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La Turchia si libera dell’emergenza, non dell’ingerenza

  • – di Enrico Campofreda –

Il presidenzialismo assolutista studiato, cercato, ottenuto da Recep Erdoğan con l’ostinazione e il trasformismo con cui ha scioccato il mondo, mette ai suoi piedi tutti i settori del Paese. In questi giorni in cui si prepara un decreto di uscita dall’emergenza post golpe (rinnovata per sette volte nel corso di due anni), ne giungono altri riguardanti gangli economico-finanziari, istituzioni militari e culturali, tutti posti sotto strettissima ‘osservazione’. Vengono addirittura sciolti veri pilastri del laicismo culturale kemalista come l’Opera e i Balletti di Stato, il Teatro di Stato; veranno sostituiti da nuove entità le cui nomine di vertice spettano alla presidenza, non di particolari enti, ovviamente della Repubblica turca. Lo stesso Consiglio Superiore per la vigilanza, che aveva competenze ispettive su istituzioni pubbliche e private, eccezion fatta che per gli ambiti militari e giudiziari, subirà trasformazioni. I controlli s’allargheranno alle stesse istituzioni militari, al di là del rango fino alle alte gerarchie.

Scuole delle Forze armate, la Fondazione dell’apparato della sicurezza, le industrie che si occupano della difesa saranno oggetto delle verifiche del nuovo Consiglio. Il ministero delle Finanze avrà occhio e mani su Banca Centrale, Ziraat Bank e Halkbank, così come una serie di strutture (Agenzia di Supervisione e Regolamento Bancario e simili) verranno gestite dal ministro competente. Un tempo i ministeri coinvolti erano più d’uno. Un controllo ferreo più che dello Stato, del governo e soprattutto del sistema presidenzialista che può collocare uomini di propria totale fiducia nei ruoli chiave. Il settore dell’educazione, terreno in cui il gülenismo del movimento Hizmet aveva creato una rete fittissima di presenze e relazioni fra i suoi adepti, dopo lo stravolgimento operato con migliaia di arresti e decine di migliaia di rimozioni e dimissioni forzate, è in piena ristrutturazione. Le università vedranno collocati ai vertici rettori selezionatissimi, non tanto sul fronte delle competenze, quanto su quello delle obbedienze. Sarà l’occhio del presidente a scegliere i dirigenti degli atenei, per una certezza di omologazione al libero pensiero della nazione turca di modello erdoğaniano.

 

Un sistema al momento assolutamente vincente, e non solo elettoralmente. La forza del leader islamico che si fa nazione sta nella rete di alleanze interne e internazionali. Quelle globali lo hanno riposizionato, dopo la crisi di tre anni fa, nell’aggrovigliato scacchiere mediorientale. Il rapporto cordiale con l’omologo, anche in capo populistico-autocratico, Vladimir Putin, attualmente lo pone in una posizione di forza davanti a Trump medesimo. Che deve sciogliere il nodo delle forniture militari difensive previste dalla Nato (missili Patriot), aggirato dall’accordo per l’acquisizione del sistema russo S-400. Da gran giocatore d’azzardo qual è, per un ripensamento pare che Erdoğan chieda in cambio al presidente Usa la testa (nel senso di estradizione) di Fethullah Gülen. Se il baratto dovesse riuscire – sarà difficile, ma la folle idea vellica la vanità geopolitica del sultano – lui porterebbe al cospetto del popolo turco l’attentore all’unità patria. Un colpo di teatro opposto al colpo di stato. In questo il presidentissimo si supera, quasi giustificando l’ingerenza in materia teatrale.

Pubblicato il 17 luglio 2018
Articolo originale

dal blog di Enrico Campofreda

Elezioni turche, la corsa contro il tempo di Erdoğan

di Enrico Campofreda

Per capitalizzare gli effetti delle ultime mosse sul terreno siriano e la conquista di Afrin Erdoğan in patria gioca d’anticipo sulle elezioni politiche, unendole alle presidenziali previste fra oltre un anno. Forza la mano sull’alleato di comodo Bahçeli che suggeriva il 26 agosto e lancia un’election day per il 24 giugno. Ovviamente si prende la scena commentando che il passo diventa necessario perché la Turchia riesca a superare le incertezze che si stagliano per le situazioni di Siria e Iraq. Ma lascia annunciare il tutto alla figura che, secondo il progetto di Repubblica  presidenziale approvato col referendum un anno fa, verrà soppressa quella del premier. E’ stato, dunque, il primo ministro Yıldırım, ridotto a gran visir di second’ordine, a ufficializzare che il processo elettorale prenderà il via immediatamente. Una commissione sta già lavorando per avviare il dibattito in Parlamento. L’azione presidenziale tende a incamerare elettoralmente quanto più è possibile dai passi compiuti in politica estera, dove l’azzardo che lui ha trasformato in regola ha tempi dettati dall’andamento di vicende che, come dimostra il sipario siriano, sono comunque cangianti e non definite.

In più c’è la non favorevole contingenza di sondaggi che mostrano consensi in calo per l’alleanza fra Akp e Mhp, dati che parlano di diversi punti sotto il 50%. L’accoppiata islamo-nazionalista spera che anticipo elettorale possa sottrarre voti all’opposizione del partito repubblicano, rimasto bloccato dal superattivismo in politica estera del presidente che ha molto puntato sulla carta dell’orgoglio nazionale contro cui il Chp non s’è sentito di muovere foglia, specie dopo il repulisti seguito al tentato golpe gülenista. Mentre il Partito democratico dei popoli vive l’oggettiva difficoltà di riorganizzarsi a seguito delle ripetute azioni repressive avviate contro l’etnìa kurda dall’estate del 2015. Comunque i sondaggi considerano le due formazioni in grado di ribadire le percentuali degli ultimi tempi: 25% i repubblicani e il conseguimento della soglia del 10% per entrare in parlamento da parte del gruppo di Demirtaş. Il problema sarebbe conservare i deputati nel Meclis, visto che più della metà degli  onorevoli Hdp eletti nel novembre 2015 sono stati incriminati per “terrorismo”. Se non un terrore, certamente un brivido d’incertezza all’alleanza Akp-Mhp lo induce l’Iyi Party, fondato nell’autunno 2016 dalla frondista Meral Akşener, lanciata a testa bassa contro la dirigenza di Bahçeli che s’asserviva a Erdoğan.

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Akşener è a suo modo una “lupa grigia” ben addentro ai gangli del sistema, perlomeno quello kemalista, in cui ha ricoperto incarichi nel dicastero più amato dalla destra eversiva turca: quello degli Interni. La lupa ha poi tre assi nella manica che intende giocarsi per incrinare il consenso elettorale del sultano. E’ una fedele musulmana e fa leva sulle donne islamiche, gran bacino elettorale erdoğaniano, sostenendo ciò che l’ex premier e ora presidente ha poco concesso: spazio politico di genere. Poi vuol erodere la prerogativa presidenziale della lotta al terrorismo identificato con l’etnìa kurda. Lei sostiene che i diritti delle minoranze semplicemente non hanno diritto di concessioni. Eppure è capace di giri di walzer degni del presidente, perché sul fronte dell’informazione (forse perché massicciamente controllata dal gruppo di potere dell’Akp) Akşener parla a favore della libertà dei media che “non devono essere sotto pressione”. Insomma appare sulla scena l’incognita d’una politica a tutto tondo e senza scrupoli. Per questo l’anticipo delle elezioni potrebbe diventare un sotterfugio per provare a escludere dalla corsa con cavilli burocratici il neo partito, pericoloso perché capace di rubar voti alla coalizione che guida la Turchia. Ma i commentatori economici sostengono che il pericolo maggiore per Erdoğan è un’economia interna in cui l’inflazione sale, la disoccupazione pure mentre la lira turca precipita.

Pubblicato
giovedì 19 aprile 2018

 Articolo originale
dal blog di Enrico Campofreda

 

I PPP (Paesi Parole Personaggi) del 2017

Secondo l’Economist è la Francia di Emmanuel Macron ad essere scelta come il paese del 2017. Con lo scegliere la Francia di Macron, con il suo movimento La République En Marche, il settimanale britannico mescola paese, parola e personaggio. Una Francia che ha superato il Bangladesh capace di accogliere 600.000 rohingya in fuga dall’esercito birmano, per non essere violentati e massacrati, o l’Argentina del presidente conservatore Mauricio Macri, forse per evitare polemiche sul drastico taglio alle spese “superflue” come sulle pensioni. Una “riforma” quella del sistema previdenziale, fiore all’occhiello dei governi Kirchner, che sta suscitando tante proteste nel paese, ma ritenuta necessaria dal presidente per sistemare la situazione finanziaria ed economica e sicuramente in linea con il credo liberale dell’Economist.

Un’altra istituzione britannica che si è adoperata nell’eleggere un simbolo del 2017 è l’Oxford Dictionaries, indicando come parola dell’anno “youthquake”, per sintetizzare il “cambiamento significativo culturale, politico o sociale, creato dall’azione dei giovani”. Uno “scuotimento”, un terremoto che resta difficile da percepire guardando una gran massa di individui con il naso incollato al display dei smartphone e tablet, il più delle volte per messaggiare o giocare e certamente non per cambiare il Mondo. In Europa sono la minoranza i giovani, in un continente che sta decisamente invecchiando, giovani che si dedicano ai cambiamenti e lo fanno lontano dai riflettori. Ma il più grande cambiamento che i britannici si possono aspettare potrà venire dal settantenne Jeremy Corbyn, come negli Stati uniti le speranze di rinnovamento erano state affidate a Bernie Sanders. Forse l’Oxford Dictionaries ha visto Macron in Francia o l’ascesa della destra austriaca del trentenne Sebastian Kurz come un positivo cambiamento.

Meglio la scelta del settimanale Time che ha designato “Persona dell’anno” le donne, le cosiddette “Silence Breakers”, che hanno rotto il silenzio sulle molestie sessuali nell’ambito lavorativo.

Interessante è la scelta fatta dal Courrier International sugli eventi del 2017 attraverso i cartoon mensili, partendo da gennaio con la strage di capodanno ad Istanbul con 39 persone uccise e 79 ferite per mano di un fanatico Daesh, per arrivare all’impossibilità per gli atleti russi di partecipare sotto la propria bandiera alle Olimpiadi, ma per partecipare individualmente dopo le accuse alle autorità sportive russe, da parte del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), per aver coperto un sistema di doping istituzionalizzato, senza dimenticare l’ascesa all’Eliseo di Emanuel Macron.

In questo calendario degli eventi troviamo la svolta autoritaria del presidente turco Erdogan con lo stato d’emergenza instaurato dopo il colpo di stato fallito nel luglio 2016, che dopo purghe, arresti e restrizioni sull’informazione, è stata varata la riforma costituzionale, firmata a febbraio e convalidata dal referendum del 16 aprile, consentendo di concentrare tutti i poteri nelle mani del presidente, ma abbiamo la Brexit, la repressione in Venezuela e la proclamazione dell’indipendenza della Catalogna.

Mentre il settimanale cinese Beijing Review non si limita a celebrare le prodezze del presidente Xi Jinping con la nuova Via della Seta o il rapporto instaurato con il presidente statunitense Donald Trump e le sue varie scelte dalla migrazione al clima, ma sottolinea la sconfitta dell’Isis dichiarata dal governo iracheno, la crisi nella penisola coreana per i test balistici condotti dalla Repubblica democratica popolare di Corea, la Brexit, la verifica dell’esistenza delle onde gravitazionali, il boicottaggio diplomatico ed economico promosso dall’Arabia saudita alle spese del Qatar per i suoi migliorati rapporti con l’Iran. A concludere l’elenco dei 10 eventi rilevanti per il settimanale cinese sono le dimissioni del Presidente dello Zimbabwe Mugabe.

 

 

Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi

La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.

Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche  all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.

Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.

L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.

Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.

Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.

Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti

Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.

L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Africa: Attaccati al Potere

Africa Attaccati al Potere-velazquez-papa-innocenzo-xIl cammino per una Democrazia diffusa in Africa è pieno di insidie, indire delle elezioni non significa che poi i risultati possono essere accettati pacificamente da tutte le parti.

In Gambia si è prolungato il balletto del “me ne vado” o “resisto” del presidente uscente, Yahya Jammeh, che dopo aver governato per 22 anni in modo autoritario, sembrava volersi farsi da parte dopo il risultato a lui sfavorevole, ma ecco che annuncia di non accettare il responso delle urne e il CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) si attiva per convincere il presidente ghanese a lasciare il potere.

La risposta di Jammeh, a due giorni dell’insediamento del presidente eletto Adama Barrow, si annuncia decretando lo stato di emergenza e l’Onu risponde con l’autorizzare l’Ecowas a intervenire militarmente per affermare la legittimità delle elezioni ed ecco che, sotto la pressione internazionale, Jammeh dichiara alla televisione di stato che lascerà il potere, prima però deve decidere dove andare, magari trasferirsi in Mauritania o Qatar, anche il Marocco si è offerto a dargli ospitalità, ma la sua meta finale è stata la Guinea Equatoriale, portando via con sé auto e preziose suppellettili su di un aereo cargo fornito dal Ciad, per un esilio dorato, garantito da una “buona uscita” di una decina di milioni di dollari delle casse dello Stato, e soprattutto lontano da qualsiasi commissione d’inchiesta che possa indagare sulle violazione dei diritti umani del padre-padrone del Gambia.

Mentre si consumava la sceneggiata di Jammeh che poteva portare ad un conflitto regionale, Adama Barrow, il nuovo e terzo presidente del Gambia, prestava giuramento nell’ambasciata del suo paese a Dakar (Senegal), un escamotage per non considerarsi in esilio.

Ora la situazione in Gambia, anche se Adama Barrow si è insediato, non è tranquilla con la difficile convivenza tra i soldati “fedeli” a Jammeh e le truppe dell’ECOWAS CEDEAO che sfocia in un continuo fronteggiarsi con scambio di colpi mentre le prigioni ospitano ancora gli oppositori della precedente amministrazione. Amnesty International chiede di indagare sulla morte di Solo Sandeng, esponente del Partito Democratico Stati (UDP), avvenuta dopo l’arresto e invoca la libertà per tutti i manifestanti fermati mentre chiedevano riforme elettorali, per una prova delle urne e della democrazia.

Un altro “attaccato” alla poltrona è il presidente Joseph Kabila, della RD Congo, che non sembra neanche voler indire le elezioni mentre il 92enne Mugabe si candita a succedersi, nel 2018, alla guida dello Zimbabwe.

La famiglia Kabila, in oltre dieci anni, ha creato un impero economico Africa Attaccati al Potere Kabila REUTERS1885896_Articoloche abbraccia tutti i settori dell’economia congolese e perché allora rischiare di perdere il potere sul Congo detto democratico e il controllo sull’estrazione dell’oro, diamanti, rame, cobalto e quant’altro è celato sotto la terra congolese, dando l’addio alla gratificante consuetudine di utilizzare una nazione come personale bancomat?

In Ciad il Presidente Idriss Déby per non lasciare la poltrona conquistata nel 1990 con un colpo di stato e consolidata nel 1996 con elezioni “costituzionali”, ha rimosso nel 2005 la limitazione a due mandati per poter mungere “ad libitum” le casse. Nell’aprile del 2016 è stato confermato per un quinto mandato per garantire la stabilità nell’area e combattere, grazie ai soldati della forza interregionale africana e le truppe francesi di stanza nel Ciad, i miliziani jihadisti che scorrazzano a nord sul confine libico, mentre imperversano a sud-ovest, tra Niger e Nigeria, gli integralisti islamici di Boko Haram, ma anche a est il confine con il Sudan non si può definire tranquillo.

Ancora più ad est è l’Eritrea ad essere governata con pugno di ferro da Isaias Afewerki, primo e unico presidente dal 1993, due anni dopo che il paese del Corno d’Africa conquistò l’indipendenza dall’Etiopia, che un rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, pubblicato l’8 giugno 2016 a Ginevra, lo ritiene autore di numerosi crimini contro l’umanità, come la riduzione in schiavitù della popolazione non solo per servire sotto le armi la dittatura, reclusione, sparizioni e tortura oltre a persecuzioni, stupri e omicidi.

Sulle coste del Mediterraneo è Abdelaziz Bouteflika che, nonostante le sempre più insistenti voci sul suo precario stato di salute, ad essere presidente dell’Algeria dal 1999 e a non voler scendere dalla poltrona, ma è forse solo il Fronte di Liberazione Nazionale, il suo partito, a detenere il potere e decidere i cambi di dirigenza. Le elezioni del 4 maggio potranno dare un’indicazione sulla stabilità dello stato tra i più estesi dell’Africa, e il decimo del mondo, come “baluardo” alla diffusione di un islamismo integralista.

Anche in Tanzania non è il presidente a avere una continuità, ma il Partito della Rivoluzione che dal 1964, anno della fusione di Tanganika e Zanzibar, non ha permesso ad altre formazioni politiche di intromettersi nella gestione del potere.

Pierre Nkurunziza, in Burundi, ha giurato nel 2015 per il terzo mandato come Presidente, in elezioni giudicate non regolari dagli osservatori internazionali, che hanno causato veri e propri scontri tra l’opposizione e i governativi, portando l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon a recarsi nel paese africano per avviare un dialogo. Una crisi politica che vive a tutt’ sospesa nella speranza di una ripresa di dialogo tra governo e oppositori.

Nel vicino Ruanda è Paul Kagame, presidente dal 2000, ad annunciare la sua candidatura per un terzo mandato alle elezioni del 2017. L’accesso ad un terzo mandato possibile con la modifica costituzionale, ottenuta con la vittoria del referendum popolare, del 18 dicembre scorso, così non potrà solo rimanere al potere per altri dieci anni, ma potrà successivamente ricandidarsi ancora per altre due volte! Quindi Kagame potrebbe rimanere al potere fino al 2027, forse fino al 2034, diventando praticamente un presidente a vita. Ecco chi ha ispirato il turco Erdogan a plasmare la costituzione, ma forse lo si può perdonare nel suo farsi re, visto il ruolo svolto nella conclusione del genocidio ruandese del 1994 e, anche se non sempre positivo, nella seconda guerra del Congo.

Charles McArthur Ghankay Taylor ha governato sulla Liberia per soli sei anni, ma in compenso ha fatto danni non solo nel suo paese, ma ha messo lo zampino anche nella Guerra Civile nella vicina Sierra Leone per assicurarsi i blood diamonds (diamanti insanguinati) e per questo venne dimissionato nel 2003 per poi essere il primo ex presidente africano ad essere condannato dalla Corte Speciale per la Sierra Leone (SCSL) e dalla Corte per i Crimini internazionali de L’Aia, con sentenza definitiva 2013, a cinquant’anni di reclusione.

Il destino di Charles Taylor potrebbe essere condiviso dall’attuale presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashīr, accusato dalla Corte Penale Internazionale per i crimini in Darfur, e sulla cui testa pende una mandato di cattura internazionale. Al-Bashīr, presidente del Sudan dal 1989, ha potuto contare su di una sorta di sbadataggine o magari della negligenza di altri governi non solo africani per sfuggire al mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità emesso nel 2009 e da difese fantasiose come quella di Erdoğan basata su “un musulmano non può compiere un genocidio”.

In Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz è stato confermato, dopo un colpo di stato, presidente dal 2009 e nuovamente nel 2014. Ora si appresta ad indire un referendum costituzionale magari non solo per abolire il Senato, modificare la bandiera e l’inno nazionale, ma anche per trovare un escamotage per prorogare la sua presenza alla guida del paese, anche se privilegiando l’etnia arabo-berbera a cui appartiene lo stesso Abdelaziz, discriminando le etnie africane, puntando sul fatto di aver garantito sino ad ora la sicurezza del paese nonostante si trovi al centro di un’area instabile, come dimostrano le vicissitudini del vicino Mali, dove operano jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, formazioni indipendentiste Tuareg e criminalità comune.

Per fortuna l’Africa non è solo di governanti intenti a fare soldi e conservare ad ogni costo la poltrona, ma anche di presidenti come il namibiano Hifikepunye Pohamba che, allo scadere del suo mandato nel 2015, si è aggiudicato il premio Mo Ibrahim per il suo buon governo. Il premio è stato istituito nel 2007 dalla fondazione del milionario sudanese Mo Ibrahim ed è una speranza per Africa democratica.

Africa Attaccati al Potere Jose-Eduardo-dos-Santos-008Un altro esempio di responsabilità può essere il presidente Jose Eduardo dos Santos che, confermato nelle ultime elezioni del 2012 in Angola con il 75 per cento dei voti, ha dichiarato di non volersi presentare alle prossime elezioni di agosto, nominando come successore Joao Lourenco. Una decisione presa dopo 37 anni al potere iniziati 1979, con la morte di Agostinho Neto

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Qualcosa di più:

Africa: le Donne del quotidiano
Le loro Afriche: un progetto contro la mortalità materno-infantile
Africa: i sensi di colpa del nostro consumismo
Solidarietà: il lato nascosto delle banche
I sensi di colpa del nostro consumismo
Le scelte africane

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