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I grattacieli davanti Greenwich

Recarsi in un luogo a distanza di una trentina di anni significa riscoprirlo, suscitando l’emozione che si potrebbe vivere nel passare da un’immagine in bianco e nero ad una versione a colori. In entrambi i casi qualcosa si perde e qualcos’altro si acquista.

La Londra di tre decadi or sono era certamente grigia, uscendo dai soliti percorsi turistici, oppressa da un velario di polvere, dove le case a schiera del proletariato urbano erano in attesa di un restyling strutturale e sociale, zone dickensiane immutate, distante dalla Swinging London di quegli anni eppure inseparabili dal cambiamento che era in pieno fermento.

Oggi è un continuo recuperare zone abbandonate o dimesse, una riqualificazione urbana e culturale che l’offerta gratuita di musei e la diversa esperienza di pubblica lettura hanno reso la capitale britannica una metropoli vicina ad una visione umana che spinge all’esterno degli itinerari turistici i senza fissa dimora.

Le “oscillazioni” della vita londinese degli anni ‘70 si sono trasformate in “attraversamenti” culturali. Alcune periferie rimangono lontane dal concetto di vivibilità, ma l’appuntamento con il secondo millennio è stato ben fruttato dalle amministrazioni.

Le varie realizzazioni con il prefisso “millennium” hanno marcato il panorama londinese, come il ponte di Norman Foster che collega la riva del Tamigi della cattedrale di St Paul con quello della Tate Modern o la deludente sala espositiva del Millennium Dome, sino alla spettacolare ruota panoramica.

Foster ha ridisegnato il profilo di Londra anche con il St Mary Axe, soprannominato “Il Cetriolino”, con una cuspide verticalità premiata nel 2004 per il suo design, nonostante l’estrema goffaggine della forma, stimola più di una perplessità vederlo dal ponte, spuntare oltre il complesso fortificato della Torre di Londra. Mentre sull’altra riva del Tamigi, a destra del ponte, sono ben visibili una serie di edifici che tagliano il panorama, come City Hall London City Hall o National Film Theatre. Il primo è un esempio estremo di architettura ideologica dell’onnipresente Norman Foster che riprende le curve del “cetriolino” per offrire una versione translucida di una grossa zucca per la sede alla Greater London Authority (ente amministrativo della Grande Londra), oltre che residenza del Sindaco della città, un tripudio di vetrate protese verso il fiume, mentre il secondo è la glorificazione della fortezza come tipologia architettonica. Mentre nelle vicinanze del Millennium Bridge, a Victoria Street, non passa inosservato il “cubo” di vetro della nuova sede della Salvation Army (Esercito della Salvezza), realizzato nel 2004 dallo studio Sheppard Robson. Una Londra pervasa da un’architettura autoctona, poco propensa ad aprirsi all’esperienza degli architetti europei, e tanto meno all’esperienza di quelli di altri continenti.

Attraversare Londra in lungo e in largo significa giungere anche nell’East End, nell’area conosciuta come Docklands e teatro delle imprese di Jack lo Squartatore. Un’ampia zona recuperata al degrado negli anni ottanta, con l’istituzione della London Docklands Development Corporation (LDDC).

Una “penisola” a ferro di cavallo, erroneamente definita Isle of Dogs (isola dei cani), disegnata dal Tamigi, di fronte a Greenwich, il cui nome, probabilmente, lo deve al ricovero per i cani da caccia di Enrico VIII o alla storpiatura dell’originale “Isle of the Docks” (Isola dei bacini).

L’ex area portuale dell’Isle of Dogs, ormai conosciuta come Canary Wharf, era nell’800 anche una zona ad alta densità popolare, ora zona residenziale, con la linea ferroviaria che si insinua tra e sotto gli edifici – la Docklands Light Railway (DLR) e l’estensione della Jubilee Line con la monumentale stazione di Norman Foster – dalle eclettiche architetture.

Una sorte di parco tematico della finanza, con la presenza della Credit Suisse, HSBC, Citigroup, JPMorgan che subentra nella vecchia sede della Lehman Brothers, Morgan Stanley, Bank of America e Barclays, un ampio catalogo di chi ha soppiantato l’economia produttiva, quella reale, con quella virtuale, oltre a grandi firme dell’informazione, tra cui The Telegraph, The Independent, Reuters, e il Daily Mirror, conquistando l’appellativo di piccola Manhattan, con abitazioni e uffici di prestigio. In questo dinamico quartiere sorgono i tre edifici più alti del Regno Unito, come il Canary Wharf Tower (244 m di altezza) con la caratteristica copertura a piramide, ma si vivono anche le contraddizioni di una grande metropoli. Spazi sottratti alla destinazione abitativa, favorendo l’incremento degli uffici di prestigio, costose abitazioni che schiacciano le vecchie case popolari sopravvissute al risanamento e alla speculazione di una delle zone che erano ritenute tra le più depresse della Gran Bretagna.

Un’area opulenta che convive con il disagio dell’emarginazione di immigrati e minoranze etniche delle zone limitrofe, rivaleggiando con il tradizionale distretto finanziario londinese della City, ma anche una meta per lo shopping, grazie anche all’apertura del centro commerciale Jubilee Place, che prima di inserirsi nella graduatoria delle zone ambite di Londra, ha dovuto superare i momenti difficili del collasso del mercato immobiliare e i ritardi sull’ampliamento della rete dei trasporti, soprattutto della Jubilee Line e del servizio di traghetto fluviale.

Un’area con sculture antropomorfe e scalinate che scivolano verso le immobili acque dei canali sui quali si specchiano i caffè e le architetture neo rinascimentale che si incrocia con un neo barocco per omaggiare un razionalismo aulico, su tutto echeggia il silenzio delle composizioni di Ralph Vaughan Williams e di William Walton. Banchine dove fanno bella presenza barche d’altri tempi e barconi utilizzati come abitazione, ormeggiati ai moli che erano funzionanti sino al 1961 e servivano le zone industriali nella parte orientale della città.

Canary Wharf salì alla ribalta delle cronache il 10 febbraio 1996, quando l’IRA fece esplodere una bomba nella South Quay DLR station, oltre l’omonima soap opera che ebbe breve durata, trasmessa da L!VE TV, una televisione britannica via cavo, che usava come set gli spazi in loco di proprietà dell’emittente.

Ai margini dell’area, a un chilometro e mezzo da Canary Wharf, nelle vicinanze della stazione East India della linea DLR, è possibile vedere il Trinità Bouy Wharf, l’unico faro di Londra costruito da Michael Faraday nel 1863.

Docklands, con Canary Wharf, troverà la sua compiutezza con i lavori che coinvolgono Londra per le Olimpiadi del 2012. Un cambiamento che non si limiterà ad adeguare la cartellonistica stradale o a convertire le miglia in km, ma potenziando la rete dei trasporti su rotaia, con ulteriori miglioramenti della Metropolitana di Londra Est, riqualificando la Docklands Light Railway, oltre alla nuova linea “Javelin Olimpico”.

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L’Egitto sull’orlo dell’irreparabile

Nessuno in Egitto sembra intenzionato alla riconciliazione, anzi sono in molti a soffiare sulla brace perché possa divampare un devastante incendio sull’esempio siriano.

L’Esercito come i Fratelli musulmani si sono accodati e insinuati nello scontento popolare che portò alla destituzione di Mubārak, strumentalizzandolo per fine opposti. I Generali per mantenere il potere con tutti gli optional, mentre la Fratellanza per collocare l’Egitto nell’alleanza islamica.

I militari continuano a detenere dietro le quinte il potere, mentre i Fratelli si sono impegnati a piegare la democrazia ai loro piani islamistici mentre l’inettitudine di Morsi è riuscita ad aggravare la crisi economica nella quale versa l’Egitto degli ultimi anni di Mubarak.

Un anno di governo islamico ha evidenziato tutta la debolezza di una vittoria elettorale ottenuta con un aritmetico 26% degli aventi diritto che si trasforma in un 51% di quelli che sono andati effettivamente a votare.

Un Morsi divenuto presidente grazie ad un’astensione trionfante per uno schieramento laico e liberale diviso.

Una rivoluzione che, se mai si può così definire, due anni fa si mosse dai giovani da piazza Tharir per coinvolgere ogni strato sociale scontento della mancanza di pane e di benzina, ma da allora nulla è cambiato se non l’incarcerazione di una famiglia per essere sostituita da un’altra. Un nepotismo islamico che è riuscito ad aggravare la crisi con le tasse su vari generi compresi gli alcolici.

I giovani manifestano a piazza Tharir e malvolentieri l’Esercito si schiera al loro fianco, l’Islam esce vincitore dalle elezioni per dimostrare tutta l’inettitudine politica e tutta l’ambiguità democratica di Morsi nel soddisfare le richieste dei suoi Fratelli. È nuovamente da piazza Tharir che sale lo scontento per un islamismo poco moderato e i giovani manifestanti di 21 Aprile hanno trovato nel movimento Tamarod la forza di ribellarsi ed ora è ancora una volta l’Esercito ad intervenire come salvatore.

I Militari si dimostrano alleati della piazza laica, lasciando alla polizia il lavoro sporco di sparare sui manifestanti islamici, sollecitando lo scontro tra i pro e gli anti Morsi, ma tenendo pronti i blindati nelle strade e gli elicotteri nel cielo.

Non sono solo degli osservatori e garanti della volontà popolare, i Militari operano anche dietro le quinte, strumentalizzano lo scontento e le nefandezze degli squadroni paramilitari per poi arrivare, dopo centinaia di morti, come i pacificatori in armi.

La “rivoluzione” rimane incompiuta, rischiando di trovarsi tradita per tornare ad un ancien regime.

La Primavera parte seconda è ormai alla quarta fase e si sta addentrando nel buio più profondo di una notte modello siriano. Una riconciliazione resta impossibile dalla crescente ira, come presagio per un conflitto in tutto il nord Africa tra islamismo e laicismo.

La sperimentazione di ogni di alleanze variabili sembra giunta a termine, rimangono i Militari nel ruolo di ago della bilancia.

Così i militari assurgono nuovamente ad ago della bilancia dei cambiamenti egiziani, per non perdere la loro influenza in una rivoluzione di un ancien regime che può definirsi colpo di stato applaudito dalle folle, ma per l’opposizione, con la sua ritrovata unità, è la Primavera parte seconda.

È stata la politica di Morsi ha trasformare i milioni di astenuti delle ultime elezioni in sostenitori dei militari, ritenendo che siano meglio loro della piovra islamica, come tende a giustificare il fotografo e scrittore Ahmed Mourad, autore del giallo Polvere di diamante (Marsilio).

Continuano le vittime e i feriti degli scontri tra le due fazioni in un Egitto che si affida alla tutela dei militari, usando le maniere forti per non permettere che il paese si rompa irreparabilmente sotto la rabbia islamista.

Nelle prossime settimane i militanti del movimento Tamarod potrebbero scoprire che i cambiamenti in Egitto non saranno ad una svolta, ma seguendo il copione della destituzione di Mubarak, scopriranno di essere stati usati per la seconda volta dalla vecchia nomenclatura per rimanere al potere.

L’esercito invita allo scontro tra opposti schieramenti anti e pro Morsi, per poi intervenire come pacificatori in armi, strumentalizzatori dello scontento per giustificare le maniere forti.

06 OlO Egitto sull'orlo del burrone Dessin de Haddad, Liban 16-06-Egypte-dossier-illustr-normale-HADDAD_2012-02-13-3962Qualcosa di più:

L’Egitto si è rotto

Egitto: laicità islamica

Nuovi equilibri per tutelare la democrazia in Egitto

Egitto: democrazia sotto tutela

Estive cautele d’Occidente

Una Primavera di libertà congelata dall’inverno

Turchia: Autocrazia Ottomana

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L’Egitto si è rotto

 

È passato appena un anno da quando era diventato presidente Morsi, un opaco esponente dei Fratelli musulmani, ricevendo l’appoggio di una parte degli egiziani che l’hanno considerato il male minore nello sceglierlo al ballottaggio ad Ahmed Shafiq, candidato indipendente legato ai militari e ultimo Primo ministro di Mubārak.

 

Una vittoria che non poco è stata influenzata dai numerosi egiziani, la metà degli aventi diritto al voto, che hanno scelto di astenersi per non schierarsi, dopo che l’opposizione si è trovata sconfitta nell’essersi presentata divisa con i suoi tre candidati, vedendo la vittoria di uno dei due candidati una rivoluzione incompiuta se non addirittura tradita.

 

Ora, con il passare dei mesi, il signor Morsi-Nessuno ha dimostrato tutta la sua ambiguità democratica e inadeguatezza nel gestire la crisi economica, traducendo un’elezione con un aritmetico 26% degli aventi diritto che si trasforma in un 51% di quelli che sono andati effettivamente a votare, come la gestione del potere di una parte dell’Egitto sull’altra.

 

 

Gli astenuti del 2012 si sono trovati insieme ai delusi dal metodo autocratico di Morsi nel movimento Tamarod (Ribelle), per raccogliere milioni di firme, ne hanno dichiarate 22milioni, per chiederne le dimissioni.

 

 

Milioni di firme che si trasformano in una folla oceanica che riprende possesso non solo di piazza Tahrir, ma in ogni strada del Cairo e di Alessandria, a Luxor come in altre città egiziane, lanciando l’ultimatum a Morsi.

 

 

Dopo il prolungarsi di scontri tra oppositori e sostenitori di Morsi, con decine di morti che diventano centinaia e incalcolabili e il numero dei feriti, sono le Forze armate, come nel febbraio del 2011 con la destituzione di Mubarak, a prendere in pugno la situazione, portando nelle strade blindati ed elicotteri nel cielo.

 

 

L’ultimatum di Tamarod diventa l’ultimatum dei militari e, dopo un iniziale timido tentativo di trattare, Morsi viene preso in “custodia” preventiva con i suoi collaboratori e i vertici dei Fratelli musulmani, altri esponenti del governo vengono invitati a rimanere nei loro appartamenti.

 

 

Così i militari assurgono nuovamente ad ago della bilancia dei cambiamenti egiziani, per non perdere la loro influenza nella rivoluzione di un ancien regime che può definirsi colpo di stato applaudito dalle folle, ma per l’opposizione, con la sua ritrova un’unità, è la Primavera parte seconda.

 

 

È la politica di Morsi che ha trasformato i milioni di astenuti delle ultime elezioni in sostenitori dei militari, ritenendo che siano meglio loro della piovra islamica.

 

 

Un’immagine quella di paragonare la Fratellanza ad una mafia condivisa da molti intellettuali come il fotografo e scrittore Ahmed Mourad, ultimo libro pubblicato il giallo Polvere di diamante per Marsilio, che il potere egiziano l’ha visto da vicino essendo stato il fotografo di Mubarak, Morsi e ora di Mansour, raffrontando la figura di Mubarak con quella di Morsi nel definire il primo un uomo che si era allontanato dal popolo e il secondo un organizzazione nelle mani dei Fratelli musulmani. Altrettanto severo è il giudizio dello scrittore Ala Al Aswani che equipara il loro comportamento come quello dei fascisti.

 

 

L’estromissione dei Fratelli musulmani dal potere egiziano riceve i consensi dell’Arabia saudita e l’applauso del siriano Bashar al-Assad che fa sospettare un accartocciamento dei cambiamenti nel Mondo arabo con ritorno agli antichi equilibri.

 

 

Un segnale di questa ricerca di antichi equilibri potrebbe essere la casualità che vuole il Presidente della Corte costituzionale egiziana, il giudice Adly Mansour nominato da Mubarak e promosso all’attuale carica da Mohammed Morsi, a essere designato dai militari come presidente ad interim fino a nuove elezioni.

 

 

Le prime mosse del presidente pro tempore Mansour hanno portato allo scioglimento della Camera alta, di nomina governativa, ha nominato il nuovo capo dell’intelligence e deve affrontare le violente proteste dei sostenitori di Morsi.

 

 

Continuano le vittime e i feriti degli scontri tra le due fazioni in un Egitto che si affida alla tutela dei militari, usando le maniere forti per non permettere che il paese si rompa irreparabilmente sotto la rabbia islamista.

 

 

In Egitto sono i militari a detenere il vero potere, anche dopo le numerose e raffazzonate riforme di Morsi nel limitarne la loro intromissione, ma senza poter fare a meno del finanziamento annuo statunitense di 1,3 miliardi di dollari.

 

 

L’Egitto ha sperimentato un socialismo nasseriano caratterizzato da una forte impronta nazionalistica panaraba che non ammetteva opposizioni, con Sadat il paese doveva superare Nasser per essere traghettato nel capitalismo che Mubarak lo portò a trionfare. Con i Fratelli musulmani è l’islam ad essere la soluzione e Morsi si accingeva a far vivere gli egiziani sotto tale precetto.

 

 

È uno scatto di orgoglio nazionalista che ha coinvolto così tante persone nel chiedere di non dover dipendere dall’elemosina dei paesi più ricchi, soprattutto dagli Stati uniti.

 

 

Quello che non piace a Tamarod di Morsi è il non essere riuscito a migliorare la sicurezza, a trovare delle soluzioni alla crescente povertà, al far sopravvivere l’economia egiziana con gli aiuti internazionali e soprattutto il non essere riuscito ad affrancarsi dalle decisioni statunitensi.

 

 

Il problema non è l’islam, l’Egitto è un paese musulmano, ma la politica messa in pratica dal movimento islamista dei Fratelli musulmani che ha portato a dividere il paese, ha evidenziato una polarizzazione della società egiziana, iniziata alla fine del 2012 con il decreto che permetteva a Morsi di raccogliere nelle sue mani gran parte dei poteri.

 

 

Nonostante i cospicui finanziamenti provenienti dal Mondo arabo e dall’Occidente, l’Egitto vive una crisi economica che si è aggravata con le incertezze di stabilità e riducendo a un lumicino l’industria turistica, escludendo la zona di Sharm el Sheikh e alle gite di un giorno a Luxor.

 

Il turismo ha subito un duro colpo, nonostante la disponibilità dei Fratelli musulmani a rendere duttili le direttive islamiche in favore del pragmatismo economico sui divieti nell’uso di alcolici e nell’utilizzo del bikini.

 

 

Il continuo veto posto dagli islamisti ad ogni laicità governativa evidenzia la mancanza di dialogo tra schieramenti. Alla mancata candidatura di El Baradei a primo ministro è seguita quella di altre personalità accusate di essere laici e troppo vicini agli Usa. Un’intransigenza della fratellanza musulmana ben comprensibile dopo aver visto esautorato il loro presidente Morsi e la maggioranza elettorale che non ha permesso nessun compromesso mentre la democrazia sotto tutela militare ha partorito un governo laicista di 34 ministri con 3 donne, di cui una cristiana, e nessun islamico. Questo il governo di transizione guidato dall’economista Hazem El-Beblawi, con Mohamed El Baradei suo vice, scelto dal presidente ad interim Adly Mansour e avallato dai militari che sono presenti con il generale Abdel Fattah al-Sisi, capo delle Forze armate e “ispiratore della destituzione di Mohamed Morsi, alla difesa.

 

Un governo ritenuto illegittimo dai Fratelli musulmani che continuano a manifestare sempre più rumorosamente anche in concomitanza con le visite del vice segretario di stato americano, William Burns, e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, in Egitto per due volte nello spazio di due settimane.

 

 

Il presidente statunitense, per uscire dall’imbarazzo di non aver compreso nuovamente la forza della piazza, afferma che la democrazia va oltre le elezioni. Altrettanto laconici sono i commenti di altri leader occidentali, evitando di stigmatizzare la destituzione di Morsi come un golpe, ma è al massimo la conseguenza di una forte pressione popolare assecondata dai militari.

 

 

Il paese è in fiamme e l’esercito usa le armi, l’Unione africana ha sospeso temporaneamente l’Egitto dal suo seggio, ritenendo “irregolare” la deposizione del presidente Morsi, sino a quando non saranno ripristinati i diritti costituzionali.

 

 

Nelle prossime settimane i militanti del movimento Tamarod potrebbero scoprire che i cambiamenti in Egitto non saranno ad una svolta, ma seguendo il copione della destituzione di Mubarak, scopriranno di essere stati usati per la seconda volta dalla vecchia nomenclatura per rimanere al potere.

 

 

La “nuova” dirigenza egiziana, con le frequenti incursioni armate nel Sinai, ha ritenuto indispensabile comunicare al governo di Tel Aviv, nel rispetto del trattato del 1979, la necessità di aumentare la presenza di militari egiziani nella penisola per far fronte ai diversi gruppi terroristici, tra i quali l’esordiente gruppo pro Morsi Ansar al-Shariah, che si infiltrano attraverso la striscia di Gaza.

 

 

Una decisione che ha portato il blocco dei diversi tunnel lungo il confine di Gaza mentre il valico di Rafah è stato chiuso. Di fatto i palestinesi di Gaza sono bloccati in quella che si ritiene “la più grande prigione a cielo aperto”, pagando di fatto il sostegno che Hamas ha dato e ricevuto dalla Fratellanza. La caduta del regime di Morsi ha reso la popolazione di Gaza una vittima collaterale, strangolando ulteriormente, se mai fosse possibile, l’economia di una zona tra le più disagiate del Pianeta. Una pressione su Hamas perché possa vigilare con maggior fermezza sui confini.

 

 

A Gaza nessun palestinese entra o esce ed ogni intervento medico urgente non potrà essere fornito, mentre i palestinesi Ramallah confidano nell’attività diplomatica del segretario di stato statunitense, John Kerry, nella ripresa dei colloqui di pace tra il governo israeliano e l’Autorità palestinese.

 

 

L’Occidente, interessato a mettere in sicurezza le forniture degli idrocarburi, si augura che l’Egitto possa presto tornare alla normalità costituzionale, per non cadere in una tragedia modello siriano, magari dopo la revisione che i dieci “saggi” dovrebbero effettuare sulla Costituzione, già emendata in senso islamico da Morsi e contestata da liberali e cristiani che ne denunciano i limiti di libertà e diritti umani.

 

La situazione siriana non sembra sortire alcun effetto come ammonimento, anzi l’esortazione a scendere in piazza del generale e Ministro della difesa El-Sisi sembra voler far eco agli incitamenti dei Fratelli musulmani allo scontro, mentre le famiglie egiziane continuano a soffrire la fame, come dimostra la fornitura di 240.000 tonnellate di grano provenienti dalla Romania, Ucraina e Russia per la produzione di pane sovvenzionato.

 

 

L’esercito invita allo scontro tra opposti schieramenti anti e pro Morsi, per poi intervenire come pacificatori in armi, strumentalizzatori dello scontento per giustificare le maniere forti.

 

 

 

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 OlO Egitto Rotto Il Faraone caprone Tamarod Campagna Rebel Ribellarsi

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Americhe: Tensioni di Pace

Il dialogo politico tra alcuni paesi Sudamericani ha inserito la retromarcia e sembra modificare i “blocchi” di alleanze politiche ed economiche nei confronti degli Yankee (nordamericani). Fenomeno strutturale o marginale? Troppo presto per dirlo, determinanti alcuni eventi di politica nazionale come le  negoziazioni di pace tra presidente Santos e le FARC in Colombia, la necessità di legittimazione del  neopresidente venezuelano Nicolas Maduro ed i fermenti continui delle coalizioni intragovernative come UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane), ALBA (Alleanza bolivariana per le Americhe) e MERCOSUR (Mercosur Mercado Común del Sur). La conciliante politica estera di Obama, più disposta al dialogo rispetto al suo predecessore, e l’influenza del nuovo Papa Latinoamericano dai valori bolivariani, del resto, ha contribuito a trasformare l’antico e sottile gioco di scacchi tra Nord e Sud America come un grande “Risiko” dove, invece di avanzare con dei piccoli carri armati di plastica, si procede a colpi di Twitter.

Con un messaggio di Twitter è stata annunciata dal ministro venezuelano delle Relaciones Interiores, Justicia y Paz, Miguel Rodríguez Torres la liberazione del “gringo Timothy Hallet Tracy”, documentarista statunitense arrestato in Venezuela poco dopo le elezioni presidenziali con l’accusa di aderire al piano di destabilizzazione del paese. Un gesto di conciliazione caldamente raccomandato da Obama, segno tangibile dell’avvio di una “relazione più costruttiva” tra Venezuela e Stati Uniti, ristabilita con l’incontro in Guatemala tra il Segretario di Stato americano, John Kerry, con il suo pari venezuelano Elías Jaua. La ripresa dei dialoghi tra gli Stati uniti e il Venezuela e la possibilità di ristabilire i reciproci ambasciatori non solo ha ricomposto la frattura di epoca Chavista, ma ha implicitamente dato l’Ok degli Stati Uniti all’insediamento di Maduro, come presidente del Venezuela.

Nel frattempo Maduro in tour Europeo, ha ricevuto la benedizione di Papa Francesco. Nella nuova atmosfera di “cordialità” ricreata dopo le invettive di Chavez, Papa Francesco da buon padre di famiglia ha auspicato distensione tra i suoi figli Maduro e Santos (presidente della Colombia), che si erano accusati reciprocamente di cospirazione: è necessaria l’armonia e l’appoggio dei bolivariani venezuelani per proseguire con il lungo processo di pace tra il governo Colombiano di Santos e le FARC (Las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia).

Infatti dopo oltre sei mesi di trattative nelle quali Norvegia e Venezuela hanno fatto da garanti, le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (Farc) e il governo di Juan Manuel Santos hanno raggiunto un primo accordo che va definendo il quadro di una riforma agraria, il primo dei sei punti sul tavolo del negoziato. Santos ha definito con un colpo di Twitter questo come un “paso fundamental” per porre fine a 5 decadi di conflitto armato.

È plausibile che Santos con l’intenzione di ricandidarsi alle prossime elezioni del 2014, stia tentando di acquisire consensi mettendo velocemente in rete questo goal; scommette sulla posta contraria l’ex presidente colombiano Álvaro Uribe, anch’esso probabile candidato delle prossime elezioni, che nel duello a colpi di Twitter afferma “il governo premia i terroristi”.

Anche nella politica estera, la Colombia o meglio il governo di Santos, cerca un avvicinamento con gli Stati Uniti e la Nato: il ministro della Difesa colombiano Juan Carlos Pinzón firmerà il primo accordo di cooperazione tra Colombia e la NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord).

Per questo Bolivia, Nicaragua e Venezuela hanno già ritenuto di convocare d’emergenza il Consiglio di Sicurezza del blocco costituito dall’UNASUR.

Pericolo imminente o estremizzato antimperialismo? Forse lo scopriremo più velocemente dai messaggi Twitter, che non dalle notizie riportate dai giornali.

Autocrazia Ottomana

I recenti avvenimenti turchi stanno avallando i dubbi avanzati da alcuni osservatori sulla democrazia d’impronta islamica perpetrata dal governo di Recep Tayyip Erdoğan all’indomani delle elezioni del 2002.

Erdoğan ha silenziosamente guidato la Turchia verso un’islamizzazione strisciante, limitando la laicità promossa da Moustafah Kemal Ataturk nel fondare la Turchia moderna e per una democrazia autoritaria. Una visione personalistica della democrazia molto simile a quella di Putin con l’addomesticamento della Turchia con ogni mezzo compreso l’arresto in massa di chi manifesta e di chi li difende davanti alla Legge.

Un indirizzo che non era evidente per tutti, ma le restrizioni sulla vendita degli alcolici o l’incoraggiare l’uso del velo in ogni luogo hanno ampliato lo scontento che la cementificazione di uno spazio verde di Istanbul non ha fatto che dare il segno a una protesta diffusa.

A far scendere per le strade la protesta è stata anche la scelta del governo di continuare a cementificare Istanbul con un nuovo centro commerciale, cancellando Gezi Park, uno degli ultimi luoghi verdi della città, per un progresso forzato da perseguire attraverso la strana idea occidentale che può essere realizzata con l’edificazione forzennata.

Alle porte di Istanbul la modernizzazione ha le fattezze del Teknopark, un complesso stile Silicon Valley che dal prossimo agosto, dopo oltre vent’anni d’intenzioni e lavori, ospiterà un migliaio di aziende di tecnologia avanzata.

Sembra indicato, nel caso di Gezi Park, citare il primo verso della canzone di Joni Mitchell, Big yellow taxi, (Ladies of the Canyon, 1970), anche se la folk singer si riferiva ad una cementificazione alle Hawaii “Hanno pavimentato il paradiso / e ci hanno messo su un parcheggio / con un hotel rosa, una boutique / ed un riflettore che ondeggia. […]”

La rabbia turca ormai non è solo ambientalista, ma soprattutto contro un governo che vuol sorvegliare troppo da vicino il comportamento dei singoli mettendo in discussione l’identità turca che non può essere quella araba.

La minaccia di abbattere 600 alberi è riuscita a coagulare le anime più diverse per gridare all’unisono lo scontento accumulato in anni di svolta autoritaria del governo Erdoğan che potrebbe coincidere con la crisi diplomatica con Israele e il voler assurgere a ruolo di tutore della riscossa del mondo islamico. Un’ambizione stimolata dalla nostalgia di un impero e dei suoi pascià che il progetto del complesso commerciale, con annessa ricostruzione di una caserma ottomana e una moschea, rendono Erdoğan un euroscettico per le continue richieste dell’Ue di europeizzare la Turchia e affiliarla all’Europa o la riluttanza di alcuni paesi della comunità di accettare nel proprio club uno stato islamico.

Una nostalgia per un’epoca che non era proprio di grande esempio per un musulmano con l’opulenza e le numerose deroghe alle regole all’Islam.

È più probabile che il governo Erdoğan non abbia mai avuto l’intenzione di dare seguito alla richiesta della maggioranza che lo aveva preceduto nell’aderire al Ue, ma preferire degli interlocutori commerciali più autoritari come la Cina e la Russia.

Il premier Recep Tayyip Erdoğan al suo terzo mandato, con il 52% di preferenza ben lontano dai risultati plebiscitari del 2002, ha ritenuto doveroso presentarsi poco dialogante, contraddicendo il suo schierarsi con le “Primavere” arabe e rivelandosi incapace di ascoltare le istanze dei suoi connazionali.

Una posizione muscolare quella di Erdoğan che ha sfoggiato nel gridare contro i social media e accusando la protesta di piazza di infiltrazioni straniere non ben identificate nelle proteste calandosi nella paranoia di un governante in cerca di nemici esterni per coagulare su di se il consenso, potendo contare sui suoi fan coattivi di 2.041.503 “Mi Piace” su Facebook e 2.823.762 Follower su Twitter.

Il porsi come un primo ministro autoritario gli permette di creare degli interlocutori come i capi della protesta e pensare a una consultazione referendaria sulla quale ci dovrà essere il futuro del Parco, ma gli permette anche di trovare nuove forme di censura come quella di multare le televisioni che trasmettono immagini della protesta ritenendo antieducativi i filmati.

Tutto questo mentre il movimento di protesta elegge Bella Ciao a sua colonna sonora e la ragazza in rosso che sfida il getto di gas lacrimogeni e degli idranti come suo simbolo.

Una posizione intransigente quella del primo ministro Erdoğan criticata anche dal presidente Abdullah Gül, anche lui islamico, portando in superficie i pacati contrasti tra le due alte cariche turche, marcando i contrasti all’interno della stessa compagine governativa e ponendo gli scontri non tanto tra islamismo e laicità, ma piuttosto tra una parte dello Stato e la maggioranza dei cittadini.

Erdoğan non ha alcuna intenzione di cedere alle proteste di piazza e vuol proseguire nei suoi progetti e appuntamenti come Giochi del Mediterraneo 2013 a Mersin o farsi intimidire dalle minacce di sospendere i negoziati di adesione della Turchia all’Ue.

Nessun rimprovero europeo o statunitense, sul comportamento dalla polizia nel contrapporsi alle proteste, fa recedere Erdoğan dalle sue posizioni e i 600 alberi che potrebbero diventare la fine di una democrazia autoritaria come la foresta lo fu per lo shakespeariano Macbeth.

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