011
pp. 204
€ 17,50
EAN9788804606925

Franco Cardini
Cristiani perseguitati e persecutori
Salerno Editrice
Roma 2011
pp. 188
€ 12,50
ISBN 978-88-8402-716-0

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02 OlO I buchi neri per un islamismo Iraq Siria e il Califfato jihadisti_siria

Qualcosa di più:

Se la Siria non scalda più i cuori Articolo completo
Siria: Il miraggio della Pace
Siria: Dopo le Minacce Volano i buoni propositi
Siria: Vittime Minori
Siria: continuano a volare minacce
Ue divisa sulla Siria: interessi di conflitto
La guerra in Siria vista con gli occhi di Sahl

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Medio Oriente: la Pace tra Razzi e Cupole

Il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese ha oscurato ogni notizia sul buco nero che si sta creando tra Siria e Iraq.

Israele e la Palestina sono proprio sull’altra sponda del Mediterraneo, ma anche la Siria non è poi tanto lontana e forse le ormai migliaia di morti sgozzati o con una pallottola in testa potrebbero pur meritare qualche attenzione, tanto più che non sembra ci sia qualcuno capace di fronteggiare l’avanzata dell’Isis (Stato islamico di Iraq e Siria) o Isil (Stato Islamico in Iraq e nel Levante) qual sia dir si voglia, è impegnato nella creazione di un califfato. Neanche le milizie kurde dei peshmerga, dopo un iniziale successo, non sembrano riuscire a contenere la conquista degli islamisti e i continui sconfinamenti in Libano fanno pensare a un tentativo di allargare l’influenza dell’Isil nell’area.

Probabilmente l’attenzione dei media per i razzi di Hamas su Israele e i raid israeliani sempre più micidiali sulla striscia di Gaza deriva dalla “facilità” dei giornalisti nel muoversi in quei territori e dalla possibilità di dare un volto alle vittime, iniziando dai tre adolescenti ebrei e dal loro coetaneo palestinese, colpiti dall’odio. Morti causati dalla manifesta incapacità delle due parti a riconoscersi e della comunità internazionale, nonostante l’impegno di aver messo in campo geni della diplomazia del calibro di Tony Blair, di offrire delle alternative ad una controversia sull’esistenza che si prolunga da oltre sessant’anni. Una mancata pacificazione dell’area israelo-palestinse coinvolge tutto il territorio mediorientale, influenzando leadership di movimenti e governi più o meno radicali, filo occidentali o islamico jiadaisti.

Nonostante il riavvicinamento dell’anima tradizionalmente palestinese di quello che era Al-Fatah e l’Olp, che governa in Cisgiordania, con quella radicale di Hamas, predominante nella “striscia” di Gaza, con governo di unità nazionale, le scelte politiche continuano ad essere due e il dialogo che cerca Abu Mazen da Ramallah è rifiutato da Hamas a Gaza City.

Un’escalation che mostra tutta la debolezza non solo di Hamas, ma anche di Benjamin Netanyahu e del Governo israeliano.

Due popoli due stati che potranno convivere solo con tanti muri divisori, necessari per renderli dei buoni vicini; sino a quando gli israeliani e i palestinesi saranno guidati da due leadership così deboli eppur intransigenti.

Israele vuol screditare l’accordo raggiunto tra ANP (Autorità nazionale palestinese) e Hamas in una condivisione del potere, mentre Hamas cerca di mostrare al Mondo il crudele volto sionista che distrugge moschee, scuole e ospedali, ma si glissa sul particolare che le componenti radicali palestinesi preferiscono quei luoghi per collocare le rampe di lancio per i razzi da lanciare sul territorio israeliano.

Come gli organi d’informazione, le varie cancellerie, mostrano tutta la loro incapacità a offrire uno sguardo globale, e non globalizzato, sulla situazione internazionale, così anche l’intellighenzia che popola questa Terra si accorge solo di alcune tragedie, come dimostra l’appello – versione completa in italiano –  di un centinaio di nomi di varie nazionalità per “esigere” dall’ONU che imponga un embargo sugli armamenti, come quello imposto al Sud Africa durante l’apartheid, verso Israele.

Il problema non può essere focalizzato sul blocco di forniture militari, ma deve salvaguardare la popolazione civile da periodiche esibizioni muscolari. Un tale embargo è più facile applicarlo a Israele, ma di difficile applicazione nei confronti dell’universo eversivo jidaista. Entrambi i contendenti non hanno solo la capacità di scavalcare embarghi e divieti, ma soprattutto la possibilità di fabbricarne in proprio.

Diventerà sempre più impellente una riflessione sui costi e i benefici di un tale conflitto che non migliora le condizioni di vita dei due popoli, anzi si potrebbe scoprire che di certe esibizioni militari ne beneficiano solo i gruppi che tendono a conservare il potere.

Sicuramente per Hamas, con l’attenuarsi del sostegno di sponsor importanti come la Siria e Iran, questo scontro sarà un’occasione per ribadire la sua vitalità, nonostante l’esilio del suo leader Khaled Meshaal in Qatar, mentre Israele, a costo di commettere numerose vittime “collaterali”, afferma la sua forza cieca perché nessuno si deve permettere di minacciarne la sua esistenza.

Il risultato, secondo il filosofo americano e teorico della “guerra giusta” Michael Walzer, è il rafforzamento di Hamas, mentre Netanyahu cerca una scusa per evitare la creazione di uno Stato palestinese.

Mentre un altro intellettuale di origine ebraica, Zygmunt Bauman, afferma che Israele non costruirà mai la pace con una politica della “doppia” giustizia e condannando Gaza a una sorta di enorme prigione a cielo aperto, dove i pescatori non possono allontanarsi più di tre miglia dalla costa per procurarsi quel poco per sopravvivere, sotto lo sguardo sospettoso della marina israeliana.

Non si può vivere sotto la minaccia di missili che possono cadere ovunque e in ogni momento, ma se Israele ha la sua cupola missilistica “protettiva”, Hamas si fa scudo della popolazione e dopo le ennesime vittime “collaterali” nelle strutture dell’Onu è indispensabile una tregua riflessiva, svincolata da ogni pretesa, perché non è in gioco solo la vita di donne e bambini, ma il futuro di una generazione allevata nell’odio e diffidenza verso il prossimo.

Non si può affermare che 2mila morti, in gran parte civili, si possa definire genocidio come asseriscono in molti, ma è sicuramente un massacro e un abuso contro l’infanzia. Un crimine perpetrato in forma differente da entrambe le parti. Un bambino di sei anni ha già vissuto per tre volte le giornate e le notti fatte di esplosioni e paura.

Non si possono vagliare i termini di una tregua. Una tregua è far cessare il micidiale rumore delle armi che preannunciano nuove vittime e non avvantaggiare una delle parti in conflitto. Indire una tregua per tramutare la situazione di non belligeranza in convivenza pacifica.

La tregua non è una soluzione, ma un’opportunità per trovarne una duratura svolta pacifica, come non ha mancato di sottolineare il Segretario di stato statunitense John Kerry in occasione del raggiungimento dell’ennesima tregua che sfumerà poche ore dopo. È un primo passo che purtroppo nessuna delle due leadership vuole fare, anzi cercano ogni possibile occasione per riprendere lo scontro. Una possibilità di risolvere la “questione palestinese” potrebbe essere quella di chiudere in una stanza la dirigenza delle parti in causa e non aprire sino al raggiungimento di un accordo di accettazione reciproca. Questa è la via “diplomatica”, poi c’è quella muscolare modello Orazi e Curiazi da svolgere come sfida in uno spazio desertico e con un numero di contendenti uguale per l’una parte e l’altra, per risolvere all’arma bianca una volta per tutte ogni controversia.

Due possibilità che appaiono improponibili in questa fase. Intanto gli artisti e gli intellettuali palestinesi e israeliani si schierano contro l’ennesima prova di forza dei due contendenti che alla fine non potranno sfoggiare una vittoria, nonostante gli immancabili comunicati trionfalistici, ma il cui unico reale risultato saranno le numerose vittime civili, donne e bambini, in numero sempre più elevato, lasciando un’infanzia orfana non solo dei genitori, ma anche vittime di mutilazioni fisiche e psicologiche.

Ora sembra che il primo passo per una tregua durevole sia stato fatto, ma cosa sono serviti gli oltre 2mila morti e i 17mila feriti, oltre alla distruzione di abitazioni, scuole e ospedali, se non ad incrementare astio tra i due popoli. L’apertura dei varchi della “Striscia” offre un’opportunità di nuovi affari per società, organizzazioni e liberi battitori, senza contare l’aggiornamento degli arsenali.

Non si poteva arrivare al dialogo prima? senza far soffrire una popolazione che vive in un territorio sotto sorveglianza e non creare un’immagine di vittima di Hamas.

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Israeli strikes in Gaza destroy office of Hamas premier.

 

 

 

 

 

 

 

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L’islamia: preda e predatrice

Mentre nel Nord Africa due Generali hanno aperto la caccia degli islamisti, nel medio oriente iracheno è la crudeltà jadeista ad offrire l’occasione di un’ufficiosa collaborazione tra Usa e Iran per fronteggiare l’avanzata dell’Isis (Stato islamico di Iraq e Siria) o Isil (Stato Islamico in Iraq e nel Levante) che dir voglia.

L’esercito iracheno è impegnato, se non si arrende, in ritirate “strategiche” davanti alle milizie dell’Isil e a quelle tribali sunnite. Per ora a fronteggiare l’avanzata rimangono i peshmerga curdi che avevano che già 6 mesi fa avvertirono Baghdad e gli 007 occidentali sul pericolo islamista-sunnita.

L’arretramento dell’esercito iracheno ha anche aperto un varco verso l’indipendenza, come ha affermato il Presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani, del Governo regionale del Kurdistan dall’Iraq.

Il vero problema per un Iraq unito di sciiti, sunniti e kurdi è l’attuale presidente iracheno sciita Nuri al-Maliki, con la sua intransigenza nel condividere la gestione del governo con le altre popolazioni e non fomentare l’odio.

Il Ramadan porta l’annunciano jihadista della nascita del Califfato in Iraq e Siria e Abu Bakr al-Baghdadi è il suo califfo per ripercorrere il sogno dell’unificazione dei “credenti” sotto un’unica autorità. Non più tanti stati islamici, ma un’unica nazione da levante ad occidente.

Le forze governative irachene, per riconquistare il territorio dichiarato Califfato, non basteranno i consulenti militari statunitensi e iraniani, ma forse i 5 caccia russi Sukhoi potranno dare uno stimolo alla controffensiva del frantumato governo di Nuri Al-Maliki contro le milizie di Abu Bakr al-Baghdadi.

In Egitto si discute del trionfo “gonfiato” di Al Sisi e della sua intransigenza verso ogni opposizione, e non solo quella dei Fratelli musulmani bollati come terroristi, mentre in Libia l’ex generale Khalifa Haftar ha aperto una sua personale caccia alle milizie islamiche per una pacificazione laicizzata, anche attraverso un golpe, del paese che rischia così la sua frammentazione in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.

In Libia nel silenzio si sono svolte le elezioni politiche caratterizzate dalla violenza (è stata uccisa l’avvocato per i diritti umani Bugaighis), e la grande astensione.

Entro il 2013 si doveva tenere a Roma la Conferenza internazionale sull’assistenza alla Libia, con la partecipazione dei principali Paesi coinvolti. Nel frattempo Enrico Letta è decaduto da premier e Matteo Renzi ha una moltitudine di impegni in ambito italiano ed europeo, perdendo l’occasione per esercitare un ruolo nel Mediterraneo.

Affermare che il Mediterraneo è inquieto, e non solo per tutta quell’umanità che rischia in fatiscenti imbarcazioni l’attraversata per trovare un luogo dove vivere in pace, può apparire minimizzare la situazione senza contare il conflitto siriano che Bashar al Assad vuole risolvere anche con raid aerei in territorio iracheno contro i miliziani dell’Isil. Miliziani che il regime di Bagdad ha inizialmente stimolato nella loro organizzazione come elemento disturbatore tra le file dell’opposizione siriana.

Nel groviglio iracheno è troviamo delle tacite alleanze di governi che in altri scenari si confrontano tramite i loro “protetti”.

Brutal infighting persists among Syria insurgents

 

 

 

 

 

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L’Isis istituisce il Califfato “Siamo la guida dell’Islam”
I jihadisti: sotto il nostro controllo i territori dal nord della Siria alla zona orientale dello stato iracheno. A Baghdad arrivano i caccia russi

29/06/2014

L’esperto Usa: “L’Iraq non verrà diviso E l’Isis è al limite delle proprie capacità” La creazione di un «califfato islamico» che va dall’ovest dell’Iraq all’est della Siria e che comprende importanti città del Medio Oriente è stata annunciata oggi da miliziani qaedisti, contro i quali a giorni l’aviazione irachena userà per la prima volta aerei militari russi arrivati oggi a Baghdad.

mercoledì, giugno 25th, 2014
Iraq: gruppi qaedisti Al Nusra e Isil si riuniscono al confine con la Siria

Si sta delineando uno scenario preoccupante in Iraq dove secondo quanto ha riferito l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), l’ala siriana di al Qaida e miliziani qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) hanno deciso di unirsi con un accordo raggiunto ad Abukamal, cittadina situata nei pressi del valico frontaliero iracheno di al Qaim.

 

02 OlO Islamia Egitto Libia Iraq e milizie islamiche iraq-siria-califfato-tempi-copertina
L’Iraq, la Siria e poi? Così l’esercito del terrore vuole marciare su Baghdad e portare la guerra santa in Occidente
giugno 22, 2014 Leone Grotti
Il califfato islamico sognato fin dal 2006 dall’allora nascente Stato islamico dell’Iraq (Isi), oggi è realtà sotto la guida di Abu Bakr Al Baghdadi, che lo guida dal 2010 e a quel primo progetto ha aggiunto la Siria, trasformando il gruppo in Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil).

 

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Iraq: peshmerga, 6 mesi fa avvertimmo Baghdad e 007 Occidente su pericolo Isil

Le forze curde peshmerga hanno preso il controllo di tutte le aree curde irachene dopo la ritirata dell’esercito iracheno a Mosul la settimana scorsa e tra queste anche la provincia contesa di Kirkuk.

Egitto, il trionfo “gonfiato” di Al Sisi
L’affluenza alle urne al 48 per cento
L’ex generale protagonista della cacciata dei Fratelli musulmani lo scorso luglio, ha conquistato la presidenza con il 95% dei voti. Ma oltre la metà non va ai seggi
Francesca Paci
INVIATA AL CAIRO
28/05/2014
Il Cairo, balli e caroselli per la vittoria di Al Sisi

Scontri a fuoco a sud di Tripoli
Libia ancora nel caos, attacco al Parlamento

Prosegue la battaglia tra l’esercito paramilitare e le milizie integraliste islamiche. 79 morti e 140 feriti a Bengasi, spari anche vicino al Parlamento a Tripoli

Libia generale Khalifa Haftar sostiene di vincere la guerra contro le milizie islamiche

Mary Fitzgerald da Bengasi
theguardian.com, Martedì 24 Giugno 2014 13.15 BST
Generale Khalifa Haftar è evasivo quanti uomini ha direttamente sotto il suo comando.

Khalifa Haftar: renegade general causing upheaval in Libya
Commander has managed to rally influential bodies in offensive against post-Gaddafi government but is dogged by old CIA link

Libia: nuovi scontri a Bengasi, 4 morti e famiglie in fuga
Bengasi (Libia), 15 giugno 2014

Khalifa Haftar, l’ex generale libico che ha dichiarato guerra ai miliziani islamici a Bengasi, ha sferrato un nuovo attacco nella critta della Cirenaica; e gli scontri hanno subito innescato la fuga di decine di famiglia dalla città portuale. Negli scontri sono già morte quattro persone e ci sono 14 feriti. Nella città c’e’ un black-out perché un missile ha colpito un impianto di distribuzione elettrica.

 

C’è ancora molta confusione in Libia: domenica pomeriggio nella capitale sono arrivati i carri armati della milizia che viene dal nord del paese.

di Redazione
19 maggio 2014
In Libia è guerra civile

CONTRO AL QAEDA
Volontari delle milizie sciite irachene.
Iraq, l’esercito e le milizie sciite combattono a Sud
Riconquiste vicino a Tikrit. L’Iran invia truppe. In attesa degli Usa.

 

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