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Confini / Limes

I confini sono una creazione moderna: nei tempi antichi il Limes era presidiato, ma in maniera meno burocratica di adesso. Indicava piuttosto la fine del territorio dove era esercitato il potere dello Stato, magari lì affidato ai legionari con famiglia o delegato alle comunità locali romanizzate. Al di là del Limes non c’era il contatto immediato con un altro impero, ma piuttosto un continuo attrito di frontiera in vaste aree incolte ancora prive di governo o abitate da nomadi. Nel  lessico romano dopo l’ager venivano il campus e infine la silva, ovvero: campi coltivati, terreni forse colonizzabili e zone selvagge. Anche se in ampie aree del pianeta il controllo statuale è spesso solo formale per mancanza di strutture o semplicemente di popolazione, oggi una zona senza stato è solo la conseguenza di un collasso politico (come in Libia), il concetto di confine essendo organico allo stato nazionale. Almeno in Europa i confini sono diciamo razionali: le Alpi dividono le popolazioni italiane da quelle francesi, tedesche e slave; i Pirenei sono lo spartiacque tra francesi e spagnoli, mentre i lunghi fiumi del Nord fissano i confini nel senso dei meridiani: il Reno spartisce francesi e tedeschi, l’Oder fissa la frontiera tra tedeschi e polacchi, dopo la Narva ai baltici subentrano i russi. Ovviamente esistono sempre minoranze stanziate dalla parte sbagliata, ma è solo la Guerra Fredda ad aver fissato per più di quarant’anni confini presidiati quanto artificiali; altrimenti c’è sempre una logica, a meno che uno stato non decida di spostare popolazioni allogene da un’altra parte, come fecero i Turchi Ottomani nei Balcani o nel Baltico i Sovietici. Ma in quel caso possiamo parlare di movimenti metanastatici, ovvero spostamenti demografici interni agli imperi. I friulani iniziarono a emigrare quando la fine dell’Impero austro-ungarico impedì loro di lavorare a stagione in Polonia come facevano da sempre. E a scatenare la seconda Guerra Mondiale furono anche le nuove frontiere decise dai vincitori della prima, e non a caso gli Americani nel 1945 impedirono agli alleati altre annessioni territoriali, mentre per i sovietici e gli jugoslavi il discorso fu ben diverso: ai polacchi fu tolto una parte di territorio a est, compensato da una parte della Prussia orientale, mentre la Jugoslavia di Tito oltre l’Istria  stava per annettersi Trieste ma almeno in quello fu fermata da Churchill. Oggi il confine è aperto, ma per anni al porto mancava il naturale entroterra commerciale proprio per la rigidità dei confini.

Ma ora andiamo ora in Africa. I giornali dicono che gruppi terroristici si muovono tra Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad, sconfinando magari in Libia o in Mauritania. Ebbene, invito tutti ad aprire un atlante De Agostini o Google Maps: i confini tra quegli stati africani sono tirati con riga e compasso, uniscono zone quasi a casaccio, fanno convivere etnie diverse o le dividono dall’etnia omologa. Disegnate sulla carta ma non sul terreno, quelle frontiere non sono presidiate se non da rade pattuglie del deserto, né hanno senso per gli allevatori nomadi Tuareg e Tebu. Neanche ho idea di come accorgersi di aver sconfinato, visto che non ci sono posti di dogana o reticolati. Eredità coloniale, ma drammaticamente presa sul serio dai giovani stati africani, che hanno accettato senza mai discutere le vecchie linee di confine a suo tempo  disegnate dai diplomatici europei su carte geografiche magari anche imprecise. In maniera non meno drammatica, l’Impero Ottomano fu smembrato dopo la prima Guerra Mondiale. L’accordo segreto anglo-francese Sykes-Picot (1916), anche se è durato 100 anni, si è inventato l’Iraq, il Libano e la Siria, più la Palestina affidata agli Inglesi, con i risultati che sappiamo. Ma se i confini tra Iraq e Iran sono soltanto convenzionali e seguono in gran parte l’Eufrate, dalla parte del Tigri la situazione non è lineare. In ogni caso i grandi fiumi – Danubio, Volga, Tigri ed Eufrate – spesso non dividono ma uniscono, specie se navigabili.

Sia chiaro che i confini hanno comunque un senso: quando ho fatto il militare a Trieste negli anni Settanta del secolo scorso ho capito a che serve un confine e perché va difeso, concetto oggi dilavato e ambiguo, vista l’ondivaga politica estera italiana. Ma che senso ha difendere con muri e reticolati Ceuta e Melilla, due antieconomiche exclave spagnole (cioè formalmente europee) in Marocco? Difenderle dagli africani, quando sono Africa? Nel 2020 non dovrebbero semplicemente esistere.

Morale? Le frontiere dovrebbero deciderle direttamente le popolazioni. Spagnoli e portoghesi si ignorano e la linea di confine è la stessa da mille anni. Noi italiani abbiamo la fortuna di avere le Alpi, che sono confini naturali come i Pirenei. Ma erigere muri non serve (l’ultimo è la Brexit), o almeno è antieconomico. L’idea può non piacere, ma è la realtà. Quando poi le Nazioni Unite stabiliranno che ognuno può andare dove gli pare senza dare spiegazioni, allora sarà realmente una nuova era.

Orano, la città dei leoni e della musica

  • di Khalid Valisi

Una vera e propria “Tortuga del Mediterraneo”; Orano è una città che nel tempo ha saputo affascinare marinai di ogni dove, la cui esperienza si è poi riversata nel Raï, genere simbolo dell’intera Algeria.

Orano, la città dei pirati e dei leoni

Il nucleo originario della città venne fondato nel 903 d.C. da dei mercanti omayyadi andalusi che riconobbero fin da subito la potenzialità di quest’area. Il nome, secondo la tradizione, viene fatto risalire dalla radice tamazight “hr”, che in berbero indica il leone, animali che avrebbero popolato a lungo quest’area.In poco più di 200 anni l’insediamento divenne sempre più ambito, tanto da cadere nelle mani della dinastia zayyanide prima e del regno di Spagna poi.

Orano
Barbarossa, colui che partorì l’eyalet d’Algeria

Gli iberici, infatti, avevano da tempo posto le loro mira sulla costa africana, riuscendo ad occupare luoghi come Melilla ed Algeri. Con la presa da parte degli europei nel 1509, la città, così come l’intera Algeria, divenne luogo ambitissimo per operare razzie e saccheggi, tanto che buona parte dei successivi attacchi ottomani avvennero proprio per mano di corsari. Quest’ultimi conquistarono definitivamente Orano nel 1791, venendo però scacciati ancora una volta ad inizio ‘800 dai francesi.

La dominazione francese e la nascita del Raï

Con la dominazione dei transalpini, la città conobbe un enorme sviluppo, diventando seconda solo capitale per grandezza ed attirando al suo porto moltissimi esuli di ogni dove. Orano era infatti popolata, oltre che da francesi, ebrei ed arabi, da italiani, spagnoli e beduini amazigh, i quali contribuirono a donare alla città un substrato culturale unico nel suo genere.

raï
Il Rai in una foto

A partire dal 1930, infatti, proprio qui si andrà a diffondere la musica Raï, nuovo genere musicale che sfruttò appieno la posizione del centro per diffondersi in tutto il paese, diventando, de facto, la musica algerina per eccellenza. Con l’indipendenza acquisita nel 1962, però, tale musica comincerà ed essere sempre più malvista da uno stato che si identificava in primis come “arabo e musulmano”, tanto che si dovrà attendere addirittura il 1985 per vedere il primo festival di Raï ad Orano. Tutt’oggi la città è uno dei maggiori centri culturali del paese e la seconda città per numero di abitanti.

Khalid Valisi
di gennaio 2020
Articolo originale
dal blog Medio Oriente e Dintorni


Tripoli bel suol d’errore

Nel momento in cui scrivo si è svolta la conferenza di Berlino senza che nessuno dei due contendenti abbia firmato il protocollo finale. La tregua regge, grazie anche alla mediazione russa, ma Haftar blocca la metà dell’export di petrolio libico “perché lo chiede il popolo” (già sentita altrove), dimostrando di marcare stretto il suo avversario e di avere una strategia alternativa alle armi. Ma comunque vadano le cose, noi italiani siamo fuori o almeno al margine del Grande Gioco, gestito da ben altri attori e condotto da eserciti più o meno organizzati. E se cerchiamo di andare oltre le dichiarazioni alla stampa, non ci vuol molto a capire che dietro alle dichiarazioni dei nostri politici c’è poco: dopo aver per settimane detto che era auspicabile una soluzione negoziata (banale) e che si doveva fare ogni sforzo per la pace (id.), siamo disposti a mandare i nostri militari solo ad acque ferme, ma in genere i soldati si mandano per placare le onde. Sempre meglio dei quattordici mesi durante i quali agli Esteri c’era Moavero Milanesi: della Libia vedevamo solo l’incubo degli immigrati trascurando il resto. Sicuramente paghiamo gli errori del 2011, quando pressati da Francesi e Americani la guerra ce la siamo dichiarata da soli e il debole governo Berlusconi scaricava l’amico Gheddafi da un giorno all’altro. Lo stesso Berlusconi che ora lamenta la mancanza di un nuovo Gheddafi e irride i nostri attuali ministri fu in realtà corresponsabile del caos successivo: nessuno infatti aveva un progetto per il dopoguerra in un paese dove convivono 140 clan e dove non c’era un parlamento. Ma stare alla finestra, auspicare la pace o il negoziato o pensare a un embargo delle armi quando nel frattempo tutti hanno fatto quello che volevano resta poco più che una tardiva esercitazione retorica. Anche a Berlino si è parlato di interrompere il flusso delle armi, ma chi si doveva rifornire l’ha già fatto da tempo. Chi passa alle armi la guerra vuole vincerla e poco si cura del resto. In più, imporre un embargo significa far uscire le navi da guerra per farlo rispettare. La verità è che il governo italiano ha perso un anno di tempo e partiva male, visto che il rappresentante politico riconosciuto dalle Nazioni Unite e da noi patrocinato si è rivelato troppo debole. Non è tutta colpa nostra: Obama ce lo aveva raccomandato, ma Trump, il nuovo presidente, decideva che la Libia non era strategica per la politica americana e noi ci siamo trovati soli non solo contro Haftar, mediocre militare di carriera, ma anche contro i suoi protettori, attori come Russia, Egitto, Arabia Saudita e Francia. Sicuramente i nostri interessi sono in Tripolitania, mentre in Cirenaica avevamo problemi già all’epoca delle colonie. Ma, ossessionati dal problema dell’immigrazione, abbiamo visto corto e del resto neanche Al Serraj ci ha aiutato molto. Messo alle strette da Haftar, alla fine ci ha chiesto armi e soldati che non potevamo comunque dare se non all’interno di un mandato ONU e senza violare l’art. 11 della Costituzione; quindi si è rivolto ai Turchi – musulmani ma non arabi – i quali possono mandare anche una brigata di fanteria senza troppi problemi politici (la logistica è un altro discorso). Dopo un secolo dunque i Turchi si riprendono Tripoli, da cui li avevamo sloggiati nel 1911-12. Al Serraj forse non sa che chiamare in aiuto un esercito straniero significa la perdita di indipendenza e noi italiani ne sappiamo qualcosa, visto che ci abbiamo messo secoli prima di levarci di torno chi voleva governare al posto nostro, né è detto che ci siamo ancora riusciti. Ma questo è un altro discorso. Il paradosso è che siamo in questo momento alleati di una media potenza – la Turchia – che manda in giro mercenari siriani e nel frattempo ha firmato con la Libia un trattato che di fatto spezza in due il Mediterraneo orientale e ipoteca la nostra presenza nella gestione del petrolio libico (le concessioni dell’ENI) e nello sfruttamento della piattaforma naturale fra Cipro e le isole greche. Ma quando una nostra nave ENI è stata cacciata dalle acque attorno a Cipro più di un mese fa non abbiamo battuto ciglio, salvo mandare in crociera da quelle parti una nave della nostra Marina un mese dopo. La prassi diplomatica suggeriva almeno di convocare l’ambasciatore turco per consultazioni. Tenendo presente che quel trattato è illegale pesta i piedi anche a Grecia, Egitto e Israele, forse qualcosa si poteva anche fare. Quanto all’Europa come entità politica, si doveva muovere prima e in modo coordinato, anche se nessuno si fa illusioni sulla sua coesione politica. Ora la Germania ha preso l’iniziativa diplomatica, anche perché dipende molto dal gas e petrolio russi e la partita di gioca su più tavoli, ma l’Italia è stata l’ultima a capire che non si può far niente da soli. Sicuramente l’Europa si è mossa tardi e in modo poco coordinato, ma sappiamo bene che alcuni singoli paesi – penso alla Francia – perseguono da sempre interessi nazionali, che peraltro sanno individuare meglio di noi. D’altro canto i governi Turchi, Russi e Statunitensi sono coscienti che in Europa la guerra non vuole più farla nessuno e si regolano di conseguenza, anche se la diplomazia suggerisce di avvertire almeno gli alleati delle proprie intenzioni: la Turchia è pur sempre un paese della NATO. Purtroppo, la situazione internazionale ricorda l’inerzia del 1938, quando a chi voleva espandersi a spese degli altri fu concesso tutto in cambio di niente, col risultato di scatenare la guerra mondiale che alla fine tutti hanno dovuto combattere. Sicuramente l’attuale sistema delle relazioni internazionali e del bilanciamento delle potenze limita il rischio di una guerra su larga scala, ma i conflitti locali o per procura mostrano da tempo i limiti delle Nazioni Unite nel saperli evitare e gestire. Si direbbe che il trend attuale è la distruzione degli stati deboli e non allineati e la successiva spartizione in zone d’influenza, com’è avvenuto in Iraq e in Siria. Sono conflitti misti, dove si vedono sul campo sia eserciti regolari che bande irregolari, più formazioni di duri mercenari legate ai governi in campo(rispettivamente siriani al servizio dei Turchi e il neanche tanto misterioso Gruppo Wagner gestito dai Russi, più sudanesi e forse chadiani . A Berlino si è detto di disarmare le milizie (600 circa, divise fra 140 clan, ndr.) ma nessuno ha parlato di mercenari, segno che per ora è un problema di difficile soluzione. Comunque vadano le cose, la Libia potrebbe essere di fatto spartita tra Russia e Turchia, vista la sua divisione storica fra Tripolitania e Cirenaica, più a sud l’enorme Fezzan. Fu infatti proprio l’Italia coloniale a unificare il paese, percorso proseguito da Gheddafi nei suoi 42anni di potere, durante i quali comunque egli fece anche gli interessi del suo popolo. Dal canto nostro potevamo offrire tecnologia e infrastrutture in cambio di petrolio, quindi possiamo dire benissimo che Italia e Libia avevano economie complementari. Come andrà ora ancora non lo sa nessuno, ma è intuitivo pensare che ditte turche e russe si guadagneranno le concessioni petrolifere scalzando l’ENI e forse anche i Francesi, la cui condotta politica ha sfiorato la diplomazia parallela ma poco può fare con attori del calibro dei Russi. Tutto il resto a noi in fondo interessa poco, ma proprio per questo la nostra politica estera avrebbe dovuto essere meno passiva. E qui una nota personale: quando parlo con amici stranieri di un certo livello culturale, non è facile spiegar loro perché un paese messo da Madre Natura in mezzo al Mediterraneo non riesca mai ad avere un ruolo di protagonista, e questo non solo dal secondo dopoguerra. Le ragioni le spiegava l’ambasciatore Sergio Romano: perché non sappiamo identificare gli interessi nazionali. A questo aggiungo l’opinione di Edward Luttwak: perché non abbiamo una forte coesione nazionale. Di mio aggiungerei: perché attualmente abbiamo una classe politica ma non una vera classe dirigente. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Clima: Una buona pratica verde

Solo un anno fa l’adolescente svedese Greta Thunberg stazionava davanti al parlamento di Stoccolma con lo slogan Skolstrejk för klimatet (Sciopero della scuola per il clima) col suo cartello per stimolare i politici svedesi ad una svolta ambientalista ed ora esiste una rete globale che mette in contatto milioni di giovani impegnati sulle tematiche climatiche.

Salvaguardare l’ambiente e la degenerazione climatica non è una scoperta del 2018, ma un processo che va avanti da una quarantina d’anni con avvertimenti di scienziati e sparuti politici: ora si è arrivati probabilmente alla maturazione oppure era necessaria una voce nuova per echeggiare in ogni angolo della Terra la richiesta di un futuro per le nuove generazioni.

Da anni nei parlamenti dei paesi nord europei le istanze ambientaliste hanno rappresentanza, mentre nel bacino del Mediterraneo solo pochi politici hanno trovato ospitalità nelle formazioni politiche per mettere in guardia l’umanità dall’inquinamento della terra, dell’acqua e dell’aria, dal progresso che produce nuovi prodotti chimici per l’igiene e per la produzione agricola, oltre che per il trasporto.

A 40 anni dalla Prima Conferenza mondiale sul clima (Ginevra 1979), dove gli scienziati di 50 nazioni si sono incontrati e hanno riscontrato nel clima cambiamenti preoccupanti e la necessità di prendere dei provvedimenti, 11 mila scienziati hanno firmato un documento, pubblicato sulla rivista Bioscience, sul fallimento dell’umanità nel contenere le emissioni di gas serra e sulla necessità di azioni adeguate alla sfida.

In 40 anni si sono susseguiti vertici e conferenze con documenti finali che ribadivano la necessità di un cambiamento energetico, rendendo obsolete le fonti da idrocarburi, modificando lo stile di vita dei paesi “sviluppati”, senza penalizzare le comunità disagiate del resto del Mondo che subiscono le carestie e i cambiamenti meteorologici sempre più frequenti.

Avvertimenti rimasi inascoltati o insufficienti progressi che alla del Climate Change Conference COP 25 2019 https://unfccc.int/cop25 di Madrid (2 – 13 dicembre), inizialmente programmata a Santiago del Cile, verranno ribaditi e forse questa volta, sotto una maggior pressione dell’opinione pubblica, potrebbe portare ad una presa di coscienza, senza contare sugli odierni Stati uniti, da parte dei Governi e di un senso di responsabilità delle singole persone, per un differente approccio culturale alla vita, non limitandosi  al rapporto dell’umanità con la natura, ma anche tra le persone come tra quello dell’uomo con la donna.

Qualcosa certo sembra stia cambiando, forse perché la politica si è accorta che gli adolescenti di oggi saranno gli elettori di domani o perché quelle rare voci nei partiti hanno saputo parlare ai loro colleghi. Comunque sia ora la salvaguardia dell’ambiente e l’influenza dell’uomo sul clima sono le tematiche sulle quali la politica si deve confrontare con le nuove generazioni e con gli scienziati che da anni studiano e redigono rapporti dell’impatto dell’uomo sul Pianeta.

Un impatto che non si limita all’essenzialità della vita quotidiana, ma trasborda nel superfluo come il godere dei gioielli sottratti alla Terra, con le miniere realizzate senza riguardo dell’ambiente e della salute delle popolazioni.

Una mega miniera a cielo aperto in Argentina, l’abbattimento di centinaia di alberi in Turchia o radere al suolo, come in Germania, un villaggio di 900 abitanti per far posto a miniere di rame, carbone, oro e argento.

Disboscamenti non solo per le miniere che feriscono l’Europa come l’Amazzonia e le foreste africane, ma anche per la cellulosa e il legname pregiato per arredi che minano l’habitat della flora e della fauna, spingendo gli animali verso le zone urbane.

Per ora è difficile convertire lo stile di vita della maggioranza abituata all’uso dell’auto anche per spostamenti brevi, al turismo veloce, alle tavole imbandite di ogni leccornie proveniente da ogni luogo del Mondo, alle bevande plastificate e a tutto quello che sino ad ora crediamo ci risolva la quotidianità o ci faccia  sembrare più “fichi” agli occhi degli altri e sicuramente non possiamo tenere la gran parte degli abitanti del Pianeta lontani dai gadget contemporanei, sperando di non vedere i cambiamenti climatici che sono in progressione.

Si potrebbe, se ci resta difficile fare dei cambiamenti nella nostra vita, appoggiare chi si impegna nel rimboschimento, singoli e organizzazioni, per riequilibrare il saccheggio perpetrato da incapaci di vivere in armonia con l’ambiente, riversando tutto il loro essere alla ricerca del vivere bene e non del “Buon vivere”.

Il Sinodo dedicato all’Amazzonia è stata l’occasione per riflettere anche sul nostro rapporto con la Natura, da non circoscrivere ai soli 9 paesi del bacino del Rio delle Amazzoni e da tutti i suoi affluenti, ma a tutto il Pianeta.

Il rimboschimento è in atto da anni in Africa non solo come argine alla desertificazione, ma anche come rapporto vivo con la Natura.

La keniana Wangari Maathai, Nobel per la pace 2004 e scomparsa nel 2011, ha sempre contato di dare l’esempio, con l’ effetto emulazione, effettuando in 27 anni, con Green Belt Movement http://www.greenbeltmovement.org/, la messa in dimora di 30 milioni di alberi.

Nel 2016, a Dadouar (Ciad), 150 bambini hanno ricevuto 15 mila alberi da innaffiare e proteggere dalla voracità di capre, bovini e cammelli, per essere piantati in un solo giorno, dimostrando di essere più bravi degli adulti e per questo premiati con penne e quaderni.

Mentre questo luglio in Etiopia, nell’ambito del Green Legacy Initiative, sono stati 350 milioni gli alberi piantati in 12 ore, battendo il precedente record dell’India, quando nel 2016 erano stati piantati 50 milioni di alberi in mezza giornata. L’iniziativa del primo ministro etiopico Abiy Ahmed, con l’obiettivo di contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, ha coinvolto 1000 luoghi del Paese.

In Irlanda, per i prossimi 20 anni, il Climate Action Plan https://www.dccae.gov.ie/en-ie/climate-action/publications/Pages/Climate-Action-Plan.aspx prevede di piantare 22 milioni di alberi all’anno, 1 milione di auto elettriche entro il 2030 e l’efficientamento di 50mila abitazioni all’anno.

Per moda o per sensibilità ambientalista non è poi importante se i milioni di alberi piantati in Italia riducono l’anidrite carbonica o se si realizzano orti e giardini verticali come quelli di Patrick Blanc e Jean Nouvel o foreste urbane come delle Fabbriche dell’Aria proposte dal neurobiologo Stefano Mancuso, autore del recente La nazione delle piante, e dal collettivo PNAT (designer, architetti e biologi), durante il Festival God is Green a Firenze.

Non solo gli scienziati e gli ambientalisti sono impegnati a sollecitare una riflessione sui cambiamenti climatici, ma anche i giornalisti offrono degli spunti sulle ripercussioni di un odierno stile di vita con Adaptation https://www.adaptation.it/, un progetto di constructive journalism, per raccontare con un webdoc le nuove strategie di adattamento al cambiamento climatico.

In Italia sono state coinvolte 3.000 classi, in occasione della Giornata degli Alberi 2019, con oltre 60mila studenti, per piantare 3.500 piante e Teresa Bellanova, la ministra delle politiche agricole alimentari, ha piantato un leccio, nell’aiuola di fronte al Ministero.

Una buona pratica quella di piantare alberi che potrebbe essere fonte d’ispirazione per Greta Thunberg per passare dai cortei del Fridays For Future all’azione collettiva e essere d’esempio sul palco madrileno del Climate Change Conference https://unfccc.int/cop25 COP 25 (2 al 13 dicembre), dove si discuteranno le strategie anti global warming.

Non il solo pungolare le istituzioni, con i Global Climate Strike https://www.fridaysforfuture.org/, ma un differente visione del futuro, con un vigoroso sollecitare la cura della Natura come unico immediato argine all’aumento dell’anidrite carbonica, per poi programmare la conversione delle fabbriche e dei mezzi di trasporto.

La folla dei Fridays for Future torna in piazza per sollecitare delle buone pratiche per buone azioni contro il consumismo che coinvolgerà l’Albero di Natale, abbandonato dopo le feste, e la smodata febbre dell’acquisto promosso dal Black Friday e da ogni periodica campagna di promozioni e saldi.

Con Ursula von der Leyen, la nuova Presidente della Commissione Europea, l’Europa potrebbe intraprendere la strada del “Green New Deal”, con un piano da 1.000 miliardi di euro, come motore di crescita per un futuro che possa sostenere la presenza di un’umanità in crescita su di un Pianeta che dovrà sfamarla.

Un ambizioso progetto che la von der Leyen, probabilmente, lo presenterà il prossimo 11 dicembre per una nuova strategia di crescita, per portare l’Europa alla neutralità climatica entro il 2050.

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Qualcosa di più:

Greta Thunberg | Un Clima che cambia le generazioni
Europa: Il clima delle nuove generazioni
Migrazione | Conflitti e insicurezza alimentare
Trump: i buchi del Distruttore
Trump: un confuso retrogrado
Trump: un uomo per un lavoro sporco
Clima: Parole che vogliono salvare la Terra
Conferenze su internet e sul clima nei paesi del Golfo: sono il posto giusto?
Il 2012 è l’anno dell’energia sostenibile. Tutte le iniziative a sostegno dell’ambiente
Festeggiamo le foreste: abbattiamo gli alberi
Immondizia e sud del mondo: un’umanità celata dalle discariche
Un’economia pulita
Il Verde d’Africa: sul rimboschimento nel continente
Cibo: senza disuguaglianze e sprechi
Spreco Alimentare: iniquità tra opulenza e carestia
Gli orti dell’Occidente
Ambiente: Carta di origine controllata

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Kosovo: Un riconoscimento dopato

A seguito della dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008, molti paesi hanno assunto una posizione ufficiale sul riconoscimento o meno della sovranità del territorio balcanico a status conteso. Ricordiamo che l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia era stata fortemente voluta dagli Stati Uniti, in aperto contrasto con la Russia e dopo i pesanti bombardamenti condotti dalla NATO nel 1999. Proprio la Russia è nel frattempo divenuta la nazione protettrice della Serbia, cosa non nuova ma favorita da una politica americana incapace di capire una realtà complessa come i Balcani. Nel successivo gioco diplomatico alcuni paesi hanno nel frattempo ritirato il loro voto positivo, forse su pressione esterna. Vi invito a leggere questa tabella (fonte: Wikipedia).

Indice

•          1 Paesi che hanno riconosciuto l’indipendenza

•          1.1 Membri dell’ONU

•          1.2 Non membri dell’ONU e altre organizzazioni sovranazionali

•          2 Paesi che non riconoscono il Kosovo

Al 2018 il Kosovo è stato formalmente riconosciuto come Stato indipendente da 113 dei 193 membri dell’ONU, tra cui i confinanti Montenegro, Macedonia e Albania. Tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, il Kosovo è riconosciuto da Stati Uniti, Francia e Regno Unito, mentre la Russia e la Cina continuano a considerarlo una provincia autonoma della Serbia. Entro il 27 luglio 2019, 14 Stati membri delle Nazioni Unite hanno ritirato il riconoscimento della Repubblica del Kosovo.23 dei 28 paesi dell’Unione Europea hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Vi si oppongono Spagna, Cipro, Romania, Slovacchia e Grecia.

  1. Membri dell’ONU

Afghanistan, Albania, Costa Rica, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Turchia, Australia, Germania, Senegal, Lettonia, Danimarca, Estonia, Italia, Lussemburgo, Perù, Belgio, Polonia, Austria, Svizzera, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia, Islanda, Slovenia, Finlandia, Canada, Giappone, Croazia, Monaco, Ungheria, Bulgaria, Liechtenstein, Corea del Sud, Norvegia, Isole Marshall, Nauru, Burkina Faso, Lituania, San Marino, Rep. Ceca, Liberia, Sierra Leone, Belize, Colombia, Malta, Samoa, Portogallo, Macedonia del Nord, Montenegro, Emirati Arabi Uniti, Malaysia, Micronesia, Panama, Maldive, Gambia, Arabia Saudita, Comore, Bahrein, Giordania, Rep. Dominicana, Nuova Zelanda, Malawi, Mauritania, Swaziland, Vanuatu, Gibuti, Somalia, Honduras, Kiribati, Tuvalu, Qatar, Guinea-Bissau,Oman, Andorra, Rep. Centrafricana, Guinea, Niger, Benin, Saint Lucia, Gabon, Nigeria, Costa d’Avorio, Kuwait, Uganda, Ghana, Haiti, Brunei, Ciad, Timor Est, Papua Nuova Guinea, Figi, Saint Kitts e Nevis, Dominica, Pakistan, Guyana, Tanzania, Yemen, Egitto, El Salvador, Thailandia, Grenada, Libia, Tonga, Lesotho, Togo, Isole Salomone, Antigua e Barbuda, Singapore, Bangladesh, Madagascar, Barbados

1.2       Non membri dell’ONU e altre organizzazioni sovranazionali

Taiwan, Isole Cook, Niue

Paesi che non riconoscono il Kosovo

Dopo la lettura e approvazione della dichiarazione d’indipendenza da parte del parlamento kosovaro, è arrivata la replica ufficiale da parte della Serbia, che considera il Kosovo parte inalienabile del suo territorio e culla della sua storia ha minacciato ritorsioni internazionali quali il ritiro degli ambasciatori dai paesi che avrebbero riconosciuto l’indipendenza kosovara. Dal 2017, alcuni Paesi che avevano stabilito relazioni diplomatiche con le autorità kosovare sono poi ritornati sui propri passi: il Suriname nel luglio 2016 aveva riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, nell’ottobre 2017, a seguito di colloqui intercorsi con la Russia, revocava il riconoscimento, con conseguente protesta del governo kosovaro che ha tentato di sollevare una disputa internazionale. In precedenza, analoga decisione di revoca era stata assunta da São Tomé e Príncipe. Nel febbraio 2018 il riconoscimento del Kosovo è stato annullato anche dal Burundi.[138], esempio seguito nel gennaio 2019 da Palau e dal Togo nell’agosto del 2019: dunque, sono a oggi 15 gli stati che hanno fatto marcia indietro su pressione di Russia e Serbia. La Guinea-Bissau ha dichiarato, nel novembre 2017, il proprio ritiro ma dopo poco tempo le autorità hanno inviato una nota verbale al governo kosovaro affermando che la revoca non ha avuto alcun effetto. Ancora più strana la scelta delle autorità di Sao Tomè e Principe che, secondo l’ex presidente Manuel Pinto da Costa, non aveva mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Infine la Liberia ha revocato il riconoscimento nel giugno 2018 pur confermando il mantenimento delle relazioni bilaterali con Pristina. Al che il governo di Belgrado ha abolito i visti per i cittadini provenienti da questi paesi. Obiettivo dichiarato del ministro degli Esteri serbo Ivica Dačić è infatti quello di ridurre a 96, meno della metà del totale, i paesi dell’ONU che riconoscono il Kosovo come Stato indipendente.

Questi i dati. La loro analisi è complessa ma anche inquietante. Il rifiuto di alcuni paesi dell’Unione Europea è motivato da profonde affinità ideologiche o religiose (Russia, Grecia), oppure dalla paura di favorire analoghe tendenze secessioniste all’interno della propria nazione (Spagna, Romania, Slovacchia, Cipro). E gli altri? In genere i paesi del c.d. Terzo Mondo appoggiano quasi sempre l’indipendenza di nuovi stati, essendo loro stessi nati da un processo di decolonizzazione o di sfaldamento imperiale, ma stavolta hanno visto – e non a torto – l’indipendenza del Kosovo come un problema di equilibri politici europei; di conseguenza sono stati meno solidali con l’ultimo arrivato. Ma quello che turba il sonno è rendersi conto che le decisioni delle Nazioni Unite dipendono non solo dal voto dei membri permanenti con diritto di veto e da decine di stati nazionali più o meno democratici, ma anche dalle decisioni di entità statuali che di fatto sono poco più che sportelli bancari. Per quale motivo il voto della Spagna o dell’Unione Sudafricana vale quanto quello di un paradiso fiscale sperduto nel Pacifico e abitato da tremila anime? E davvero nessuno vende il proprio voto? Ha suscitato scalpore – ma non troppo – la vicenda di un emissario, “un consigliere speciale del ministro degli Esteri serbo” che avrebbe incontrato a Parigi il ministro degli esteri del Togo, Silvi Baipo Temon offrendo circa 350 mila euro in cambio di una nota in favore della revoca del riconoscimento. Avete capito bene: per la stessa cifra si può comprare il voto del Togo o un appartamento al Prenestino. Si spera solo che per decisioni più gravi ci sia più serietà, ma il difetto è strutturale e risiede nel meccanismo stesso di voto di una organizzazione – le Nazioni Unite – nata in altri tempi con ben altre premesse e ben altri membri.