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Viaggio in Lapponia

In Lapponia nel mese di gennaio c’è l’attesissimo ritorno del sole e dopo quaranta giorni di buio i Sami, i nativi del luogo, si preparano ad accogliere la nuova alba e a “riabbracciare” la loro ombra.

L’agente di polizia Klemet Nango attende questo giorno con particolare emozione perché, pur essendo un Sami atipico in quanto l’unico ad aver indossato la divisa, dentro di sé la sua cultura e le sue origini non lo hanno mai abbandonato. Per sua sfortuna il tanto desiderato giorno sarà seguito di lì a poco da due gravi sventure all’interno della comunità: il furto di un tamburo sacro al popolo Sami e l’assassinio nel suo gumpi (abitazione) di Mattis Labba, un nativo pastore di Renne, con tanto di recisione delle orecchie, un gesto quest’ultimo dal significato molto particolare tra i pastori.

Le indagini sui due casi oltre che ad essere un racconto poliziesco sono anche un viaggio all’interno di una cultura, quella dei Sami, che per molti è sconosciuta. Considerati indigeni dai coloni scandinavi che tempo addietro “invasero” le loro terre affibbiandogli anche l’appellativo di Lapponi, i Sami riuscirono a resistere all’occupazione mantenendo intaccate la loro identità e la loro cultura, salvandosi dal triste destino delle riserve che è invece toccato ai loro “cugini”, i Nativi Americani.

“L’ultimo lappone” è un romanzo che va oltre una semplice storia dove solo i personaggi sono i protagonisti.

Olivier Truc ricostruisce con sorprendente maestria una tradizione affascinante che ancora oggi mantiene gli usi e i costumi che da sempre l’hanno contraddistinta. Sebbene la figura dello sciamano sia ormai estinta, i loro tamburi sacri o i Joik, i loro canti tradizionali, e la magia che si cela dietro ad essi, è ancora oggi uno dei punti saldi all’interno delle comunità. Ed è su questi punti saldi che gli agenti della Polizia delle Renne Klemet Nango e Nina Nansen si baseranno per svolgere le indagini, se non per l’aspetto mistico sicuramente per gli stretti legami che i due crimini hanno con la cultura Sami.

La vicenda si svolge tra Kautokeino in Norvegia e Kiruna in Svezia, e tra le due la città norvegese è anche quella che vanta la maggior concentrazione di Sami in tutta la Scandinavia. Oltre a queste due città i protagonisti si troveranno spesso a doversi muovere sul “vidda”, l’immenso oceano di neve e ghiaccio su cui i pastori portano le renne al pascolo. In questa grande distesa bianca la polizia dispone di numerosi rifugi utili per le soste nel caso di lunghi spostamenti, rifugi che offrono un’ottima protezione dalle ferree temperature che arrivano tranquillamente ai meno trenta gradi.

E’ suggestiva l’immagine che l’autore dà di questo paesaggio immacolato dove nei cieli risplendono le fantastiche aurore boreali, tanto belle da togliere il fiato.

Al suo esordio nel mondo della letteratura lo scrittore francese Olivier Truc tenta il colpo grosso con un romanzo dall’ambientazione “profondamente” nordica, in quella Lapponia dove i confini tra Norvegia, Svezia e Finlandia scompaiono sotto l’imponente manto innevato che ricopre tutto l’anno ogni angolo del territorio. Un esordio dal risultato tutto sommato positivo considerando anche il fatto che il romanzo è già stato tradotto in molti paesi, sintomo questo di una buona aspettativa di successo. Può capitare di chiedersi come mai uno scrittore francese decida di scrivere una storia ambientata in Scandinavia, ma è presto detto: Truc vive ormai da anni a Stoccolma dove lavora come referente per alcune testate giornalistiche francesi e la lunga permanenza deve aver ispirato l’autore nella stesura dell’opera.

Per chi avesse voglia di leggere un libro di stagione invernale L’ultimo lappone contiene gli ingredienti giusti, a partire da quei meno trenta gradi che incrementano ulteriormente la voglia di una buona lettura sotto la coperta accanto ad un bel camino acceso.

Klemet Nango lo invidierebbe molto… o forse no…?

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04 Libri L' ultimo lappone Olivier TrucTitolo: L’ultimo Lappone

Autore: Olivier Truc

Editore: Marsilio (Collana Farfalle)

Traduttore: R. Fontana

Anno: 2013

P. 446

Prezzo € 15,30

Disponibile anche in ebook a € 11,99

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Rembrandt e i Mennoniti

La caratteristica principale degli Anabattisti, come dei Mennoniti è la somministrazione del battesimo in età adulta. I Mennoniti, che nell’Olanda del Seicento vivevano a latere del Calvinismo ufficiale, avevano fatto rinascere l’eresia anabattista.

Ma perché inizio questo mio breve testo con questi concetti? Semplicemente perché sono il frutto di una interessantissima presentazione del volume (fanno anche parte del risvolto di copertina del libro) Giovinezza di Rembrandt – La committenza mennonita, avvenuta il 5 dicembre 2013 al Salone di Pietro da Cortona in Palazzo Barberini di Roma.

Il testo elaborato da Silvia Danesi Squarzina, Ordinario emerito di Storia dell’Arte Moderna (Sapienza – Università di Roma) che vanta un lunghissimo curriculum di docenze, attestati, pubblicazioni, curatrice di mostre e di convegni, è stato sapientemente edito da De Luca (editore colto e raffinato) che ha colto letteralmente la palla al balzo, per confezionare un volume di centoventotto pagine, ricco anche iconograficamente. Così in questo appassionante testo, già apparso nel 1993 in un volume dal titolo L’asino iconoclasta (immagine di uomini con la testa d’asino che con bastoni si avventano su una catasta di libri, sculture e varie opere d’arte distruggendole, visione questa che testimonia la spaccatura delle coscienze tra Fiandre e Paesi Bassi del Nord) si viene a conoscenza dell’appartenenza del grande pittore olandese, in età giovanile, di quella minoranza religiosa, i mennoniti, la cui testimonianza appare nel famoso Ritratto del predicatore mennonita Cornelis Claesz Anslo e di sua moglie, del 1641, ma anche attraverso disegni e acqueforti il cui soggetto appare essere uguale o quasi uguale al famoso dipinto.

Il movimento mennonita (che prese il nome da Menno Simons), ebbe larga diffusione in Olanda, lentamente ottenne libertà di culto e si caratterizzò per l’impostazione più silenziosa, attraverso una profonda interiorizzazione della fede fondata sull’individualità. Nell’introduzione, la dotta Danesi Squarzina scrive: «…non più e non solo la finezza in punta di pennello dei fijnschilders, non più e non solo le tele di piccola dimensione, …». Fijnschilders (letteralmente “fine-pittori”), erano pittori olandesi della Golden Age, che tra il 1630 e il 1710, cercarono di creare una naturale riproduzione meticolosa della realtà con estrema attenzione al dettaglio attraverso opere di piccole dimensioni.

Nel XIX secolo divenne un marchio per artisti come Gerrit Dou e i suoi seguaci a Leiden.

I fijnschilders sono più noti per le scene di genere che mostrano la vita quotidiana e le attività, i soggetti notturni a lume di candela, e trompe l’oeil di nicchia dipinti.

L’autrice di questo prezioso volume ci elenca i vari studi, comprensivi anche di schedature accurate sulle opere certe, dove risultano esserci documenti attestanti l’appartenenza di Rembrandt ai mennoniti. L’importanza di questa conoscenza ci porta, non solo, a mettere un nuovo tassello in quel meraviglioso mosaico che è il micro-macro cosmo rembrandtiano, ma anche a farci consapevoli che (cito nel testo): «Le minoranze del secolo d’oro avevano, verso la pittura e la scienza, un atteggiamento più duttile e curioso rispetto alle maggioranze al potere e alimentavano un mercato dell’arte ricco e complesso, con le stimmate della sofferta e vincente modernità».

I complimenti sono doverosi all’autrice e all’editore, per aver contribuito a regalarci tanti elementi in più per comprendere uno dei “geni” della pittura olandese.

Interessante e dottissima lettura a tutti voi.

 

04 Libri Rembrandt Catalogo

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Titolo: Rembrandt: la sua giovinezza nell’ambito della committenza mennonita

Autore: Danesi Squarzina Silvia

Prezzo: € 20,00

Dati: 128 p., ill., brossura

Editore: De Luca Editori d’Arte (collana Trenta nove), 2013

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La Festa segreta

Romano, ricercatore, mi occupavo all’epoca di una serie di documenti conservati nell’Archivio Storico Capitolino. Studiando alcune carte notarili del Seicento, fui un giorno incuriosito da un dettaglio peraltro marginale: era un disegno barocco in margine alla realizzazione di alcuni festeggiamenti solenni per le nozze di una famiglia nobile romana, imparentata come al solito con qualche papa o cardinale. La documentazione era invero ricca: in appendice alla serie di componimenti poetici d’occasione – mediocri come al solito – c’era la descrizione del banchetto e della successiva festa, con balli e apparati adeguati al rango del padron di casa e del suo rango. Ma nell’ultimo foglio una mano diversa da quella del copista – quella di un disegnatore – aveva tracciato a china uno schizzo di un ninfeo, con l’annotazione “nel ninfeo di Venere, grotta da basso”. Ora, di ninfei è piena l’Italia delle zone archeologiche, delle ville storiche, dei giardini di palazzo rinascimentali e barocchi. All’origine grotte sacre a una ninfa, divinità d’acqua che ivi risiedeva, divennero poi anche edifici in muratura, che accanto all’originaria funzione religiosa ne affiancavano una conviviale: lungo le strutture piene di vasche e piante acquatiche era possibile sostare, far banchetti e trascorrere momenti di ozio.  Verdi e umidi ninfei delle ville storiche italiane espongono ancor oggi le loro lussureggiante bellezza e lasciano spazio all’immaginazione. Il disegno includeva anche la fauna mitologica: ninfe, satiri e persino Priapo, la divinità maschile con gli attributi ben esibiti. Non che all’epoca fosse uno sconosciuto: Agostino Carracci lo aveva raffigurato in alcune stampe già nel ‘500. Antico dio che incoraggia la fertilità dei campi, diviene nel Rinascimento un palese richiamo simbolico alla potenza riproduttiva ed erotica, legandosi in qualche nodo alle correnti filosofiche neoplatoniche, per poi scomparire ufficialmente dalle scene su pressione della Controriforma. I successivi scavi di Pompei ne avrebbero restituito la potente iconografia, ma il nostro dio rusticano nel periodo che studiavo scorreva in qualche fiume carsico, da dove ogni tanto riappariva.

Passarono alcuni giorni e la mia ricerca procedeva. Esaminai una serie di atti notarili e processuali, relativi a un gruppo di famiglie nobili romane. Era materiale riversato da poco in Archivio, quindi c’era la possibilità di ricavarne una pubblicazione. Gli atti erano scritti nella classica scrittura cancelleresca corsiva dei notai e funzionari romani, fedeli testimoni della vita sociale e giuridica nel corso dei secoli. La cancelleresca non è difficile da leggere; ma il senso di quei documenti non era sempre chiaro. Non liti per fissare i confini di un latifondo o eterne querele tra rami collaterali per spartirsi un’eredità; neanche richieste di risarcimento per opere mai pagate, clienti frodati o ragazze sedotte. Si trattava invece di un tentativo di ricatto ai danni di una nobile famiglia romana, architettato da un gentiluomo non ben identificato ma di media statura sociale. Un avventuriero come tanti all’epoca? Forse il prestanome di qualcun altro che non voleva scoprire le carte; sicuramente altolocato e ben noto nell’ambiente. Così perlomeno mi sembrava: il testo era pieno di sottintesi, purtroppo incomprensibili quattro secoli dopo. Questi atti erano datati infatti 1623, regnante ancora papa Gregorio XV. Ancora non c’era Urbano VIII, ma già Bernini e Borromini facevano a gara per abbellire Roma di chiese e palazzi barocchi, esempio di quell’architettura creativa che solo secoli dopo sarebbe stata riconosciuta come il massimo della libertà, la quale invece non era concessa in materia di religione.

Ma torniamo ai nostri documenti. I moventi di un ricatto a scopo di estorsione son sempre gli stessi da secoli: tacitare uno scandalo, sollecitare un credito, o volersi rivalere per un torto subìto. Qui bisognava saper leggere tra le righe, ma ancora non avevo elementi sufficienti per condurre un’indagine. Mi limitai quindi ad annotare i nomi ricorrenti nella serie dei documenti esaminati. Era ormai venerdì e l’unica cosa da fare era prendersi per sabato qualche ora di svago. Andai con un’amica al parco della Caffarella, dove c’è ancora un ninfeo in muratura, quasi nascosto nel fondovalle, laddove l’acqua scorreva in pendenza. Non più grotta di ninfe né luogo di ricreazione, mi piacque comunque guardarlo e immaginarne tempi migliori: la verzura cadeva all’epoca dall’alto e il luogo era quasi segreto; ci si introduceva da un sentiero coperto anch’esso dalla vegetazione…

La settimana dopo mi dedicai invece alla musica e alla pittura, cercando di identificare gli artisti citati nei documenti. Iniziai dalla musica; nella Roma barocca se ne componeva e suonava tanta, a tutti i livelli: messe, mottetti, danze, concerti grossi, musica conviviale, fanfare. I committenti – pubblici e privati; chiese e nobili –  facevano a gara per accaparrarsi i migliori musicisti, i quali passavano con disinvoltura dal sacro al profano secondo il cliente. C’era così posto sia per grandi compositori come Palestrina, sia per artisti meno dotati e per innumerevoli musici e cantanti, coristi e solisti, che spesso preferivano lavorare per poche, potenti famiglie. Molti spartiti sono andati perduti quando cambiarono gusti, mode e strumenti, ma per fortuna a Roma molto si è conservato e nel corso degli anni la catalogazione dei manoscritti musicali presenti in archivi e biblioteche è andata avanti. In più, nel frattempo è nato un reale interesse per la musica barocca, ricreata da decine di ensemble e incisa in centinaia di dischi e cd. Possiamo riascoltare dal vivo quella musica invece che immaginarne armonie e sonorità decifrandole dagli spartiti. Ma non erano gli spartiti che io cercavo, ma i contratti stipulati con i loro committenti. Per fortuna ne erano conservati alcuni e da lì si poteva ricostruire la rete sociale entro la quale gli artisti si muovevano. Nomi che non dicevano molto: Ser Giovanni di Menico e Guido Todesco, romano il primo, germanico forse il secondo. Saperne qualcosa si rivelò in realtà la parte più facile del lavoro: mi rivolsi a un vecchio compagno di scuola, ormai direttore d’orchestra, che mi segnalò un giovane pugliese, un musicologo che dieci anni prima  avrebbe pure vinto un concorso in Soprintendenza, ma ora non riusciva a trovare un lavoro adeguato alla sua preparazione. E con l’aria che tirava sarebbe stato ben lieto di lavorare per me. Per l’arte figurativa invece avevo in mente una mia amica, storica dell’arte, che lavorava per una nota casa d’aste e ben conosceva l’arte italiana del Seicento. Anni prima eravamo anche stati insieme e quando andai a trovarla fu cordiale con me, ma prese tempo perché era al momento impegnata col catalogo dell’asta successiva. Quindi per ora non sarei riuscito a sapere molto del pittore che stavo cercando. Chi era Gian del Grotto? Mistero. Tornai dunque alle ricerche d’archivio, evitando di far sapere cosa stavo realmente cercando. Intanto non lo sapevo bene neanch’io, poi nel nostro ambiente meglio parlar poco: come ti giri ti fregano la ricerca.. Chi lavora dentro un museo o all’università riesce persino a non far uscire il materiale dall’archivio e se lo studia lui, ma in questo caso quelle carte erano a disposizione di chi sapesse leggerle, sempre che avesse studiato paleografia alla Vaticana.

Ma torniamo in Archivio. Leggersi i documenti di tribunale è sempre interessante; s’impara molto su una società, sui protagonisti della vita comune, sulle abitudini e convenzioni sociali e anche sulle debolezze umane. C’erano cause intentate da artigiani contro clienti patrizi quanto tirchi; promesse di matrimonio rotte in anticipo, con conseguenti richieste di risarcimento: liti per merci non pagate o per eredità mal divise. Sempre interessanti poi le repliche dei testimoni, che svelavano il modo di parlare della gente comune, appena corretto dal cancelliere di turno: erano squarci sulla vita privata di una società. Un documento, p.es., era proprio curioso: la famiglia di un artigiano voleva essere risarcita da un impresario perché una delle sue figlie si era ammalata avendo dovuto fare il bagno di sera nelle fontane di una villa, durante un banchetto che un nobile aveva organizzato. L’inquisitoria era piena di dettagli, che testimoniavano i fatti grosso modo così ricostruibili: la ragazza era stata assunta insieme ad altro personale di servizio da una nobile famiglia per una grande cena all’aperto organizzata per ospiti di riguardo, forse fiamminghi. L’apparato delle festa comprendeva anche un Theatro acquatico, mentre un’orchestra suonava musica conviviale. Solo che una di queste ragazze si era presa una polmonite nuotando mezza ignuda nelle vasche del giardino, ed ora la sua famiglia pretendeva un risarcimento. Ma la cosa più interessante per me erano le curiose immagini dei cartigli e dell’ultimo foglio, apparentemente sempre della stessa mano di quel primo disegno visto il primo giorno: ninfe che nuotavano nello specchio d’acqua della grotta. Bella scenografia di un vero gioco d’acqua: ninfe in carne ed ossa inseguite e insidiate da giovani tritoni, mentre ai lunghi tavoli i commensali continuano a intrattenersi fra una portata e l’altra. Era pratica normale di notai e disegnatori annotare con personali schizzi a penna la scena di cui si parlava nel documento, come farebbero oggi i fotografi. In una relazione giudiziaria abbiamo persino uno schizzo che raffigura Giordano Bruno portato a Campo de’ Fiori. Ma anche stavolta dovetti interrompere la lettura: era finito l’orario di apertura dell’Archivio e dovevo uscire. Ma volli per un attimo entrare nell’attigua Chiesa Nuova, capolavoro del Borromini. Proprio per quella chiesa Giovanni Pierluigi da Palestrina aveva per anni scritto e diretto messe e mottetti. Amo Palestrina: la sua vocalità è naturale e fondamentalmente monodica, anche se fa uso del contrappunto. Le varie voci cantano melodie diverse, ma l’insieme è armonico. Da giovane ero stato corista proprio nel Coro polifonico della Vallicelliana, ma in quel momento un coro di ragazzi di parrocchia stava provando alcune canzonette per dementi scambiate per musica liturgica, quindi uscii dopo due minuti.

Due settimane dopo, la rete dei collegamenti tra i miei personaggi iniziava a prender forma e senso. Intorno a una nobile famiglia romana ruotava sempre lo stesso gruppo di musicisti, scenografi e artisti, incaricati di provvedere alla riuscita di feste in villa. Incrociando i dati di documenti diversi veniva fuori un mondo in cui  l’arte barocca si manifestava in tutta la sua capacità di intrattenere e stupire i convitati anche per poche ore, ma sviluppando una fantasia insuperata. Musici italiani e stranieri allietavano il convito, mentre le mense venivano saturate da piatti da portata colmi di carne e verdure, in mezzo a fiumi di vino. Bacco è sempre stato un dio popolare e in Italia il vino non è mai mancato neanche ai poveri, quindi nelle feste scorreva a fiumi, versato da brocche e contenitori cesellati. La sera, torce e candele romane provvedevano a far luce sull’eletta di nobiluomini e donne invitati per lo spettacolo. Si, perché nel Barocco tutto è teatro: la festa, la cena, il concerto sono in realtà organizzati come spettacolo, dove attori e comparse diventano anche gli invitati stessi. E se il Theatro spirituale è la raccolta dei testi per gli oratori romani, cerchiamo invece di immaginare una ideale raccolta destinata a diletti più carnali, terreni: testi in cui attraverso lo stimolo dei sensi si chiamano gli invitati a partecipare a un evento meraviglioso, magari pagano. Il neoplatonismo è ormai emarginato dalla Controriforma, ma gli antichi dèi rimangono presenti almeno nella cultura delle classi alte: Venere, Marte e Apollo e Diana sono di famiglia. O magari si preferiscono ora vizi e virtù e altre figure allegoriche prese dall’Iconologia del Ripa, note al popolo quanto ai nobili perché ripetute nelle statue delle chiese e in quelle dei giardini, nelle immagini sacre e profane, nei carri allegorici. Tutti sapevano riconoscere gli attributi della Fedeltà, della Chiara Fama, dell’Avarizia, della Fecondità….

Ma nella mia festa si alludeva a un Theatro acquatico. Proprio Roma, di lì a pochi anni sarebbe stata riempita di scenografiche fontane. Qui sicuramente si era in villa, magari non lontano dal centro abitato, o forse nel Lazio, lontano dagli occhi indiscreti. Si parlava di ninfe, tritoni, satiri e fauni. Si suggerivano antri e ninfei e specchi d’acqua ove celarsi è normale, salvo farsi sorprendere in atti suggeriti o espliciti. Si discopre Diana al bagno, ma sappiamo la fine di Atteone. Oppur sono proprio loro, le ninfe, a esibirsi sfacciatamente, provocando il pubblico, spesso assai meno composto – complice il vino – di quanto uno creda. I quadri d’epoca danno appena un’idea di cosa fosse veramente una festa. Soprattutto, una festa segreta. Entrare in quei giri non era facile allora come non lo è oggi: un conto esser nobili o ricchi o entrambi, altro è la vita dei comuni mortali. In mezzo v’erano sono le solite cortigiane, i falsi altolocati e provinciali arrivisti di cui anche oggi v’è ampia copia. E anche all’epoca si doveva saper puntare sul cavallo giusto.

Ma di queste feste in realtà io ne avevo scoperte più di una. Non se ne parlava ovviamente in modo esplicito, gli indizi erano ambigui. In certi atti processuali un non meglio identificato ser Giovanni di Menico, romano, aveva introdotto nelle feste di primavera alcune giovani donne che aveva presentato per cugine, più alcune donne al loro servizio, sicuramente più anziane. Non era specificato il luogo dove si svolgevano queste feste, ma era certo trattarsi di un qualche spazio all’interno di qualche villa privata suburbana. Tutto il mondo è paese: le feste dei ricchi son sempre piene di femmine; se poi succede qualcosa, in fondo sono quegli scandali in cui ogni tanto uno vorrebbe essere coinvolto. La storia era perlomeno interessante, sicuramente più delle tante cause tra parenti per la spartizione di un latifondo. Ma in un altro documento lo stesso ser Giovanni figurava musico e coreografo. Lo aiutava un fiammingo trapiantato, certo Gian del Grotto (Jan de Groote, come chiarì la mia amica storica dell’arte), già noto agli atti per una sciabolata di troppo a Federico Lupinacci pittore di cose sacre; normale attrito tra botteghe d’arte concorrenti. Ci si divideva gli appalti con le chiese per zone e botteghe e gli sconfinamenti finivano in zuffa. Anche Caravaggio in fondo era stato coinvolto in tali guerre.

L’intuizione mi venne soltanto dopo: e se quelle ragazze invece che donne di piacere fossero state attrici o figuranti? In fondo, all’epoca il confine tra i due mestieri erano labili, marginale com’era la figura dell’attore: basta vedere quelle stupende stampe di Callot che rappresentano gli artisti girovaghi. Agli attori non veniva nemmeno concessa la sepoltura in terra consacrata. Ecco dunque la vera natura di quel convito segreto: era anche quello uno spettacolo. Le statue del giardino si animavano una dopo l’altra, scendendo dai loro piedistalli e incrociando passi di danza e inseguimenti nella verzura. Quelle nel ninfeo fingevano di star ferme immobili nelle nicchie, per poi schernire chi avventurava in galleria. Il giardino è pur sempre un luogo di delizie:

Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da Lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi….E dal luogo di delizia usciva ad irrigare il paradiso un fiume…” Genesi, II, 8-9.

Dai disegni e dalle testimonianze di quelle carte processuali usciva dunque un panorama di sesso trasposto in scena mitologica, che tutto sommato siamo ben avvezzi ad ammirare nei quadri di genere: ninfe che fan finta di fuggire al ruvido abbraccio dei satiri, menadi senza freni, fauni ebbri, Diana e le ancelle che fanno il bagno ignude, Cupido che tira dardi per scatenar l’amore in timidi amanti. E’ un repertorio ben noto, ma altro era sentirlo raccontare nei diari d’epoca, epistole e corrispondenze, o saperle dai verbali di un tribunale. Che dire? Se la spassavano e sapevano farlo, a patto di salvare le apparenze. Altro è rimirare un quadro di Guido Reni, altro è invece veder uscire a sorpresa una ninfa ignuda in carne e ossa dal teatro di verzura. Ben altre emozioni se invece del quadro a olio noi si rimira l’inseguimento delle ninfe dal vivo: sono in gioco corpi reali, che sudano. Sublimata nel verbale di un interrogatorio, l’emozione diventa stupore, imbarazzo

 

Ma qui c’era ben altro: sotto mentite spoglie recitavano la loro parte anche alcune figlie di nobili famiglie romane, che sarebbe stato impossibile riconoscere in quelle circostanze. Ne approfittavano per accoppiarsi con maschi sconosciuti quanto prestanti, invitati pure loro al convito segreto. Tutto era casuale, ma organizzato da un regista esperto. Costui alla fine mi era noto: nelle carte si alludeva spesso ad un certo ser Bartolomeo pittore, ma senza dirne il cognome o il soprannome, né citarne almeno un paio di opere, e soprattutto senza che fosse chiara la sua funzione all’interno dell’apparato. Ormai invece l’avevo capito: egli concepiva la scena come fosse un grande quadro animato, una scenografia mentale che andava ben oltre la realizzazione di una festa o di una danza. Come lo scultore Orfeo Boselli incarnava la figura dell’artista dotato di profonda cultura umanistica di cui dà prova nella composizione di due commedie (Il disperato amante, Viterbo, 1623), allo stesso modo ser Bartolomeo pittore dimostrava un grande senso scenografico ed un talento particolare per quello che chiamiamo erotismo, ma che in realtà portava ben oltre la cultura fisica cui noi siamo oggi nevroticamente abituati. E’ come se di una melodia riuscissimo solo a goderne il tema, ma senza capirne la complessa armonizzazione. Loro invece ci riuscivano benissimo, intrisi com’erano di filosofia della Natura, di neoplatonismo, e soprattutto di un profondo amore per il teatro, tanto da consacrarlo a modello e forma simbolica di un intero universo culturale.

 

Andiamo oltre. Se del nostro pittore poco sappiamo, è perché cadde in disgrazia: la nobile famiglia che lo aveva protetto rescisse presto i contratti che aveva stipulato con lui, come risultava dai documenti di archivio. Come mai? Semplicemente perché il suo nobile protettore era stato coinvolto in uno scandalo che si voleva a tutti i costi archiviare, vista l’inevitabile parentela con un cardinale di curia. Si era scoperto il giro di ninfe e satiri e statue viventi, ma poi?. Qui era la stranezza: il nostro gentiluomo non evitava questo tipo di accuse, anzi ammetteva che il convito era stato saltuariamente allietato da donne procurate da fuori. Allora? La spiegazione la trovai mettendomi mentalmente nei suoi panni: si voleva in realtà coprire qualcosa di più grosso. Meglio ammettere il reato minore che passar guai seri con un’accusa assai più grave: quella di eresia. L’accusa di eresia implicava ben altro che un’ammenda pecuniaria per sesso di gruppo in villa. Ne sapeva qualcosa Giordano Bruno, arso vivo il 17 febbraio 1600 a Campo de’ Fiori.

Come ci arrivai? Da un dettaglio sfuggito agli altri. Spesso esercitiamo un controllo stretto sulle cose grandi, trascurando invece quelle minute, e son proprio quelle a tradirci. In quella festa segreta le statue viventi non erano state collocate a caso, ma a precisa distanza una dall’altra, e attorno ad esse ruotavano come in danza altre statue minori, ognuna con diversi attributi. Quando una torcia illuminava una di queste statue centrali, lente incedevano quelle di contorno, veri e propri satelliti. Poi, lentamente la face si spegneva, per dar tempo di illuminare un’altra statua posta a maggiore distanza dalla prima, e così via per tutta la sera in una teoria di movimenti cosmici regolata come un orologio. Era per l’appunto il teatro degli Infiniti Mondi di Giordano Bruno.

La questione era affascinante ma complicata: qual’era la reale diffusione del pensiero di Giordano Bruno nell’ambiente romano dell’epoca? La commissione che giudicò Bruno prese tempo per acquisire le opere a stampa disponibili sul mercato e impiegò almeno due anni per studiarsele con cura. Studi recenti hanno chiarito l’influsso diretto del pensiero bruniano sugli intellettuali olandesi dell’epoca, ma poco sappiamo dell’ambiente romano, che comunque doveva ben tenersi defilato per non fare la fine del maestro: a Roma la censura ecclesiastica era molto stretta e la circolazione delle opere di Bruno era vietata, come vietato era anche l’insegnamento delle sue idee. Una traccia è forse visibile nello scambio epistolare tra intellettuali e nelle ricche corrispondenze tra accademie, ma è una ricerca che richiede tempo ed è ancora tutta da fare. In questo atto giudiziario legato a quello che sembrava uno scandalo sessuale c’era invece un segreto, ed io l’avevo scoperto. Con l’unico rimpianto di non essere stato presente in quella festa segreta. Per questo voglio terminare la mia narrazione proprio con una frase di Giordano Bruno:

 

Amate una donna se volete, ma non dimenticate di essere adoratori dell’infinito.

Il killer che non c’è

Dev’essere una peculiarità degli scrittori svedesi quella di essere un po’ glaciali nel narrare le loro storie, perlomeno per quelli che, come nel caso dell’esordiente Pontus Ljunghill, si occupano di generi come il giallo/poliziesco o il thriller. In questo romanzo ad esempio le emozioni che le pagine riescono a trasmettere sono ridotte a quel minimo di suspense dovuta per l’appunto al genere a cui esso appartiene.

Se tutto questo può sembrare negativo e screditare quest’opera è bene fare subito marcia indietro, perché lo stile un po’ “clinico” di Ljunghill si sposa perfettamente con la trama del libro, rendendo la storia sì fredda ma al contempo piacevole e intrigante.

“L’invisibile” è il titolo di questo romanzo e invisibile è la caratteristica principale del killer a cui le

forze di polizia criminale di Stoccolma diedero la caccia nel 1928, in seguito al brutale omicidio da

lui perpetrato ai danni della piccola Ingrid, una bambina di soli otto anni.

Venticinque anni dopo, nel 1953, l’agente John Stierna è prossimo al pensionamento e al termine della sua carriera si trova a rivivere quei giorni infausti per soddisfare la richiesta di un giornalista free lance che vorrebbe fare di quella storia un articolo di culto da vendere ai suoi lettori.

Stierna venne ai suoi tempi incaricato dai suoi superiori di guidare le indagini sull’assassinio per via delle sue ottime doti investigative, rafforzate dalla sua capacità di arginare le emozioni ed evitare che esse interferissero nel lavoro.

Il talento dell’investigatore venne però messo a dura prova da questo caso, dove le prove e gli indizi lasciati dall’omicida si rivelarono delle piste morte, dei pezzi di un puzzle che sembravano non combaciare e che permisero all’Invisibile di essere sempre un passo avanti alla polizia.

La personalità del killer è delineata dall’autore tramite brevi intermezzi (scritti in corsivo) presenti nel corso della storia dove è lo stesso assassino a narrare di sé e a svelare tutte le sfaccettature della sua mente e i motivi che lo hanno portato a commettere l’omicidio. Tali motivi non giustificano quanto accaduto ma evidenziano invece il suo squilibrio mentale. Le violenze subite dal padre piuttosto che l’emarginazione da parte dei compagni furono solo l’inizio di una vita travagliata che lo portarono sempre più a vivere nell’ombra e a diventare ciò che è diventato.

L’astuzia o forse la lucidità dell’assassino nell’organizzare i suoi movimenti si rivelarono per Stierna la sua croce. La sua professionalità lo portò a buttarsi a capofitto sul lavoro, finendo per dimenticare le cose più importanti che gli stavano intorno, quelle che gli davano la forza per andare avanti e senza il quale la sua razionalità sarebbe venuta meno. Il protagonista rappresenta l’immagine di tutti coloro che, troppo tardi, si rendono conto di ciò che è veramente importante e utile per raggiungere i propri obiettivi e che tornare indietro non sempre è una via praticabile.

Attorno ai protagonisti e ai fatti narrati si erge una Stoccolma molto affascinante grazie alle sue vie e ai suoi quartieri (tutti con nomi impronunciabili) che l’autore presenta in modo dettagliato, come se tracciasse una mappa con le sue parole in modo da poter seguir meglio le indagini. Il clima freddo che avvolge la città è in armonia perfetta con la storia narrata e con lo stile sopra descritto di Ljunghill. Lo scrittore svedese non scalda il cuore neppure con il colpo di scena finale, con il quale egli si dimostra un temerario della narrativa spingendosi laddove molti non oserebbero, tanto da lasciare a bocca aperta anche il protagonista. E i lettori?

04 Libri Il killer che non c'è******************************

Titolo: L’invisibile

Autore: Pontus Ljunghill

Anno: 2012

P. 402

Casa editrice: Guanda – Collana Narratori della Fenice

Traduttore: Zatti R.

Disponibile anche in ebook

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La lettera più lunga del Mondo

Apriamo dunque questa lettera insolitamente… grande

non solo perchè carica di impegni non mantenuti

ma anche nel senso di lettera molto lunga indirizzata, da Cristiano Carta,

a tutti noi gente civile detta umana, o se preferite, gente umana detta civile.

C’è differenza? Si, ma a ben pensare è più appropriata la seconda definizione.

E dunque ripartiamo dal titolo vagamente ermetico:

– LEZIONI DI UMANITA’ in forma di lettera –

In un primo momento si potrebbe pensare ad un corso per corrispondenza.

Si tratta invece di una “lettera” fuori dal normale non solo per il contenuto

quanto per lunghezza:una lettera talmente lunga che Fabio Croce editore

in questo caso latore, ha pensato di raccoglierla in volume.

E’ forse una lettera d’amore? Non proprio ma sicuramente…

una missiva scritta con amore.

Usando, non a caso, la parola missiva mi sovviene che,

secondo il vocabolario della lingua italiana,

questa parola, freudianamente desueta, significa lettera,

in particolare una lettera dalla quale ci si aspetta una risposta.

Anche Cristiano Carta, poeta civile, sognatore

e appassionato autore di lettere particolari,

probabilmente aspetta una risposta a questo suo nuovo lavoro,

una risposta non necessariamente in forma epistolare.

Ma immagino che Lui vorrebbe conferma…

d’essere riuscito ad appassionarci a questi necessari esercizi di ripasso che,

tra buon senso e amore riusciranno a rimetterci in piena forma

contro il pericolo di una disastrosa perdita di agilità mentale.

Insomma…questa accorata lezione di umanità

è un’occasione per scoprire o riscoprire

capitoli fondanti del vivere civile ovvero:

il meglio che ha pensato l’umano in questo senso nel tempo.

Qualcuno si domanderà: ma perchè in forma di lettera?

L’idea della lettera è un colpo di teatro. Che c’entra il teatro?

Il teatro c’entra sempre ma in questo caso era inevitabile

perchè Cristiano Carta è… uomo di teatro.

Pur non calcando la scena, ossia il palcoscenico,

l’autore di questa lettera è stato per molti anni il vero protagonista

delle compagnie teatrali nelle quali ha lavorato,

ricoprendo il ruolo fondamentale dell’organizzatore.

E dunque “l’attore”principale, senza del quale non si va in scena.

Se è vero che l’attore è “colui che agisce”,

Cristiano Carta è a pieno titolo:

attore-autore di un nuovo singolare “copione”

frutto di un’accurata ricerca attorno all’arte del vivere sociale.

E dunque, dopo l’illuminante prefazione di Pietro Soldini

(Responsabile Politiche dell’Immigrazione della CGIL)

e una breve introduzione dell’autore,

ecco un intreccio di testi che prendono il vento come bandiere.

Parole che ci sorprendono e ci commuovono inaspettatamente:

dati e testimonianze, storie, voci di poeti, canzoni e sogni

che tornano a noi ancora nuovi dopo anni di oblio

a ridarci coraggio e fiducia nel futuro.

Molte sarebbero le citazioni che ci piacerebbe riportare,

ma ne basteranno solo alcune scelte a caso

a testimoniare che l’umano che pensa, malgrado tutto,

ha forti radici ancora vive da cui ripartire.

 

* (1791) Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.

Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

*(1849) La sovranità è, per diritto eterno, nel popolo.

Il regime democratico ha per regola l’uguaglianza, la libertà, la fraternità.

La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli, rispetta ogni nazionalità,

propugna l’italianità.

* Perché non pensare che può esserci qualcosa di diverso?

Perché non pensare che potremmo essere diversi?

Perché non pensare…che anche noi pensiamo?

In sintesi l’autore ci dice:

* Ripercorriamo il senso della nostra vita: in una parola Ripercorriamoci.

Partendo da un tema di tragica attualità come l’immigrazione,

Cristiano Carta non può non andare oltre,

verso le radici di quel problema universale

che è la convivenza civile tra i popoli del mondo.

Un mondo dove ingiustizia e schiavitù sono tuttora in atto

mentre echeggiano da secoli civilissime dichiarazioni dei diritti umani,

sulla carta.

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Cristiano Carta

LEZIONI DI UMANITÀ

in forma di lettera

Prefazione di Pietro Soldini

Edizioni: Libreria Croce

Dati: pag. 127

Prezzo: € 15,00

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