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Koons e la costosa bigiotteria

La mostra dedicata a Koons, che dalla metà degli anni Settanta a oggi si è insinuato nell’arte contemporanea, ospita una selezione delle più celebri realizzazioni, prestiti provenienti dalle più importanti collezioni e dai maggiori musei internazionali.

Autore di opere entrate nell’immaginario collettivo, con il concetto di “shine” (lucentezza) inteso come gioco di ambiguità tra splendore e bagliore, essere e apparire grazie alla capacità di unire cultura alta e popolare, dai raffinati riferimenti alla storia dell’arte alle citazioni del mondo del consumismo.

Jeff Koons trova nell’idea di “lucentezza” (shine) un principio chiave delle sue innovative sculture e installazioni che mirano a mettere in discussione il nostro rapporto con la realtà ma anche il concetto stesso di opera d’arte. Le opere dell’artista americano pongono lo spettatore davanti a uno specchio in cui riflettersi e lo collocano al centro dell’ambiente che lo circonda. Come afferma lo stesso Koons: “Il lavoro dell’artista consiste in un gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte”.


Jeff Koons. Shine
Dal 2 ottobre 2021 al 30 gennaio 2022

Palazzo Strozzi
Firenze

Orario mostra:
tutti i giorni 10.00-20.00
giovedì fino alle 23.00

A cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro


I punti di vista su Hirst

Una delle più inarrestabili macchine da soldi, nel campo dell’arte contemporanea, è sicuramente Damien Hirst, l’ex promettente rappresentante della Young British Art, con il solo dividere l’opinione degli addetti e non ai “lavori”, sull’essere un genio o un bluff, ha fatto lievitare le sue quotazioni.

Mentre sono sempre più numerose le persone che si domandano se Damien Hirst sia un astuto Madoff dell’arte o un Duchamp dei nostri giorni, altri fanno soldi con le opere che firma. Una interminabile produzione di puntini colorati che si succedono su superfici bianche per offendere la vista da si tanta luminosità.

Già nel 2008 si sentiva così in sintonia con l’umanità che esclamava: «Come artista cerco di fare cose in cui la gente può credere, con le quali possa relazionarsi, che possa sperimentare. Occorre dunque esporle nel miglior modo possibile».

E Hirst ha saputo dare al pubblico quello che voleva, o quello che il pubblico credeva di volere, grazie ad indulgente mercato dell’arte, sino a proteggerlo dalla crisi, salvaguardando gli investimenti, per esaltare l’isteria del popolo che si nutre del business dell’arte.

Hirst, come Koons o anche il nostro Cattelan, non conosce crisi e tutto può essere trasformato in icona, sia la banalità del quotidiano che quello del male, senza alcuna attinenza alla sensibilità di Hannah Arendt, ma come catarsi personale resa pubblica, svuotata da qualsiasi comprensione, senza alcuna presenza di umanità. Qualcosa di simile al gioco perpetrato della agenzie di rating con il diffondere voci per far salire o scendere le quotazioni a loro favorevoli.

damien_hirst_2 Dell’arte contemporanea e su di essa si può dire di tutto e il suo contrario, ma la realtà è nel suo spudorato utilizzo finanziario, in Occidente come in Oriente, dagli arricchiti russi e cinesi, dopo gli arabi e i giapponesi, spiazzando i cultori dell’opera come ingegno e manualità, limitandone la sua comunicabilità nella ripetitività. Una ripetitività che spesso viene confusa con la riproducibilità ben diversa dalla concezione di Walter Benjamin dell’opera d’arte.

Grande clamore per un teschio che Hirst ha tempestato di diamanti e portato in tour, per ribadire la superiorità dell’arte sopra ogni altro pensiero e attività, al quale nessuno può resistere, tanto che il povero Cartrain, alias di un’artista inglese impegnato nella realizzazione collage e stencil ispirati ad icone popolari come Mickey Mouse o Clint Eastwood, è rimasto impigliato negli ingranaggi con il suo utilizzare illegittimamente l’immagine dell’opera hirstiana. Una superficialità che gli è costato un’accusa di plagio, vincolando la creatività alle regole del mercato. Cosa potrebbe essere accaduto all’arte contemporanea se Dalì o Dupham, Picasso o Warhol, fossero incappati nell’accusa di plagio per l’utilizzo della Mona Lisa o dell’arte africana, ma forse a rischiare di più poteva essere Warhol con le sue zuppe in barattolo e numerosi simboli del consumismo.

Ora l’illusionista delle immagini come arte è presente contemporaneamente in tre luoghi di Roma (Fondazione Pastificio Cerere, nella hall del MACRO e nella Gallerie Gagosian), alle sedi della Gagosian gallery sparse nel mondo (Londra, New York, Parigi, Ginevra, Atene, Hong Kong e a Beverly Hills), oltre 300 dipinti a pallini colorati, da quelli di 1 mm di diametro sino a 60 cm ognuno, dei quasi 1.500, per un excursus di venticinque anni che proseguirà ad aprile con l’antologica alla Tate Modern.

Una moltitudine di esposizioni per una sovraesposizione mediatica stimolata da Hirst esaminando la dislocazione planetaria delle gallerie Gagosian, una vera e propria industria, che ha offerto il fianco ai suoi mille detrattori che lo incolpano di utilizzare centinaia di assistenti e lui non fa mistero, anzi a lui interessa solo il risultato identico al suo pensiero, non gli strumenti utilizzati per raggiungere tale risultato, allontanandosi dalla pittura come la intende David Hockney, suo connazionale e critico del suo comportamento, fatta di gesto e materia, non ridurre l’opera d’arte a prodotto industriale, ad oggetto di arredamento.

Potrebbe essere utile, per comprendere come l’arte si possa essere instradata nella strada del prodotto industriale, riflettere su cinque secoli di arte, messa in mostra a Londra presso la Tate Britain, sino al 14 agosto 2012, con Migrations, ma è tra il 1890 e la Young British Art che si può risalire frustrazione dell’arte britannica nell’avere generato, escludendo William Blake e i preraffaelliti, solo ritrattisti e paesaggisti, mentre il resto dell’Europa contribuiva alla storia dell’arte con ben altri artisti, esuli e perseguitati per la religione, dall’Olanda e il Belgio, artisti come Van Dyck, alla ricerca di un’affermazione economica, che hanno stimolato il ritratto e hanno introdotto il genere paesaggistico. Una mostra che solleva profondi interrogativi sulla rilevanza dell’arte britannica, escludendo un Hogarth o un Turner, nel panorama internazionale, in fin dei conti anche Hirst ha fatto tesoro degli stimoli che aleggiano nell’aria, trasformandoli in un lavoro meno faticoso possibile. L’arte britannica si è formata grazie all’evento migratorio, non solo dell’umanità in cerca di migliorare la propria vita, ma anche sulla circolazione di idee e concetti.

Altro detrattore di una certa arte contemporanea è Jean Clair, accademico di Francia e storico dell’arte, che con il suo recente libro L’inverno della cultura (Skira), si sofferma sull’uso disinibito dell’immagine. Un libro a capitoli, ognuno dei quali viene introdotto da una citazione come per il primo capitolo con “Quando il sole della cultura è basso sull’orizzonte, anche i nani proiettano grandi ombre.” di Karl Kraus, utilizzati come sintesi del pensiero di Jean Clair, sviluppato nelle pagine successive.

Sono lontani gli anni dove i politici si accompagnavano agli artisti per darsi importanza e apparire competenti. Erano gli anni craxiani dell’acquisto dell’opera d’arte senza troppe domande, ora c’è la crisi e alcuni artisti amerebbero tanto un posto fisso da permutare con la variegata incertezza della creatività del mercato. Gran parte dell’odierna arte è un’illusione creata da capaci persone, ben più capaci dell’artista che intendono promuovere, impegnate a plasmare il desiderio di quel prodotto, come dimostra il grande impegno dalla famiglia reale del Qatar, con i numerosi acquisti di opere d’arte di varie epoche, più che del contemporaneo, e innalzando musei.