In
questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus,
ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo
le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non
interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le
enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e
scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti
(1971) o ancora de L’amore ai tempi del
colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una
rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di
fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri
sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha visto ben tre
adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard
Matheson col titolo Io sono leggenda
(1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli
umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è
Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima
versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato
George Romero: La città verrà distrutta
all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è
stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti
diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo
sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang
Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce
gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la
caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così
produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam
(1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la
pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a
pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel
film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni
dopo esce Il Quinto Elemento di Luc
Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di
salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico.
Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al
genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli
umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle,
dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su
scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a
farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh,
vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema
respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di
peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con
la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo
meno schematico. In Orfeo negro (1959)
di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto
dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più
stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria
due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era
avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre
nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la
difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari
husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento
al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del
dopoguerra: Una lettera per Tezuò.
Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora
mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è
cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa
convincermi a cambiare idea sui vaccini.
Mi
piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di
epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982,
ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa
significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico
evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine
della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
Mi rendo conto
che parlare di un trasloco è qualcosa che trascende la logistica: in questo
caso era in gioco la ridefinizione di un’identità costruita nell’arco di mezzo
secolo. Sia chiaro: la casa l’hanno voluta vendere i miei fratelli, ma due
contro uno ho accettato la loro scelta, giustificata anche dal futuro dei loro
quattro figli all’università. Ma anche se da oltre dieci anni non abitavo più
fisicamente a via del Paradiso, ho continuato a sentirmi legato alla casa dove
sono entrato all’età di 15 anni (era il 1965) e che ora lascio esattamente come
l’ho trovata il primo giorno: enorme, vuota e malmessa. L’impianto elettrico è
quello originale – cioè da incubo – e spostando i mobili è rivenuta fuori la
squallida e sbiadita carta da parati con cui i vecchi inquilini tappezzavano le
pareti. L’enorme spazio nel corso degli anni era divenuto saturo di oggetti e
ogni oggetto parlava, aveva una storia da raccontare. Gli album delle foto di
famiglia narrano di feste, di rituali familiari, di vita quotidiana e
registrano qualsiasi avvenimento degno di memoria. Lo studio di mio padre non
era stato toccato dal giorno della sua morte (2003), al punto che mancava solo
lui, quotidianamente intento a dipingere all’acquerello le stampe del negozio o
a classificare foto e negativi o sentire un disco jazz. La discoteca di papà
l’ha presa per intero mio fratello Fabio, compresi i rari V-Disc dei soldati
americani. Più problematica la sorte di altre cose riesumate da armadi e
ripostigli: giocattoli, quaderni di scuola, riviste ingiallite; praticamente di
tutto e di più. Per fortuna tutti i vestiti erano stati dati per tempo alla
parrocchia, comprese due pellicce – una di visone, l’altra di astrakan ora
invendibili. Quello che non abbiamo diviso tra fratelli lo abbiamo venduto o
svenduto, regalato, buttato, smontato. Il resto è finito nelle nostre case o in
un paio di box che abbiamo dovuto prendere in affitto per qualche mese in
attesa di idee migliori. Casa di Gloria era grande, 145 mq, mentre le nostre
sono piccole e bisogna per forza adattarsi. In più, la vita matrimoniale
mantiene sempre un filtro per gli oggetti provenienti dall’esterno, peggio ancora
se antiquati e voluminosi.
Quando siamo
venuti a Campo de’ Fiori il quartiere era molto diverso. Tanto per cominciare, non era zona di ricchi
e c’erano ancora sacche di reale povertà. Nei palazzi le diverse classi sociali
condividevano piani e spazi diversi, ma erano relativamente distribuite. Ci
siamo trasferiti da via Tirso – quartiere borghese Salario – non per snob, ma
perché le case costavano poco e in quel momento l’azienda di nonno era in
rapido declino, invecchiata col padrone. Nella seconda metà degli anni Sessanta
del secolo scorso la borghesia abbandonava il centro per espandersi verso
l’esterno – Vigna Clara, Casal Palocco – in cerca di case con ascensore,
riscaldamento e posto macchina, mentre gli stanzoni del centro storico non li
voleva più nessuno e venivano ripopolati da stranieri e famiglie meno ricche, a
cui si sommavano le varie ondate di giovani alternativi e gli stranieri con la
valuta forte. Per noi era diverso: i Pasquali sono romani dal 1860 e i miei
genitori erano nati e vissuti da giovani tra piazza Navona e Corso Vittorio,
dove ancora erano in vita alcuni parenti. Io invece ricordo il senso di
spaesamento quando mi sono trovato dentro questa casa ancora vuota, enorme e
fredda. Leggevamo i sonetti del Belli e di Trilussa ma non parlavamo in
romanesco, mentre all’epoca la calata del Campo ancora si distingueva da quella
più cupa di Trastevere. Avevo lasciato
una casa stupenda, vicino a villa Borghese, andavo al liceo Tasso e tutti i
miei compagni di scuola abitavano in quel quadrante. Avrei potuto continuare al
Visconti e forse sarebbe stato meglio: più vicino, meno claustrale e
altrettanto buono ma meno formale del Tasso. L’aveva frequentato mia madre e in
seguito l’avrebbero frequentato anche mio fratello e sua figlia. Ora mi trovato
in una zona che neanche conoscevo e dove per anni non avrei avuto mai un amico,
visti anche i giri di droga che iniziavano a ronzare sulla piazza. Gli
spacciatori noi ce li avevamo pure dentro il palazzo e ricordo le siringhe
vicino alle fontanelle del mercato e le autoradio rubate nascoste negli
armadietti dei contatori del gas. Ormai quegli sciagurati sono tutti morti di
eroina o di epatite, ma all’epoca erano un problema di ordine pubblico.
Quando son
partito militare ho portato con me solo pochi oggetti per l’igiene personale.
Chi ha condiviso la naja lo sa, dentro l’armadietto di metallo doveva entrarci
tutto: divise, cappotto, anfibi, abiti civili e quant’altro: radiolina, libri e
riviste, rasoio, spazzolino, quaderno di appunti, più quello che ti mandavano
da casa. Ancora mi chiedo come facesse a entrarci tutto; eppure in questo modo
io e i miei camerati siamo sopravvissuti un anno e mezzo. Ora lo spazio non mi
basta mai e in fondo rimpiango quel periodo: mi piace sempre dire che la mia
casa ideale è una branda in caserma. Ed è vero.
Questo ci porta
a parlare di un altro argomento: cosa ci serve veramente e perché accumuliamo
tanti oggetti, salvo poi in seguito buttarli per far spazio? Io non sono
definibile come accumulatore seriale, sono piuttosto un collezionista
archivista, figlio di un antiquario e preparato a farlo dalla stessa
professione che ho svolto per 40 anni: archivista e bibliotecario. Da mio padre
antiquario ho anche imparato a distinguere e conservare quanto acquisterà
valore nel tempo e scartare tutto il resto. La maggior parte della gente e
delle associazioni culturali invece accumula senza un metodo, non classifica e
non ordina, e al momento di dover traslocare o far spazio butta via tutto senza
un criterio. Forma intermedia: vengono ospiti a cena e per non far brutta
figura tua moglie infila di corsa tutto dentro gli armadi. Risultato: per una
settimana non trovi più niente, visto che alla rinfusa son finiti dentro anche
documenti, capi di vestiario, oggetti d’uso quotidiano. Ma sul motivo di tanto
accumulo, penso che entrino in ballo non solo i desideri indotti dal mercato,
le mode che cambiano di continuo o il lascito di vecchie zie, ma ben altro: io
lo ritengo un sintomo depressivo; si accumulano oggetti materiali per compensare
qualcos’altro, e poco importa che i film scaricati dalla rete o migliaia di
file in mp4 occupino meno spazio di una penna o di un accendino: è il principio
quello che conta.
Nel caso di
quanto era a via del Paradiso, ho detto spesso che ogni oggetto voleva
raccontarmi una storia, e presto stilerò un lessico con almeno gli oggetti
dalla storia più significativa. E’ il
procedimento letterario usato da Heinrich Boll in Foto di gruppo con signora
(1971), ben altro dai versi dell’Iliade dove sono elencati tutti i capitani e i
reparti in forza ad Agamennone (libro II, versi 494-759). O diversamente dalle
Etymologiae di Isidoro da Siviglia (m. 636 d.C.), vera e propria enciclopedia
che classifica e spiega ogni singolo ramo del sapere partendo appunto dall’etimologia
della parola che lo definisce. Isidoro riuscì in questo modo a recuperare e
organizzare l’eredità del mondo classico, in modo da trasmetterne la cultura al
medioevo che iniziava. Più recentemente, ricordo il film di Peter Greenaway,
Prospero’s books (L’ultima Tempesta, 1991), dove i 24 libri del sapere umano
vengono animati da oggetti, video e altro. Anche qui viene marcato il passaggio
da un’epoca all’altra, cercando di strutturarne l’eredità. Anch’io farò in modo
che da un singolo oggetto si ricostruisca una cultura che ora non c’è più.
Ma se parliamo
di cultura, ribadisco i motivi del mio attaccamento alla posizione centrale:
hai tutto a portata di mano; teatri, cinema, concerti, pub, archivi,
biblioteche, accademie. La zona dove abito ora ha più abitanti di Trieste ma
neanche un teatro o un cinema; qualsiasi cosa vuoi fare, devi prendere la
macchina. Ero abituato ad andare al cinema Farnese o all’Augustus quando
volevo, a far tardi al teatro Valle o Argentina, a sentire un concerto in una
delle tante chiese, a chiacchierare al Campo davanti a un aperitivo preso con
gli amici o a sfogliare un libro da Fahrenheit 451 la sera tardi, o a vedere un
film ungherese con sottotitoli all’Accademia di Ungheria a via Giulia. O
semplicemente a recarmi ogni giorno in ufficio in Campidoglio facendo una
passeggiata di quindici minuti invece che guidare per 13 km di traffico e 27
semafori. Il centro lo paghi, ma risparmi sulla benzina e sullo stress da
traffico, sempre che trovi parcheggio. L’unica cosa che trovi invece in
periferia sono il verde e tanti artigiani, specie umana ormai da anni estinta
dal centro. Anche questa è ormai storia.
Non mi faccio
illusioni: tornerò in quel palazzo solo per prendere la posta residua. Non
suonerò ogni tanto ai vicini per far due chiacchiere, né incontrerò per le
scale Fabio Sargentini, il gallerista de L’Attico, che nel palazzo ne ha
mostrate di cotte e di crude. Ma anche se passassi ogni giorno a via del
Paradiso guarderei verso l’alto e poi andrei oltre. Mantengo come ultima immagine
il panorama dalla mia finestra, che qui vedete. Non è retorica, ma nostalgia.
Ho dovuto alla fine cambiare residenza e restituire il permesso ZTL, che avevo
mantenuto per poter assistere mia madre. In realtà la residenza a via del
Paradiso era ormai una finzione giuridica, ma per me era anche una questione di
principio: da quando mi sono sposato abito in un bel quartiere periferico con
tanto verde, ma privo di quanto serve alla mia anima. Ho rivendicato per anni
la mia identità di romano del Centro, anche se abbiamo visto che la storia va
raccontata per intero. La parte l’ho recitata per benino a tutti e per anni, ma
quando sono arrivato a via del Paradiso ero una sorta di profugo istriano
esattamente come adesso. E come i profughi istriani, mi son portato dietro
l’insegna della bottega storica che abbiamo chiuso dopo più di mezzo secolo,
quando mia madre aveva ormai 90 anni e io non potevo prenderne la gestione
perché ancora in servizio in Campidoglio.
Già, mia madre.
Fino all’ultimo si è fatta tre piani di scale e l’ascensore resta tuttora il
tormentone del condominio. Non mi va di entrare in polemica visto che ormai il
problema non mi riguarda, ma avrei voluto che almeno mia madre potesse fare a
meno di quei 78 gradini. Mia madre ha comunque chiuso la bottega storica
all’età di 90 anni, che abbiamo festeggiato alla grande al Circolo Ufficiali.
Purtroppo negli anni si era appesantita e non era sempre facilmente gestibile,
ma l’abbiamo accudita fino alla fine. Anche Cristina le ha voluto bene e si è spesso
sacrificata per lei, mentre io distraevo energie dal nostro matrimonio. Mia
madre era un personaggio; difficile dimenticare le sue battute, i suoi
capricci, le sue espressioni. Sicuramente era una donna diversa dalle altre,
nel bene e nel male. Su mia madre potrei realmente scrivere un libro, anche se
non è facile: significa anche parlare di me stesso, vista la continua
interazione con lei per via della gestione del negozio e di quel rapporto di
dipendenza che s’instaura con le persone anziane e sole. Mia madre negli ultimi
tempi soffriva anche di solitudine: i suoi amici erano defunti o non potevano
fare le scale, la sua vita sociale era legata soprattutto al negozio e alla
quotidiana vita di strada, dove era servita e riverita e s’intratteneva anche con
giornalisti e studiosi. A casa invece riceveva poche telefonate, ma ancor meno
ne faceva. Leggeva molto, scriveva anche poesie in romanesco. Naturalmente
vedeva per ore la televisione, ma per noia, e non posso darle torto. E fumava.
In quello era come mia zia, la sorella maggiore morta a 93 anni e da sempre
fumatrice. La prima generazione delle donne lavoratrici faceva tutt’uno con le
sigarette e tenevo sempre un pacchetto di riserva per evitare di rifare le
scale un’altra volta, anche se ormai gambe e polmoni erano ben abituati a farle
più volte al giorno.
Un’altra
caratteristica di casa nostra: sempre aperta a tutti. I compagni di scuola che
suonavano dai Pasquali potevano sempre salire senza pensare di aver disturbato;
le feste di carnevale permettevano persino l’uso dei coriandoli e non si
contava il numero degli imbucati. Qualche volta le feste debordavano sul
pianerottolo e se la battevano con quelle organizzate da Fabiana al piano di
sopra. Nulla nasce da nulla: negli album di famiglia si vedono le feste a tema
organizzate da mio nonno tra le due guerre (in quella del 1935 tutti sono
mascherati da abissini!), se ne deduce che godersi la vita insieme agli altri è
una tradizione di famiglia. Mio nonno, grosso commerciante, organizzava spesso
il Mercante in fiera e naturalmente era il banditore. Papà e mamma avevano un
debole per le cene gastronomiche, dove ognuno portava un piatto preparato da
sé. Abbiamo una serie di foto dove si vede di tutto: ecclesiastici italiani e
stranieri, amici di famiglia, compagni di scuola, commilitoni di caserma,
famiglie con bambini. Non solo: quando mia sorella Susanna doveva preparare
l’esame di architettura detto di composizione, era un turnover di studenti che
si alternavano per disegnare di continuo tavole su tavole (all’epoca non c’era
la computer grafica). Camera di Susanna era piccola e da solo il tavolo da
disegno occupava un terzo dello spazio, quindi io e Fabio prestavamo anche le
camere nostre. Una festa di compleanno di Fabio rimase storica: più di 80 o
forse 100 invitati, al punto che si temeva per i solai. E poi le famose
proiezioni: papà faceva un film per ogni viaggio che una volta all’anno faceva
con mia madre. Essendo stato un semiprofessionista del cinema, i film erano
medio metraggi ben fatti, ben al di sopra dei filmetti in superotto della prima
comunione che dovevamo sorbirci altrove. Seguiva sempre un ricevimento dove non
ci siamo mai fatti guardare dietro neanche quando non avevamo una lira. Questo
è stile.
Quella casa ha
visto anche i nostri primi amori. Non avendo figli, poco so dei giovani d’oggi,
ma è evidente che crescono in un ambiente familiare e sociale molto diverso dal
nostro – parlo per me e per i miei fratelli e sorelle. Le ragazze erano normali
ma poco sveglie e soprattutto molto controllate dalle famiglie, mentre noi
maschi eravamo spesso imbranati e sul sesso e l’amore c’erano meno informazioni
di adesso. Morale: Fabio mio fratello ogni tanto mi chiedeva di andare a
studiare in biblioteca, visto che lui con le ragazze ci sapeva fare, mentre la
prima volta che mi sono portato in casa una ragazza – quanti anni avevo meglio
non dirlo, altro che rapporti precoci – ho rischiato di farmi scoprire perché
nel frattempo mia madre tornava dal negozio. Nascosi la mia giovane amante da
qualche parte, poi la feci uscire, nonostante ancora mezza nuda insistesse per
conoscere la potenziale suocera, la quale seppe tutto il giorno dopo dalla
portiera. Già, perché avevamo pure la portiera, dove oggi un senatore ci ha
messo lo studio privato. Ma la regola imposta da mio padre era: le donne non ce
le porto io, quindi non dovete farlo manco voi. Principio discutibile, visto
che una donna comunque lui ce l’aveva, ma con mio padre non si scherzava. Oggi
i miei nipoti ascolterebbero questi racconti come una cronaca d’altri tempi,
come in effetti è. Ma se penso che nelle feste di liceo del sabato pomeriggio
non era affatto rara la presenza delle madri e zie delle ragazze che ci avevano
invitato, qualche volta mi viene da ridere: visto col metro di oggi, il nostro era
un mondo omerico.
Anche il letto
dove ho vissuto i miei non molti amori non esiste più: l’ho smontato e buttato.
Qualcosa però a casa vecchia è rimasto: qualche quadro per arredo, la grande
stampa panoramica di Roma che ornava continuerà a ornare la parete del salotto
(venduta al nuovo proprietario) e quel pianoforte inglese che mio padre suonava
nel tempo libero. Non lo volevamo portar via perché scordato e tutto sommato di
media qualità. Mia suocera a casa di pianoforti ne ha due, uno meglio dell’altro
perché era pianista, quindi non aveva senso averne un altro. In più, il
trasporto dei pianoforti è gestito da poche, costose ditte specializzate.
Quando il nuovo padrone di casa ha chiesto di tenerlo per arredo, non ce lo
siamo fatti dire due volte.
Quanto al nuovo
proprietario, è l’ennesimo esempio di come si distrugge il centro storico. Una
sinistra ossessionata dalle piste ciclabili ma incapace di elaborare un piano
per il commercio nel Centro, più una giunta di dilettanti allo sbaraglio hanno
sottovalutato se non ignorato un fenomeno che sta modificando le città d’arte:
il sovra turismo, overtourism in inglese. L’affitto breve ai viaggiatori
low-cost è l’affare del momento. Tenete duro, se siete ancora abitanti del
centro, anche se ogni giorno vedrete per le scale gente diversa che parla altre
lingue e lascia solo mondezza, o se per strada sentite il rumore continuo e
ossessivo dei trolley che scorrono sui sampietrini, erede dei carri che
disturbavano il sonno del poeta latino Orazio. I negozi di zona – sempre più
kitsch e omologati sul modulo cinese e pakistano – si sono adeguati a questi
nuovi nomadi, grazie anche alla totale disattenzione o corruzione dei politici.
Anche il mercato di Campo di Fiori si è adeguato al turismo e si vede: un altro
segno dei tempi. Ma il Campo era già da tempo divenuto almeno di sera un luna
park per alcolisti italiani e stranieri e i titolari dei banchi preferivano
trasferire la licenza ad altri mercati rionali. Questo anche per un motivo poco
noto: la speculazione sui magazzini attorno alla piazza, diventati pub, ha reso
troppo costosa la loro gestione come depositi di mercato. Il turismo ha fatto
il resto, visto anche il progressivo spopolamento della zona.
Detto questo, la
mia non è una lettera di addio. Sicuramente niente sarà più come prima, ma la
vita continua.
Ieri
è morto Max von Sydow, l’indimenticabile cavaliere che nel Settimo Sigillo di
Ingmar Bergman (1957), proprio durante un’epidemia di peste, gioca una lunga
partita a scacchi con la Morte. Parlare della peste finora mi ricordava solo
certi temi di liceo (la peste in Tucidide, in Lucrezio, nel Decamerone e nei
Promessi Sposi, col primato manzoniano nell’umanità delle descrizioni), ma di
mio ci metto anche letture meno scolastiche, non tanto The Journal of Plague
Year di Daniel Defoe (1722) o La Peste di Camus (1947), quanto piuttosto
L’amore ai tempi del colera di Jorge Amado (1985), dove l’epidemia ostacola ma
non scoraggia affatto chi ama la vita. Già, perché l’epidemia scatena
l’angoscia di massa (basta vedere i supermercati presi d’assalto come in guerra
o la diffidenza sui mezzi pubblici), ma anche frenetiche reazioni vitali: ogni
giorno su whatsapp mi arrivano scherzi e barzellette sul coronavirus, che
subito ritrasmetto in modo virale (!) agli amici. Questo almeno compensa il
clima di coprifuoco e i quotidiani consigli: lavarsi spesso le mani, non
tossire in faccia agli altri, sanificare water e lavandini, cioè quello che una
persona civile dovrebbe comunque fare ogni giorno senza aspettare un’infezione.
L’epidemia diventa sempre una metafora: ora castigo divino, ora segno di
malessere o degenerazione politica, ora prova del complotto internazionale o
dei cambiamenti climatici. Una letteratura che va dalla Bibbia a Manzoni, da
Thomas Mann ad Albert Camus fino a Saramago, ma non disdegna inverosimili
rivelazioni del Mossad (che non rilascia mai dichiarazioni, ndr.) o profezie
apocalittiche. Ma gli antichi erano in parte giustificati: privi di microscopio
e di antibiotici, non avevano idee migliori che relegare in isole lazzaretto le
navi provenienti dall’Oriente o le carovane con cui viaggiavano insieme uomini,
merci, animali, virus e batteri. Soprattutto gli intellettuali francesi – penso
ai Nouveaux Philosophes degli anni ’70 del secolo scorso – hanno scritto colti
volumi sulla strategia dell’isolamento e della reclusione ed esclusione del
malato infetto, sia esso appestato o psichiatrico, ma i pragmatici Veneziani di
cinque secoli fa certi problemi non se li ponevano proprio e quindi
provvedevano a isolare – esattamente – gli infetti. Ricordo anni fa di aver
trovato un teschio scavando in un campeggio nell’isola di Osljak (in veneziano:
Calugerà) davanti Zara, in Dalmazia. L’isola naturalmente si chiamava anche
Lazaret. Le navi di un tempo viaggiavano comunque lente e così le carovane,
quindi le epidemie non si spargevano rapidamente come ora, dove bastano un
aereo o una nave da crociera per creare il panico mondiale. Ne La morte a
Venezia di Thomas Mann l’impiegato inglese dell’agenzia di viaggio spiega al
prof. Aschenbach il lento itinerario del colera di cui nessuno deve parlare:
alla fine dalla Turchia è arrivato a Venezia, dopo aver fatto per anni il giro
di altri porti. Quell’epidemia non se l’era inventata Thomas Mann, ma si è
saputo dopo: la censura sull’informazione era stretta, tant’è vero che pochi
sanno che l’epidemia di febbre spagnola del 1918 fu introdotta in Europa dai
soldati americani inviati in Francia contro i Tedeschi. La chiamiamo
universalmente “spagnola” perché la Spagna era un paese neutrale e quindi solo
i giornali iberici ne parlavano senza censura militare. In realtà il focolaio
si era sviluppato tra le reclute del Kansas che lavoravano negli allevamenti
dei maiali e si sparse in Francia fra la truppa ammassata nelle retrovie del
fronte occidentale. Il tentativo di dar la colpa agli operai cinesi non regge:
erano stanziati lontano, sulla costa californiana (1). Ma come sempre, il Male
lo porta sempre lo Straniero. L’epidemia fece 100 milioni di morti, di cui 20
solo in Europa, più dei 17 milioni di soldati caduti al fronte, anche se
bisogna mettere in conto una popolazione indebolita da quattro anni di guerra e
dalla mancanza di antibiotici, inventati e diffusi vent’anni più tardi. Ma la
memoria della spagnola si è spenta con i nostri nonni, i veri sopravvissuti a
tutto quanto può essere accaduto nel Secolo Breve.
Naturalmente
nel momento della disgrazia collettiva saltano fuori il meglio e il peggio del
Genius Loci. I Cinesi hanno dimostrato ancora una volta una grande
organizzazione collettiva, ma anche la differenza tra un ordine che parte
dall’alto e una comunicazione che parte dalla periferia per il centro. Noi
italiani abbiamo finora scoperto che la frettolosa e sgangherata riforma del
Titolo quinto della Costituzione ha portato allo scoordinamento totale tra
Stato e poteri locali. Voluta qualche anno fa per contrastare il federalismo e
il pericolo della secessione, ha precluso al Ministero della Salute la
possibilità di imporre standard sanitari coerenti su tutto il territorio
nazionale. Il balletto dei decreti ufficiali sembra poi allineato allo stile di
Badoglio. Ma neanche l’Europa brilla per capacità organizzativa: non si è
stabilito subito un protocollo comune per stabilire il grado di contagio; si
permette ai singoli stati di decidere chi entra e chi esce, senza neanche
avvertire i viaggiatori e le ambasciate. E se abbiamo scoperto tanti casi, è
anche perché abbiamo fatto un controllo con 25.000 tamponi, dieci volte più che
in Germania o Francia. Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ancora
non ha deciso se è pandemia o no. Nel frattempo è sparita l’Amuchina, insieme
ai partiti politici in continua lite fra di loro. Forse per senso civico, ma
anche perché il Coronavirus ha – come direbbero i pubblicitari – vampirizzato
la comunicazione, complice anche una tv che mobilita un esercito di esperti –
virologi, ospedalieri, volontari, ricercatori a tempo pieno. Momenti di Gloria.
Nel frattempo finalmente anche in Italia si scopre lo smart working, lavoro
agile, quello che anni fa si chiamava telelavoro ma non poteva ancora valersi
delle linee veloci, di whatsapp e della logistica in stile Amazon. Ma ci voleva
la Peste Nera per modernizzare l’Italia?
E
sempre a proposito della Peste, mi piace essere originale e di parlare di un
libro tradotto solo nel 1940 da Elio Vittorini e di cui ho fatto cenno
all’inizio: A Journal of the Plague Year (Diario dell’anno della peste o La
peste di Londra ) pubblicato nel 1722 anonimo, ma riferito all’epidemia che
falciò la popolazione di Londra nel 1665. Presentato come cronaca autografa di
un testimone oculare dell’epidemia e integrato da documenti originali, era
stato in realtà scritto da Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe,
pubblicato anch’esso come reale autobiografia. Fake news? No, il nostro autore
sapeva far bene il suo mestiere di scrittore e pioniere del giornalismo. La
critica italiana preferisce naturalmente Manzoni: «Nel libro di Defoe c’è meno
arte, meno maestria, meno meditazione e più peste» , scrive Vittorini. Io
invece provo una profonda ammirazione per i grandi falsari, e Daniel Defoe lo
era (2). Alieno da sentimentalismi e sovrastrutture morali, ha confezionato una
vivida e accurata cronaca fingendosi testimone oculare.
Tutti
gli altri scrittori hanno esteso invece la descrizione dell’epidemia
proiettandola in una dimensione morale, metafisica. Lucrezio nel sesto e ultimo
libro del De rerum natura descrive la peste di Atene del 430 a.C. sulla scia di
Tucidide (3), il quale notava la destrutturazione morale della società colpita
dal morbo, il che non sfugge neanche a Boccaccio nel Decamerone. Se gli dèi non
ti proteggono, l’etica non paga. Ma è proprio Lucrezio a suggerire che
l’epidemia è un fenomeno naturale e gli dèi poco c’entrano: proprio i santuari
sono pieni di cadaveri e la malattia non distingue tra buoni e cattivi. Sarà
piuttosto Manzoni ad affidare alla peste il compito di punire Don Rodrigo e il
Griso, anche se sapremo solo dopo anche della morte di Fra’ Cristoforo nel
Lazzaretto, dove prestava aiuto agli altri. Epidemia invece tutta laica,
decadente e tardo romantica ne La Morte a Venezia di Thomas Mann (1912), libro
noto anche per l’interpretazione cinematografica di Luchino Visconti (1971).
Peste che Albert Camus interpreta invece come metafora del Nazismo, anche se la
dinamica resta la stessa: all’inizio si sottovaluta il contagio, poi non si
deve creare allarmismo e in questo modo la situazione peggiora; quindi si
ordina un rigido cordone sanitario attorno alla città e si studia il vaccino.
Qui siamo a Orano, in Algeria, forse nel 1940 o comunque sotto il governo di
Vichy (1940-44), e a descrivere tutto è un medico. La trama è abbastanza nota,
quindi non la riassumo, come nota è la morale: bisogna vigilare perché solo la
prevenzione può evitare il ritorno del flagello. Ma che si parli di Nazismo è
solo sottinteso, visto che i topi neri che hanno invaso Orano non portano
incisa la svastica. In fondo, il romanzo di Camus potrebbe essere
reinterpretato di continuo, come certe opere di Brecht.
Mi
piace però terminare questo primo excursus con Cecità di José Saramago (1995).
Questa improvvisa cecità che si espande a macchia d’olio fra gli abitanti di
una città non definita è inspiegabile, come non si capisce il motivo per cui
nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio
come all’inizio della vicenda era sopraggiunta improvvisa l’epidemia. Nel libro
non manca niente: la sofferenza collettiva, i morti per le strade, una
protagonista immune dal contagio, la strategia della reclusione dei malati, il
crollo della morale e l’affermarsi della legge del più forte. E’ un romanzo
complesso e va letto per intero, ma ha una precisa chiave di lettura, espressa
da uno dei personaggi, più precisamente la moglie del medico: «Secondo me non
siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non
vedono». E’ quindi un j’accuse all’indifferenza, il nuovo male del secolo.
E
passiamo al cinema. In questo momento le sale cinematografiche sono vuote per
paura del contagio, ma di film con epidemie è piena la storia del cinema.
Scarto però in anticipo le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso
illustrano, non interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in
scena, sfruttando le enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel
ricostruire ambienti e scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie
edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino
Visconti (1971) o ancora de L’amore ai tempi del colera (2007). I soggetti
originali per una rassegna di cinema “epidemico” sono infatti per la maggior
parte film di fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove
virus e batteri sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. Con l’aiuto di
Google, ecco un breve elenco: L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha
visto ben tre adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954
da Richard Matheson col titolo Io sono leggenda (1954), narra di un’epidemia
causata da un batterio che trasforma tutti gli umani in vampiri. Il solito
meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è Robert Neville, che si barrica e
si difende a modo suo. Una curiosità: la prima versione fu girata all’EUR. Ma
parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato George Romero: La città verrà
distrutta all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in
questione, è stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli
abitanti diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in
attesa che lo sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus
Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang Petersen. Il virus nasce in
Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce gli Stati Uniti si finanzia la
ricerca (più chiaro di così..) e parte la caccia per rintracciare la “scimmia
zero” da cui è partita l’infezione e così produrre il vaccino. Cugini primati
che rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry
Gilliam (1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe
dopo la pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willys) nel
1995, a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga il danno.
Nel film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due
anni dopo esce Il Quinto Elemento di Luc Besson e ricompare proprio il nostro
Bruce Willys, stavolta nell’impresa di salvare il mondo dal Male Supremo,
evocato da uno sconsiderato scavo archeologico. Il film è intricato e mischia
anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al genere catastrofico, dove
l’elemento di base è che la minaccia letale per gli umani proviene sempre da
fuori.
Andiamo
avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28
giorni dopo (2003), di Danny Boyle, dove stavolta il virus è stato creato in
laboratorio e sperimentato su aggressivi scimpanzé che scappano in giro (ancora
scimmie, ma che fantasia!). Manco a farlo apposta, in quell’anno scoppiò
l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh, vero
uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema respiratorio
e si trasmette velocemente con una stretta di mano. Ma giusto ieri sera in tv
c’era Weaponized (2016), di Timothy Woodward jr. , dove il virus è robotico,
creato in laboratorio dal padre vendicativo di una vittima per terrorismo.
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, ho citato
all’inizio Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman, dove siamo in piena epidemia di peste nera, e il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo meno schematico. In Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria due film che ci proiettarono alle elementari, quando esisteva ancora una figura professionale chiamata vigilatrice scolastica. Il primo era avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il siero contro la difterite. Non ricordo il titolo, ma ricordo questi treni di slitte che avanzano nella tormenta polare e ieri ho scoperto (con Google, lo ammetto) che Balto, uno dei leggendari husky siberiani della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento in bronzo al Central Park di New York, a perenne riconoscenza dei bambini. L’altro era un tetro film giapponese del dopoguerra: Una lettera per Tezuò. Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e ogni volta che penso a quel film giuro che ancora mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa convincermi a cambiare idea sui vaccini. Ricordo anche di quel padre che nella Budapest del dopoguerra è alla spasmodica ricerca della penicillina per salvare il figlio (El Dorado o A peso d’oro, 1989, regia di Géza Bereményi ). E visto che parliamo di cinema ungherese, mi piace concludere in modo indiretto con un film che di epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982, ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa significa il rallentamento della vita sociale dovuto a un traumatico evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
****************************
NOTE
1)
Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo.
Trad. di
2)
Defoe è considerato il padre del moderno romanzo, ma è stato anche un
giornalista, e il suo stile realistico lo dimostra. Tutte le sue opere
narrative (Robinson Crusoe, Capitan Singleton, Memorie di un Cavaliere, Moll
Flanders, Lady Roxana) si presentano come autobiografiche e lasciano poco
spazio al sentimentalismo che avrebbe imperato dopo.
3)
Dai sintomi, gli specialisti hanno ipotizzato che si trattasse in realtà di
tifo esantematico. Vedi: Manolis J.
Papagrigorakis, Christos Yapijakis, Philippos N. Synodinos e Effie
Baziotopoulou-Valavani, DNA examination of ancient dental pulp incriminates
typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens, in International
Journal of Infectious Diseases, vol. 10, nº 3, 2006, pp. 206–214
Un preside ha invitato gli studenti a rileggersi le pagine manzoniane sulla peste a Milano e questo mi ricorda i classici temi del liceo (la peste in Tucidide, in Lucrezio, nel Decamerone e nei Promessi Sposi, col primato manzoniano nell’umanità delle descrizioni) ma anche letture meno scolastiche, non tanto The Journal of Plague Year di Daniel Defoe (1722) o La Peste di Camus (1947), quanto piuttosto L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez (1985), dove l’epidemia ostacola ma non scoraggia affatto chi ama la vita. Già, perché l’epidemia scatena l’angoscia di massa (basta vedere ora i supermercati presi d’assalto come in guerra o la diffidenza dei passeggeri in metropolitana), ma anche frenetiche reazioni vitali: ogni giorno in mail o whatsapp mi arrivano scherzi, barzellette e vignette sul coronavirus, che subito ritrasmetto in modo virale (!) agli amici. Questo almeno compensa i frequenti consigli di chi ti suggerisce di lavarti spesso le mani, di non tossire in faccia agli altri, di sanificare water e lavandini, cioè quello che una persona civile dovrebbe comunque fare ogni giorno senza aspettare un’infezione. L’epidemia diventa sempre una metafora: ora castigo divino, ora segno di malessere o degenerazione politica, ora prova del complotto internazionale o dei cambiamenti climatici. Una letteratura che va dalla Bibbia a Manzoni, da Thomas Mann ad Albert Camus fino a Saramago, ma non disdegna inverosimili rivelazioni del Mossad (che non rilascia mai dichiarazioni, ndr.) o profezie apocalittiche. Ma gli antichi erano in parte giustificati: privi di microscopio e di antibiotici, non avevano idee migliori che relegare in isole lazzaretto le navi provenienti dall’Oriente o le carovane con cui viaggiavano insieme uomini, merci, animali, virus e batteri. Soprattutto gli intellettuali francesi – alludo ai Nouveaux Philosophes degli anni ’70 del secolo scorso – hanno scritto colti volumi sulla strategia dell’isolamento e della reclusione ed esclusione del malato infetto, sia esso appestato o psichiatrico, ma i pragmatici Veneziani di cinque secoli fa certi problemi non se li ponevano proprio e quindi provvedevano a isolare – esattamente – gli infetti. Ricordo anni fa di aver trovato un teschio scavando in un campeggio nell’isola di Osljak (in veneziano: Calugerà) davanti Zara, in Dalmazia. L’isola naturalmente si chiamava anche Lazaret. Le navi di un tempo viaggiavano comunque lente e così le carovane, quindi le epidemie non si spargevano rapidamente come ora, dove bastano un aereo o una nave da crociera per creare il panico mondiale. Ne La morte a Venezia di Thomas Mann l’impiegato inglese dell’agenzia di viaggio spiega al prof. Aschenbach il lento itinerario del colera di cui nessuno deve parlare: alla fine dalla Turchia è arrivato a Venezia, dopo aver fatto per anni il giro di altri porti. Quell’epidemia non se l’era inventata Thomas Mann, ma si è saputo dopo: la censura sull’informazione era stretta, tant’è vero che pochi sanno che l’epidemia di febbre spagnola del 1918 fu introdotta in Europa dai soldati americani inviati in Francia contro i Tedeschi. La chiamiamo universalmente “spagnola” perché la Spagna era un paese neutrale e quindi solo i giornali iberici ne parlavano senza censura militare. In realtà il focolaio si era sviluppato tra le reclute del Kansas che lavoravano negli allevamenti dei maiali e si sparse in Francia fra la truppa ammassata nelle retrovie del fronte occidentale. Il tentativo di dar la colpa agli operai cinesi non regge: erano stanziati lontano, sulla costa californiana (1). Ma come sempre, il Male lo porta sempre lo Straniero. L’epidemia fece 100 milioni di morti, di cui 20 solo in Europa, più dei 17 milioni di soldati caduti al fronte, anche se bisogna mettere in conto una popolazione indebolita da quattro anni di guerra e dalla mancanza di antibiotici, inventati e diffusi vent’anni più tardi. Ma la memoria della spagnola si è spenta con i nostri nonni, i veri sopravvissuti a tutto quanto può essere accaduto nel Secolo Breve.
Naturalmente
nel momento della disgrazia collettiva saltano fuori il meglio e il peggio del Genius Loci. I Cinesi hanno dimostrato
ancora una volta una grande organizzazione collettiva, ma anche la differenza
tra un ordine che parte dall’alto e una comunicazione che dalla periferia deve
raggiungere il centro. Noi italiani abbiamo finora scoperto che la frettolosa e
sgangherata riforma del Titolo quinto della Costituzione ha portato allo
scoordinamento totale tra Stato e poteri locali. Voluta qualche anno fa per
contrastare il federalismo e il pericolo della secessione, ha precluso al
Ministero della Salute la possibilità di imporre standard sanitari coerenti su
tutto il territorio nazionale. Ma neanche l’Europa brilla per capacità
organizzativa: non si è stabilito un protocollo comune per stabilire il grado
di contagio; si permette ai singoli stati di decidere chi entra e chi esce,
senza neanche avvertire i viaggiatori e le ambasciate. E se da noi abbiamo
scoperto tanti casi, è anche perché abbiamo fatto un controllo con 10.000
tamponi invece dei 1000 come in Germania. Ma anche la chiusura dei voli con la
Cina è stato un atto unilaterale italiano e forse anche dannoso: chi voleva
entrare da noi magari ha fatto scalo a Monaco e poi ha preso un Flixbus,
eludendo i controlli e diventando il Paziente 1 (una volta si diceva Untore).
Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ancora non ha deciso se è pandemia
o no.
Nel
frattempo è sparita l’Amuchina, insieme ai partiti politici in continua lite
fra di loro. Forse per senso civico, ma anche perché il Coronavirus ha – come
direbbero i pubblicitari – vampirizzato
la comunicazione, complice anche una tv che mobilita un esercito di esperti –
virologi, ospedalieri, volontari, ricercatori a tempo pieno. Momenti di Gloria.
Nel frattempo finalmente anche in Italia si scopre lo smart working, lavoro agile, quello che anni fa si chiamava
telelavoro ma non poteva ancora valersi delle linee veloci, di whatsapp e della
logistica in stile Amazon. Ma ci voleva la Peste Nera per modernizzare
l’Italia?
E
sempre a proposito della Peste, mi piace essere originale e di parlare di un
libro tradotto solo nel 1940 da Elio Vittorini e di cui ho fatto cenno
all’inizio: A Journal of the
Plague Year (Diario dell’anno della
peste o La peste di Londra ) pubblicato
nel 1722 anonimo, ma riferito all’epidemia che falciò la popolazione di Londra
nel 1665. Presentato come cronaca autografa di un testimone oculare dell’epidemia
e integrato da documenti originali, era stato in realtà scritto da Daniel
Defoe, l’autore di Robinson Crusoe, pubblicato anch’esso come reale
autobiografia. Fake news? No, il nostro autore sapeva far bene il suo
mestiere di scrittore e pioniere del giornalismo. La critica italiana
preferisce naturalmente Manzoni: «Nel libro di Defoe c’è meno arte, meno maestria, meno meditazione e più
peste» , scrive Vittorini. Sarà, ma io provo una profonda ammirazione per i
grandi falsari, e Daniel Defoe lo era (2). Alieno da sentimentalismi e
sovrastrutture morali, ha confezionato una vivida e accurata cronaca fingendosi
testimone oculare.
Tutti gli altri scrittori hanno esteso invece
la descrizione dell’epidemia proiettandola in una dimensione morale, metafisica.
Lucrezio nel sesto e ultimo libro del De
rerum natura descrive la peste di Atene del 430 a.C. sulla scia di Tucidide
(3), il quale notava la destrutturazione morale della società colpita dal
morbo, il che non sfugge neanche a Boccaccio nel Decamerone. Se gli dèi non ti proteggono, l’etica non paga. Ma è
proprio Lucrezio a suggerire che l’epidemia è un fenomeno naturale e gli dèi
poco c’entrano: proprio i santuari sono pieni di cadaveri e la malattia non
distingue tra buoni e cattivi. Sarà piuttosto Manzoni ad affidare alla peste il
compito di punire Don Rodrigo e il Griso, anche se sapremo solo dopo anche della
morte di Fra’ Cristoforo nel Lazzaretto, dove prestava aiuto agli altri. Epidemia
invece tutta laica, decadente e tardo romantica ne La Morte a Venezia di Thomas Mann (1912), libro noto anche per
l’interpretazione cinematografica di Luchino Visconti (1971). Peste che Albert
Camus interpreta invece come metafora del Nazismo, anche se la dinamica resta
la stessa: all’inizio si sottovaluta il contagio, poi non si deve creare
allarmismo e in questo modo la situazione peggiora; quindi si ordina un rigido cordone
sanitario attorno alla città e si studia il vaccino. Qui siamo a Orano, in
Algeria, forse nel 1940 o comunque sotto il governo di Vichy (1940-44), e a
descrivere tutto è un medico. La trama è abbastanza nota, quindi non la
riassumo, come nota è la morale: bisogna vigilare perché solo la prevenzione
può evitare il ritorno del flagello. Ma che si parli di Nazismo è solo
sottinteso, visto che i topi neri che hanno invaso Orano non portano incisa la
svastica. In fondo, il romanzo di Camus potrebbe essere reinterpretato di
continuo, come certe opere di Brecht.
Mi piace però terminare questo excursus con Cecità di José Saramago (1995). Questa improvvisa cecità che si espande a macchia d’olio fra gli abitanti di una città non definita è inspiegabile, come non si capisce il motivo per cui nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio come all’inizio della vicenda era sopraggiunta improvvisa l’epidemia. Nel libro non manca niente: la sofferenza collettiva, i morti per le strade, una protagonista immune dal contagio, la strategia della reclusione dei malati, il crollo della morale e l’affermarsi della legge del più forte. E’ un romanzo complesso e va letto per intero, ma ha una precisa chiave di lettura, espressa da uno dei personaggi, più precisamente la moglie del medico: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono». E’ quindi un j’accuse all’indifferenza, il nuovo male del secolo.
****************************
NOTE
Laura
Spinney, 1918. L’influenza spagnola.
L’epidemia che cambiò il mondo. Trad. di Anita Taroni, Stefano Travagli.
Nodi editore, 2018. Prezzo: 20 euro, 7.99 ebook
Defoe
è considerato il padre del moderno romanzo, ma è stato anche un giornalista, e
il suo stile realistico lo dimostra. Tutte le sue opere narrative (Robinson Crusoe, Capitan Singleton,
Memorie di un Cavaliere, Moll Flanders, Lady Roxana) si presentano come
autobiografiche e lasciano poco spazio al sentimentalismo che avrebbe imperato
dopo.
I
confini sono una creazione moderna: nei tempi antichi il Limes era presidiato, ma in maniera meno burocratica di adesso.
Indicava piuttosto la fine del territorio dove era esercitato il potere dello
Stato, magari lì affidato ai legionari con famiglia o delegato alle comunità
locali romanizzate. Al di là del Limes
non c’era il contatto immediato con un altro impero, ma piuttosto un continuo
attrito di frontiera in vaste aree incolte ancora prive di governo o abitate da
nomadi. Nel lessico romano dopo l’ager venivano il campus e infine la silva,
ovvero: campi coltivati, terreni forse colonizzabili e zone selvagge. Anche se
in ampie aree del pianeta il controllo statuale è spesso solo formale per
mancanza di strutture o semplicemente di popolazione, oggi una zona senza stato
è solo la conseguenza di un collasso politico (come in Libia), il concetto di
confine essendo organico allo stato nazionale. Almeno in Europa i confini sono
diciamo razionali: le Alpi dividono le popolazioni italiane da quelle francesi,
tedesche e slave; i Pirenei sono lo spartiacque tra francesi e spagnoli, mentre
i lunghi fiumi del Nord fissano i confini nel senso dei meridiani: il Reno spartisce
francesi e tedeschi, l’Oder fissa la frontiera tra tedeschi e polacchi, dopo la
Narva ai baltici subentrano i russi. Ovviamente esistono sempre minoranze stanziate
dalla parte sbagliata, ma è solo la Guerra Fredda ad aver fissato per più di
quarant’anni confini presidiati quanto artificiali; altrimenti c’è sempre una
logica, a meno che uno stato non decida di spostare popolazioni allogene da
un’altra parte, come fecero i Turchi Ottomani nei Balcani o nel Baltico i
Sovietici. Ma in quel caso possiamo parlare di movimenti metanastatici, ovvero
spostamenti demografici interni agli imperi. I friulani iniziarono a emigrare
quando la fine dell’Impero austro-ungarico impedì loro di lavorare a stagione
in Polonia come facevano da sempre. E a scatenare la seconda Guerra Mondiale
furono anche le nuove frontiere decise dai vincitori della prima, e non a caso
gli Americani nel 1945 impedirono agli alleati altre annessioni territoriali,
mentre per i sovietici e gli jugoslavi il discorso fu ben diverso: ai polacchi
fu tolto una parte di territorio a est, compensato da una parte della Prussia
orientale, mentre la Jugoslavia di Tito oltre l’Istria stava per annettersi Trieste ma almeno in
quello fu fermata da Churchill. Oggi il confine è aperto, ma per anni al porto
mancava il naturale entroterra commerciale proprio per la rigidità dei confini.
Ma
ora andiamo ora in Africa. I giornali dicono che gruppi terroristici si muovono
tra Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad, sconfinando magari in Libia o in
Mauritania. Ebbene, invito tutti ad aprire un atlante De Agostini o Google
Maps: i confini tra quegli stati africani sono tirati con riga e compasso,
uniscono zone quasi a casaccio, fanno convivere etnie diverse o le dividono
dall’etnia omologa. Disegnate sulla carta ma non sul terreno, quelle frontiere non
sono presidiate se non da rade pattuglie del deserto, né hanno senso per gli
allevatori nomadi Tuareg e Tebu. Neanche ho idea di come accorgersi di aver
sconfinato, visto che non ci sono posti di dogana o reticolati. Eredità
coloniale, ma drammaticamente presa sul serio dai giovani stati africani, che
hanno accettato senza mai discutere le vecchie linee di confine a suo
tempo disegnate dai diplomatici europei su
carte geografiche magari anche imprecise. In maniera non meno drammatica,
l’Impero Ottomano fu smembrato dopo la prima Guerra Mondiale. L’accordo segreto
anglo-francese Sykes-Picot (1916), anche se è durato 100 anni, si è inventato
l’Iraq, il Libano e la Siria, più la Palestina affidata agli Inglesi, con i
risultati che sappiamo. Ma se i confini tra Iraq e Iran sono soltanto
convenzionali e seguono in gran parte l’Eufrate, dalla parte del Tigri la
situazione non è lineare. In ogni caso i grandi fiumi – Danubio, Volga, Tigri
ed Eufrate – spesso non dividono ma uniscono, specie se navigabili.
Sia
chiaro che i confini hanno comunque un senso: quando ho fatto il militare a
Trieste negli anni Settanta del secolo scorso ho capito a che serve un confine
e perché va difeso, concetto oggi dilavato e ambiguo, vista l’ondivaga politica
estera italiana. Ma che senso ha difendere con muri e reticolati Ceuta e
Melilla, due antieconomiche exclave spagnole (cioè formalmente europee) in Marocco?
Difenderle dagli africani, quando sono Africa? Nel 2020 non dovrebbero
semplicemente esistere.
Morale?
Le frontiere dovrebbero deciderle direttamente le popolazioni. Spagnoli e
portoghesi si ignorano e la linea di confine è la stessa da mille anni. Noi
italiani abbiamo la fortuna di avere le Alpi, che sono confini naturali come i
Pirenei. Ma erigere muri non serve (l’ultimo è la Brexit), o almeno è
antieconomico. L’idea può non piacere, ma è la realtà. Quando poi le Nazioni
Unite stabiliranno che ognuno può andare dove gli pare senza dare spiegazioni,
allora sarà realmente una nuova era.
Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti