Archivi categoria: Percorsi Europei

I grattacieli davanti Greenwich

Recarsi in un luogo a distanza di una trentina di anni significa riscoprirlo, suscitando l’emozione che si potrebbe vivere nel passare da un’immagine in bianco e nero ad una versione a colori. In entrambi i casi qualcosa si perde e qualcos’altro si acquista.

La Londra di tre decadi or sono era certamente grigia, uscendo dai soliti percorsi turistici, oppressa da un velario di polvere, dove le case a schiera del proletariato urbano erano in attesa di un restyling strutturale e sociale, zone dickensiane immutate, distante dalla Swinging London di quegli anni eppure inseparabili dal cambiamento che era in pieno fermento.

Oggi è un continuo recuperare zone abbandonate o dimesse, una riqualificazione urbana e culturale che l’offerta gratuita di musei e la diversa esperienza di pubblica lettura hanno reso la capitale britannica una metropoli vicina ad una visione umana che spinge all’esterno degli itinerari turistici i senza fissa dimora.

Le “oscillazioni” della vita londinese degli anni ‘70 si sono trasformate in “attraversamenti” culturali. Alcune periferie rimangono lontane dal concetto di vivibilità, ma l’appuntamento con il secondo millennio è stato ben fruttato dalle amministrazioni.

Le varie realizzazioni con il prefisso “millennium” hanno marcato il panorama londinese, come il ponte di Norman Foster che collega la riva del Tamigi della cattedrale di St Paul con quello della Tate Modern o la deludente sala espositiva del Millennium Dome, sino alla spettacolare ruota panoramica.

Foster ha ridisegnato il profilo di Londra anche con il St Mary Axe, soprannominato “Il Cetriolino”, con una cuspide verticalità premiata nel 2004 per il suo design, nonostante l’estrema goffaggine della forma, stimola più di una perplessità vederlo dal ponte, spuntare oltre il complesso fortificato della Torre di Londra. Mentre sull’altra riva del Tamigi, a destra del ponte, sono ben visibili una serie di edifici che tagliano il panorama, come City Hall London City Hall o National Film Theatre. Il primo è un esempio estremo di architettura ideologica dell’onnipresente Norman Foster che riprende le curve del “cetriolino” per offrire una versione translucida di una grossa zucca per la sede alla Greater London Authority (ente amministrativo della Grande Londra), oltre che residenza del Sindaco della città, un tripudio di vetrate protese verso il fiume, mentre il secondo è la glorificazione della fortezza come tipologia architettonica. Mentre nelle vicinanze del Millennium Bridge, a Victoria Street, non passa inosservato il “cubo” di vetro della nuova sede della Salvation Army (Esercito della Salvezza), realizzato nel 2004 dallo studio Sheppard Robson. Una Londra pervasa da un’architettura autoctona, poco propensa ad aprirsi all’esperienza degli architetti europei, e tanto meno all’esperienza di quelli di altri continenti.

Attraversare Londra in lungo e in largo significa giungere anche nell’East End, nell’area conosciuta come Docklands e teatro delle imprese di Jack lo Squartatore. Un’ampia zona recuperata al degrado negli anni ottanta, con l’istituzione della London Docklands Development Corporation (LDDC).

Una “penisola” a ferro di cavallo, erroneamente definita Isle of Dogs (isola dei cani), disegnata dal Tamigi, di fronte a Greenwich, il cui nome, probabilmente, lo deve al ricovero per i cani da caccia di Enrico VIII o alla storpiatura dell’originale “Isle of the Docks” (Isola dei bacini).

L’ex area portuale dell’Isle of Dogs, ormai conosciuta come Canary Wharf, era nell’800 anche una zona ad alta densità popolare, ora zona residenziale, con la linea ferroviaria che si insinua tra e sotto gli edifici – la Docklands Light Railway (DLR) e l’estensione della Jubilee Line con la monumentale stazione di Norman Foster – dalle eclettiche architetture.

Una sorte di parco tematico della finanza, con la presenza della Credit Suisse, HSBC, Citigroup, JPMorgan che subentra nella vecchia sede della Lehman Brothers, Morgan Stanley, Bank of America e Barclays, un ampio catalogo di chi ha soppiantato l’economia produttiva, quella reale, con quella virtuale, oltre a grandi firme dell’informazione, tra cui The Telegraph, The Independent, Reuters, e il Daily Mirror, conquistando l’appellativo di piccola Manhattan, con abitazioni e uffici di prestigio. In questo dinamico quartiere sorgono i tre edifici più alti del Regno Unito, come il Canary Wharf Tower (244 m di altezza) con la caratteristica copertura a piramide, ma si vivono anche le contraddizioni di una grande metropoli. Spazi sottratti alla destinazione abitativa, favorendo l’incremento degli uffici di prestigio, costose abitazioni che schiacciano le vecchie case popolari sopravvissute al risanamento e alla speculazione di una delle zone che erano ritenute tra le più depresse della Gran Bretagna.

Un’area opulenta che convive con il disagio dell’emarginazione di immigrati e minoranze etniche delle zone limitrofe, rivaleggiando con il tradizionale distretto finanziario londinese della City, ma anche una meta per lo shopping, grazie anche all’apertura del centro commerciale Jubilee Place, che prima di inserirsi nella graduatoria delle zone ambite di Londra, ha dovuto superare i momenti difficili del collasso del mercato immobiliare e i ritardi sull’ampliamento della rete dei trasporti, soprattutto della Jubilee Line e del servizio di traghetto fluviale.

Un’area con sculture antropomorfe e scalinate che scivolano verso le immobili acque dei canali sui quali si specchiano i caffè e le architetture neo rinascimentale che si incrocia con un neo barocco per omaggiare un razionalismo aulico, su tutto echeggia il silenzio delle composizioni di Ralph Vaughan Williams e di William Walton. Banchine dove fanno bella presenza barche d’altri tempi e barconi utilizzati come abitazione, ormeggiati ai moli che erano funzionanti sino al 1961 e servivano le zone industriali nella parte orientale della città.

Canary Wharf salì alla ribalta delle cronache il 10 febbraio 1996, quando l’IRA fece esplodere una bomba nella South Quay DLR station, oltre l’omonima soap opera che ebbe breve durata, trasmessa da L!VE TV, una televisione britannica via cavo, che usava come set gli spazi in loco di proprietà dell’emittente.

Ai margini dell’area, a un chilometro e mezzo da Canary Wharf, nelle vicinanze della stazione East India della linea DLR, è possibile vedere il Trinità Bouy Wharf, l’unico faro di Londra costruito da Michael Faraday nel 1863.

Docklands, con Canary Wharf, troverà la sua compiutezza con i lavori che coinvolgono Londra per le Olimpiadi del 2012. Un cambiamento che non si limiterà ad adeguare la cartellonistica stradale o a convertire le miglia in km, ma potenziando la rete dei trasporti su rotaia, con ulteriori miglioramenti della Metropolitana di Londra Est, riqualificando la Docklands Light Railway, oltre alla nuova linea “Javelin Olimpico”.

Dello stesso argomento:

successivo

Parigi: La frenesia delle luci
ottobre 2013

successivo
Roma Parigi: Andata e Ritorno
settembre 2013

02 PE I grattacieli davanti Greenwich 1 Londra Canary Wharf Docklands Greenwich 1a 04 36a02 PE I grattacieli davanti Greenwich 2 Londra Canary Wharf Docklands Greenwich 1a 04 3402 PE I grattacieli davanti Greenwich 6 Londra Canary Wharf Docklands 7 cor02 PE I grattacieli davanti Greenwich 5 Londra Canary Wharf Docklands 502 PE I grattacieli davanti Greenwich 4 Londra Canary Wharf Docklands 6a02 PE I grattacieli davanti Greenwich 7 Londra Canary Wharf Docklands 10 cor

Cultura al tempo della crisi

Serpeggia da anni il pensiero che ricollega la crisi dei beni culturali alla Legge detta di Ronchey, ma è ingiusto addossare tutta la responsabilità ad un solo uomo. Tanti sono i pregi di quella Legge, prima fra tutti di aver obbligato i musei a spolverare le loro collezioni, ma la sua applicazione ha permesso agli oscuri burocrati di dare il loro peggio estremizzando ogni visione privatista e autosufficiente del sistema museale.

Affidare alcuni servizi alla gestione privata può essere stato un incentivo per il pubblico, ma sicuramente è incomprensibile assegnare al privato l’organizzazione della Didattica. Un servizio quello della Didattica che non può essere un ambito dove si può confondere l’utente con il cliente. E proprio questa osmosi tra utente in cliente che è il vero nocciolo del cambiamento dei Beni Culturali da strumento di istruzione e conoscenza a giacimento culturali, al pari di una riserva di idrocarburi. Una visione stimolata dalla prorompenza “socialista” dell’era craxiana.

Da utenti a clienti è la vera questione dello svilimento della missione che a suo tempo era nel pensiero di Giovanni Spadolini quando “estrasse” dal Ministero della pubblica Istruzione oltre che le funzioni del Ministero degli Interni e della Presidenza del Consiglio dei Ministri gran parte delle competenze per la tutela dei Beni Culturali, intesi come musei, monumenti e ambiente, oltre che delle biblioteche e degli archivi.

Era la fine di gennaio 1975 e neanche vent’anni dopo Alberto Ronchey riesce a far approvare la Legge che porta il suo nome, aprendo a deviazioni liberaliste del patrimonio culturale, non solo aprendo all’iniziativa privata e al merchandising a tutti i costi, ma spalancando le porte all’idea di una cultura che possa produrre ricchezza per chi v’investe e non per chi ne dovrebbe usufruire.

Si è svecchiato il modo di gestire il patrimonio, ma non si è ritenuto importante riconoscere a tale patrimonio il ruolo educativo e di crescita. Un ruolo che i musei e le biblioteche dovrebbero svolgere per far conoscere a ogni cittadino la storia italiana.

I musei e le biblioteche non potranno mai autofinanziarsi, non vi riescono gli americani, ma possono creare ricchezza nel territorio. La soluzione non è nel manifesto lanciato nel 2012 dal Sole 24 Ore domenicale per una Costituente della cultura. La cultura non è un deodorante.

Il recente rapporto dell’EuroStat relega l’Italia nelle ultime posizioni in Europa per spesa pubblica dedicata alla scuola e alla cultura, ben lontana dal primo posto dell’Estonia che non ha come l’Italia oltre il 40% del patrimonio mondiale.

Forse il problema è che l’Italia continua ad avere troppo patrimonio, nonostante i crolli e il degrado nel quale versano. Dovrebbe avere meno per potersene prendere cura.

Un’analisi critica delle politiche culturali dell’Italia viene proposta da Tomaso Montanari nel suo recente libro Le pietre e il popolo (Minimum Fax), politiche basate su grandi eventi che poco hanno a che fare con un museo o un’area archeologica, trasformandoli in luna park o vetrine di moda solo per racimolare qualche euro per il restauro di un’opera o provvedere alla riparazione del soffitto.

Scelte che fanno transitare ancora di più il cittadino dall’essere utente a consumatore, non partecipi ma passivi alla vita culturale.

Il libro non è solo una critica contro la retorica del Bello che copre lo sfruttamento delle città d’arte, ma è un manuale di resistenza capace di ricordarci che la funzione civile del patrimonio storico e artistico è uno dei principi fondanti della nostra democrazia, e che l’Italia può risorgere solo se si pensa come a una “Repubblica basata sul lavoro e sulla conoscenza”.

Sul quotidiano La Stampa del 6 aprile 2013 un’inchiesta sui beni culturali, Bellezza, sprechi e scempi dei dodici gioielli d’Italia, tende a un certo ottimismo basato sul nostro patrimonio più conosciuto del centro-nord, tranne per un salto a Pompei e alla Reggia di Caserta che non sprizzano di salute, ma senza far menzione di Venezia o Bologna, come si ignora Napoli e Palermo.

Dodici musei e siti più visitati corredati da una scheda dei servizi e dove vi sono delle mancanze è il personale a sopperire con la loro disponibilità.

Luoghi di cultura con una missione, tra paradossi e occasioni perse, che difficilmente possono svolgere se l’ingresso è permesso solo attraverso i contanti, vedendo i visitatori come clienti e non utenti.

Realtà gestite con regole codificate e con la volontà di farle rispettare, senza tollerare i truffatori.

Lontano da ogni ottimismo è invece l’articolo Tutti i musei pubblici d’Italia guadagnano meno del Louvre di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera di cinque giorni dopo.

Anche da oltreoceano, e non è la prima volta, giungono critiche sulla cattiva gestione del patrimonio, coma ad esempio quello di Pompei con l’articolo The Latest Threat to Pompeii’s Treasures: Italy’s Red Tape, corredato dal video, del New York Times del 20 aprile. Un Tesoro, quello di Pompei che sta cadendo in disgrazia, minacciato dalla burocrazia italiana, dopo essere sopravvissuto alla distruzione del Vesuvio, agli scavi, per non dimenticare i traffici camorristici, e sopportato stoicamente i milioni di turisti.

Contemporaneamente il quotidiano britannico The Independent si domanda se la camorra sia la causa di tutti i problemi e crolli di Pompei o molto è dovuto all’insufficiente manutenzione. Una negligenza simile che accomuna Pompei ad altri monumenti come il crollo che ha coinvolto la Domus Aurea nel 2010.

La ricchezza dell’Italia non è solo Pompei che crolla o il Colosseo assediato dagli ambulanti, ma Selinunte o Alba Fucens, Sibari reduce da un allagamento o San Vincenzo al Volturno sulla via della transumanza, Buccino in Volcei o Aquileia, Pitinum Pisaurense o San Galgano

A cosa può servire in questa situazione svolgere il Forum Universale delle Culture a Napoli, sul quale peraltro i tagli sono calati come una mannaia?

Fortunatamente il fine settimana di metà aprile ha rivitalizzato il panorama culturale da due assemblee sul patrimonio comune come quella tenutasi a Roma presso il Teatro Valle Occupato per la Costituente beni comuni e il patrimonio culturale è un bene comune come l’acqua e l’aria, trovando giuristi e realtà sociali riunite per discuterne.

Mentre il dopo il voto e costruzione dell’alternativa economica è l’argomento a Firenze dell’assemblea che l’incompiuto soggetto politico denominato Alba (Alleanza per i beni comuni) ha riunito intellettuali tuttologhi e specialisti in vari campi, ma anche sindacalisti e politici, riafferma la sua esistenza con l’analisi sul risultato elettorale e sul governo Monti.

Cultura al tempo della crisi Milano DSC_4206 Cultura al tempo della crisi Roma Acquedotti Felice Parco DSC_3476Cultura al tempo della crisi Sicilia AnfiteatroCultura al tempo della crisi Campania Paestum

Le vie dell’italiano

Dall’Argentina alla Cina, dalla Russia agli Stati Uniti, da Cuba alla Repubblica Ceca, dall’Egitto al Messico: dove, come e perché viene studiata la nostra lingua nel mondo, attraverso la radiografia culturale ma anche economica di 21 Paesi nel loro rapporto con l’Italia, dal passato ai giorni nostri. «Da Francesco Petrarca a Ugo Foscolo diffondevamo nel mondo l’italiano prima che l’Italia esistesse sulla carta geografica. Perché il nostro idioma è un luogo dell’anima, il megafono del nostro intelletto e della nostra storia. L’italiano non fu mai – come il francese prima e l’inglese poi – lo strumento delle diplomazie, nemmeno quando prestavamo denaro a mezzo mondo ed eravamo una sorta di agenzia di rating delle monarchie europee, ma la fonte principale per abbeverarsi alla cultura umanistica sì. Nel Novecento la nostra bella lingua ha continuato a proliferare e a popolare il mondo grazie all’emigrazione, a milioni di persone andate in cerca di fortuna in ogni angolo del globo tenendosi aggrappate alle proprie tradizioni, alle parole apprese dalla madre, pur nelle mille sfumature delle regioni d’origine. (…) l’Italia continuerà a giocare un ruolo importante nel mondo e nell’economia globale quanto più riuscirà a valorizzare la sua storia e la sua cultura difendendo la propria lingua».

(dalla Prefazione di Pier Luigi Vercesi)

 *******************************************

Percorsi italiani Italia Paese che vai, italiano che trovi_bigPaese che vai, italiano che trovi

di Noli Valeria – Masi Alessandro – Cardillo Gianmarco

Editore: Edilazio, 2012

pp. 396, brossura

Prezzo: 15 euro

Lingua: Italiano

ISBN-10: 8896517990

ISBN-13: 978-8896517994

http://www.edilet.it/

http://www.ladante.it/

*******************************************

 

 

VIAGGIO NELLA FRAGILITÀ

L’iniziativa di Maria Rebecca Ballestra, avviata in gennaio 2012 e che si concluderà nel giugno 2013, è ispirata alla Carta di Arenzano per la Terra e per gli Esseri Umani del poeta Massimo Morasso (2001) ed è presente nel sito Journey into Fragility.

Il Manifesto è composto da dodici istruzioni per reimpostare in modo costruttivo i problemi della crisi ambientale, ed è stato sottoscritto da poeti più famosi del mondo (da Derek Walcott a Seamus Heaney e Adone, da Bei Dao a Mario Luzi, da Yves Bonnefoy ad Andrea Zanzotto e John Ashbery, solo per citarne alcuni).

Le dodici “riflessioni” del Manifesto Arenzano offrono l’opportunità d’intervenire in altrettanti luoghi del Mondo con progetti per la comunità, installazioni, video e realizzazioni site specific, con l’intento di sviluppare un dialogo aperto e costruttivo per l’ambiente e il valore della vita sulla Terra. Ogni intervento coinvolgerà un diverso curatore e partner scientifico, con l’intento di produrre un progetto costruttivo, in grado di portare nuove tecnologie e soluzioni per la salute e benefici della Terra, sia nei paesi ricchi e poveri.

Ciascuno dei dodici progetti artistici saranno registrati in un film documentario, una pagina web, e un reportage fotografico.

La durata del progetto sarà di circa un anno e mezzo, al termine del quale il lungo viaggio si concluderà in un evento espositivo completo, che sarà organizzato in Italia, per documentare tutte le fasi del progetto, per discutere i risultati di attività svolte in diversi paesi, per scoprire i diversi punti di vista sul comune risorsa “Terra”, per discutere e cercare di trovare nuove soluzioni e opportunità per il futuro

La quinta tappa del progetto si è svolta ad agosto in Cina nella provincia dello Zhejiang, dove il paesaggio offre una delle contraddizioni dei paesi industrializzati che vorrebbero coniugare le concentrazione di fabbriche a vaste distese di terre verdi e parchi naturali, dove abbondanza di laghi ha creato l’habitat favorevole alle foreste.

Il Viaggio nel Fragilità della Terra sarà, nella sesta tappa del progetto, a Singapore dal 27 ottobre al 1° novembre e sarà a cura di Fabio Carnaghi. NEWater – società leader in Italia per raccogliere l’acqua piovana e riciclare l’acqua utilizzata – sarà il punto di partenza per riflettere sulla ottava tesi del Manifesto Arenzano: Rispettare le differenze locali e le loro caratteristiche che definiscono sia compatibile con lo sviluppo economico.

 

 

*****************************************

FESTIVAL DELLA LETTERATURA DI VIAGGIO 2012

Altro_ve è il filo conduttore di questa V edizione che si snoda tra le sedi di Villa Celimontana (Giardini e Palazzetto Mattei) e di Palazzo delle Esposizioni (Spazio “fontana” e Sala Forum), a Roma dal 27 al 30 settembre 2012m per un Viaggio in Italia di Viaggi degli italiani, nella Letteratura, Geografia, Storia, Giornalismo, Fotografia, Cinema, Tv, Teatro, Musica

http://www.festivaletteraturadiviaggio.it