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Schwa – il giuoco si fa duro

Quella che poteva sembrare l’iniziativa di qualche intellettuale sta stimolando una discussione non priva di “vis polemica” ma interessante: in genere la linguistica non occupa molto spazio nella cultura di massa e nell’informazione generalista. Lo schwa poi fino all’altr’anno lo conosceva solo chi aveva fatto studi universitari di filologia, tant’è vero che alla radio l’ho sentito pronunciare “shoah” per assonanza con qualcosa di meno elitario. Eh, già, perché questo segno grafico ora tanto popolare non è stato promosso dal basso, ma da persone molto istruite. Leggo sulla rivista Domani la risposta di Christian Raimo ai linguisti che – a cominciare da Franco Arcangeli –  hanno firmato una petizione per fermare questa deriva fonetica: si difende la tradizione, non l’italiano. Lo schwa – cito letteralmente – parte dalle “proposte che emergono nei movimenti femministi, transfemministi, nelle assemblee dove da anni discutono insieme studentesse e operai*, docenti e attivist*”. Nel testo l’autore non usa l’asterisco ma lo schwa, solo che la mia tastiera non è ancora inclusiva e sono quindi ricorso all’asterisco, privo però di valore fonetico. “Studentesse” invece se lo poteva risparmiare: studenti è un participio, come docenti e quindi neutro. Nell’articolo si difende la popolarità e la pronunciabilità dello schwa dicendo che in fondo è presente in alcuni dialetti meridionali (campani, molisano-abruzzesi e pugliesi, ndr.). Vero: tutto questo si deve alla metafonesi, un fenomeno linguistico per il quale un forte accento tonico al centro della parola tende a indebolire la vocale finale. Ma se l’italiano è più comprensibile di un dialetto irpino o lucano è proprio perché le vocali in sillaba libera (cioè in fine parola) sono pronunciate in modo chiaro e rendono espliciti i legami morfologici e sintattici con il resto della frase.

Su Micromega invece Vera Gheno (sociolinguista dell’Università di Firenze) riconosce allo schwa il carattere di esperimento, e sperimentare con la lingua non è vietato, anzi ne arricchisce le potenzialità. Verissimo: nessuno ha mai impedito a D’Annunzio e a Marinetti di sperimentare, anche se pochi oggi si esprimerebbero come loro. Ricordo benissimo Gianni Toti, “videasta poetronico” come si definiva lui stesso, e ricordo le sue inesauribili re-invenzioni linguistiche con cui animava la cultura romana negli anni ‘70. Ma una cosa è sperimentare, altro imporre agli altri le proprie scelte. Lo schwa, semplice (ǝ) e “lungo” (з), è stato accolto in sei verbali redatti dalla Commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale. Ma può un singolo ufficio statale inserire in un documento ufficiale una nuova regola grammaticale e darle quindi valore normativo? E’ quello che si chiede il linguista Massimo Arcangeli nella sua petizione lanciata su Change.org, firmata da 22.000 italiani e non solo filologi e linguisti universitari.  In mezzo a questa discussione l’Accademia della Crusca ha dimostrato una grande onestà intellettuale, facendo capire che il suo compito non è imporre il cambiamento linguistico, ma di registrarlo e di renderlo norma solo nel momento in cui esso si è esteso e stabilizzato nella maggioranza dei parlanti. Ogni lingua è un organismo vivo e quindi si adatta di continuo alle nuove esigenze. Personalmente trovo stupenda la capacità della lingua angloamericana nel trovare un termine esatto e aggiornato per qualsiasi novità tecnica e culturale del momento, segno di una società ben più dinamica della nostra, la quale è come ingessata e timorosa del Cambiamento inteso come qualsiasi cambiamento.

Due parole però sulle minoranze organizzate. Alla fine sono loro che fanno da apripista alle riforme, alle novità culturali, alle leggi che estendono agli altri i diritti prima previlegio di un’aristocrazia, di un’élite. Ma spesso sono loro stessi un’élite (in italiano: “eran l’eletta e il fior d’ogni gagliardo”, così Ariosto nell’Orlando Furioso). Tutto bene? No: sorvolando sui no-vax, ho scoperto su Facebook alcuni gruppi trentini separatisti e persino un gruppo “Istria e Dalmazia né Italia né Croazia: Serbia”.  In quest’ultimo sono raccolti documenti, foro e dati statistici per dimostrare la presenza di comunità serbe in quelle zone dove  italiani e croati hanno versato fiumi di inchiostro e di sangue. Se è per questo, più di 10.000 serbi vivono a Trieste, dove c’è anche il bellissimo Tempio serbo-ortodosso della Santissima Trinità e di San Spiridione. Ma ricordandomi che dopo la dissoluzione della Jugoslavia l’obiettivo di Milosevic’ era quello di riconnettere tutte le comunità serbe alla Grande Serbia attraverso operazioni militari, mi permetto di essere un po’ diffidente. Del resto nella provincia ucraina del Dombass la minoranza (?) russofona vorrebbe riunirsi alla Russia e i c.d. Accordi di Minsk stanno al palo. Dovevano sancire il cessate il fuoco, l’autonomia della regione e l’indissolubilità dell’Ucraina, ma per ora è un dialogo tra sordi.  Nella vecchia Europa occidentale abbiamo da tempo imparato a convivere con le minoranze, ma in quella orientale c’è ancora molto da fare.

SCHWA, ovvero il mondo salvato dagli influencer

Michela Murgia vuole cambiare la lingua con lo “schwa” (in italiano anche: scevà). In sostanza: usando un fonema (e grafema) neutro si evita di dover stabilire il sesso del parlante. Gli anglosassoni stanno ricorrendo al “them”, ma in italiano usare “loro” non ha per ora senso. Una mia amica scrive da anni “saluti a tutt*”, ma è linguaggio scritto, mentre lo schwa ha un suono neutro. La stessa cosa propone Alice Orrù (sarda anche lei; coincidenza?), che si definisce “copywriter e traduttrice con il pallino per il linguaggio inclusivo” nel suo sito/blog: https://www.aliceorru.me/come-usare-lo-schwa/

Lo schwa graficamente si presenta come una “e” corsiva rovesciata ed è una mia vecchia conoscenza, gioia e delizia dell’esame di glottologia all’Università di Roma. Foneticamente serve per esprimere una vocale intermedia, presente in molte lingue o dialetti, ma anche per ricostruire forme ipotetiche delle antiche lingue indoeuropee. Per cui mi ha incuriosito molto questo nuovo uso ideologico di quello che per me era materia di filologia e linguistica applicata alle lingue una volta definite “ariane”.

Il problema è che il cambiamento linguistico non è mai frutto di un’iniziativa personale, ma riflette la comunità dei parlanti e la sua vita sociale. Ricordo anni fa che l’editore Bompiani nel Dizionario di letteratura abolì le “h” che in italiano servono solo per marcare alcuni omofoni (anno/hanno, a/ha, o/ho), accentando invece le vocali (ànno, à, ò), ma rimase un’iniziativa isolata. Del resto neanche l’Accademia riesce a imporre dall’alto scelte magari corrette o comunque logiche se manca il consenso collettivo dei parlanti, come è evidente nell’abuso degli anglicismi o nella dichiarativa espressa con il “come”. Persino dove il controllo accademico è più forte, come in Francia, certe imposizioni linguistiche non sono rispettate fuori degli uffici pubblici. La lingua è un codice frutto di una convenzione sociale, ma proprio per questo deve esistere l’accordo fra le parti, che non sempre è a favore dei parlanti. Inglesi e francesi accettano l’idea che pronuncia e forma scritta siano assurdamente divergenti, invece di obbligare l’Accademia a una doverosa riforma ortografica, anche se gli americani fanno a modo loro: lite invece di light, u invece di you, per non parlare dei fumetti, che sembrano scritti realmente in un’altra lingua. Facciamo comunque alla Murgia e alla Orrù tanti auguri inclusivi e sostenibili.