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CinemaVirus

In questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus, ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti (1971) o ancora de L’amore ai tempi del colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla TerraThe Omega Man, che ha visto ben tre adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard Matheson col titolo Io sono leggenda (1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato George Romero: La città verrà distrutta all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam (1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni dopo esce Il Quinto Elemento di Luc Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico. Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle, dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh, vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…

Cosa resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo meno schematico. In Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del dopoguerra: Una lettera per Tezuò. Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa convincermi a cambiare idea sui vaccini.

Mi piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982, ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.

Lontano dal Paradiso

Mi rendo conto che parlare di un trasloco è qualcosa che trascende la logistica: in questo caso era in gioco la ridefinizione di un’identità costruita nell’arco di mezzo secolo. Sia chiaro: la casa l’hanno voluta vendere i miei fratelli, ma due contro uno ho accettato la loro scelta, giustificata anche dal futuro dei loro quattro figli all’università. Ma anche se da oltre dieci anni non abitavo più fisicamente a via del Paradiso, ho continuato a sentirmi legato alla casa dove sono entrato all’età di 15 anni (era il 1965) e che ora lascio esattamente come l’ho trovata il primo giorno: enorme, vuota e malmessa. L’impianto elettrico è quello originale – cioè da incubo – e spostando i mobili è rivenuta fuori la squallida e sbiadita carta da parati con cui i vecchi inquilini tappezzavano le pareti. L’enorme spazio nel corso degli anni era divenuto saturo di oggetti e ogni oggetto parlava, aveva una storia da raccontare. Gli album delle foto di famiglia narrano di feste, di rituali familiari, di vita quotidiana e registrano qualsiasi avvenimento degno di memoria. Lo studio di mio padre non era stato toccato dal giorno della sua morte (2003), al punto che mancava solo lui, quotidianamente intento a dipingere all’acquerello le stampe del negozio o a classificare foto e negativi o sentire un disco jazz. La discoteca di papà l’ha presa per intero mio fratello Fabio, compresi i rari V-Disc dei soldati americani. Più problematica la sorte di altre cose riesumate da armadi e ripostigli: giocattoli, quaderni di scuola, riviste ingiallite; praticamente di tutto e di più. Per fortuna tutti i vestiti erano stati dati per tempo alla parrocchia, comprese due pellicce – una di visone, l’altra di astrakan ora invendibili. Quello che non abbiamo diviso tra fratelli lo abbiamo venduto o svenduto, regalato, buttato, smontato. Il resto è finito nelle nostre case o in un paio di box che abbiamo dovuto prendere in affitto per qualche mese in attesa di idee migliori. Casa di Gloria era grande, 145 mq, mentre le nostre sono piccole e bisogna per forza adattarsi. In più, la vita matrimoniale mantiene sempre un filtro per gli oggetti provenienti dall’esterno, peggio ancora se antiquati e voluminosi.

Quando siamo venuti a Campo de’ Fiori il quartiere era molto diverso.  Tanto per cominciare, non era zona di ricchi e c’erano ancora sacche di reale povertà. Nei palazzi le diverse classi sociali condividevano piani e spazi diversi, ma erano relativamente distribuite. Ci siamo trasferiti da via Tirso – quartiere borghese Salario – non per snob, ma perché le case costavano poco e in quel momento l’azienda di nonno era in rapido declino, invecchiata col padrone. Nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso la borghesia abbandonava il centro per espandersi verso l’esterno – Vigna Clara, Casal Palocco – in cerca di case con ascensore, riscaldamento e posto macchina, mentre gli stanzoni del centro storico non li voleva più nessuno e venivano ripopolati da stranieri e famiglie meno ricche, a cui si sommavano le varie ondate di giovani alternativi e gli stranieri con la valuta forte. Per noi era diverso: i Pasquali sono romani dal 1860 e i miei genitori erano nati e vissuti da giovani tra piazza Navona e Corso Vittorio, dove ancora erano in vita alcuni parenti. Io invece ricordo il senso di spaesamento quando mi sono trovato dentro questa casa ancora vuota, enorme e fredda. Leggevamo i sonetti del Belli e di Trilussa ma non parlavamo in romanesco, mentre all’epoca la calata del Campo ancora si distingueva da quella più cupa  di Trastevere. Avevo lasciato una casa stupenda, vicino a villa Borghese, andavo al liceo Tasso e tutti i miei compagni di scuola abitavano in quel quadrante. Avrei potuto continuare al Visconti e forse sarebbe stato meglio: più vicino, meno claustrale e altrettanto buono ma meno formale del Tasso. L’aveva frequentato mia madre e in seguito l’avrebbero frequentato anche mio fratello e sua figlia. Ora mi trovato in una zona che neanche conoscevo e dove per anni non avrei avuto mai un amico, visti anche i giri di droga che iniziavano a ronzare sulla piazza. Gli spacciatori noi ce li avevamo pure dentro il palazzo e ricordo le siringhe vicino alle fontanelle del mercato e le autoradio rubate nascoste negli armadietti dei contatori del gas. Ormai quegli sciagurati sono tutti morti di eroina o di epatite, ma all’epoca erano un problema di ordine pubblico.

Quando son partito militare ho portato con me solo pochi oggetti per l’igiene personale. Chi ha condiviso la naja lo sa, dentro l’armadietto di metallo doveva entrarci tutto: divise, cappotto, anfibi, abiti civili e quant’altro: radiolina, libri e riviste, rasoio, spazzolino, quaderno di appunti, più quello che ti mandavano da casa. Ancora mi chiedo come facesse a entrarci tutto; eppure in questo modo io e i miei camerati siamo sopravvissuti un anno e mezzo. Ora lo spazio non mi basta mai e in fondo rimpiango quel periodo: mi piace sempre dire che la mia casa ideale è una branda in caserma. Ed è vero.

Questo ci porta a parlare di un altro argomento: cosa ci serve veramente e perché accumuliamo tanti oggetti, salvo poi in seguito buttarli per far spazio? Io non sono definibile come accumulatore seriale, sono piuttosto un collezionista archivista, figlio di un antiquario e preparato a farlo dalla stessa professione che ho svolto per 40 anni: archivista e bibliotecario. Da mio padre antiquario ho anche imparato a distinguere e conservare quanto acquisterà valore nel tempo e scartare tutto il resto. La maggior parte della gente e delle associazioni culturali invece accumula senza un metodo, non classifica e non ordina, e al momento di dover traslocare o far spazio butta via tutto senza un criterio. Forma intermedia: vengono ospiti a cena e per non far brutta figura tua moglie infila di corsa tutto dentro gli armadi. Risultato: per una settimana non trovi più niente, visto che alla rinfusa son finiti dentro anche documenti, capi di vestiario, oggetti d’uso quotidiano. Ma sul motivo di tanto accumulo, penso che entrino in ballo non solo i desideri indotti dal mercato, le mode che cambiano di continuo o il lascito di vecchie zie, ma ben altro: io lo ritengo un sintomo depressivo; si accumulano oggetti materiali per compensare qualcos’altro, e poco importa che i film scaricati dalla rete o migliaia di file in mp4 occupino meno spazio di una penna o di un accendino: è il principio quello che conta.

Nel caso di quanto era a via del Paradiso, ho detto spesso che ogni oggetto voleva raccontarmi una storia, e presto stilerò un lessico con almeno gli oggetti dalla  storia più significativa. E’ il procedimento letterario usato da Heinrich Boll in Foto di gruppo con signora (1971), ben altro dai versi dell’Iliade dove sono elencati tutti i capitani e i reparti in forza ad Agamennone (libro II, versi 494-759). O diversamente dalle Etymologiae di Isidoro da Siviglia (m. 636 d.C.), vera e propria enciclopedia che classifica e spiega ogni singolo ramo del sapere partendo appunto dall’etimologia della parola che lo definisce. Isidoro riuscì in questo modo a recuperare e organizzare l’eredità del mondo classico, in modo da trasmetterne la cultura al medioevo che iniziava. Più recentemente, ricordo il film di Peter Greenaway, Prospero’s books (L’ultima Tempesta, 1991), dove i 24 libri del sapere umano vengono animati da oggetti, video e altro. Anche qui viene marcato il passaggio da un’epoca all’altra, cercando di strutturarne l’eredità. Anch’io farò in modo che da un singolo oggetto si ricostruisca una cultura che ora non c’è più.

Ma se parliamo di cultura, ribadisco i motivi del mio attaccamento alla posizione centrale: hai tutto a portata di mano; teatri, cinema, concerti, pub, archivi, biblioteche, accademie. La zona dove abito ora ha più abitanti di Trieste ma neanche un teatro o un cinema; qualsiasi cosa vuoi fare, devi prendere la macchina. Ero abituato ad andare al cinema Farnese o all’Augustus quando volevo, a far tardi al teatro Valle o Argentina, a sentire un concerto in una delle tante chiese, a chiacchierare al Campo davanti a un aperitivo preso con gli amici o a sfogliare un libro da Fahrenheit 451 la sera tardi, o a vedere un film ungherese con sottotitoli all’Accademia di Ungheria a via Giulia. O semplicemente a recarmi ogni giorno in ufficio in Campidoglio facendo una passeggiata di quindici minuti invece che guidare per 13 km di traffico e 27 semafori. Il centro lo paghi, ma risparmi sulla benzina e sullo stress da traffico, sempre che trovi parcheggio. L’unica cosa che trovi invece in periferia sono il verde e tanti artigiani, specie umana ormai da anni estinta dal centro. Anche questa è ormai storia.

Non mi faccio illusioni: tornerò in quel palazzo solo per prendere la posta residua. Non suonerò ogni tanto ai vicini per far due chiacchiere, né incontrerò per le scale Fabio Sargentini, il gallerista de L’Attico, che nel palazzo ne ha mostrate di cotte e di crude. Ma anche se passassi ogni giorno a via del Paradiso guarderei verso l’alto e poi andrei oltre. Mantengo come ultima immagine il panorama dalla mia finestra, che qui vedete. Non è retorica, ma nostalgia. Ho dovuto alla fine cambiare residenza e restituire il permesso ZTL, che avevo mantenuto per poter assistere mia madre. In realtà la residenza a via del Paradiso era ormai una finzione giuridica, ma per me era anche una questione di principio: da quando mi sono sposato abito in un bel quartiere periferico con tanto verde, ma privo di quanto serve alla mia anima. Ho rivendicato per anni la mia identità di romano del Centro, anche se abbiamo visto che la storia va raccontata per intero. La parte l’ho recitata per benino a tutti e per anni, ma quando sono arrivato a via del Paradiso ero una sorta di profugo istriano esattamente come adesso. E come i profughi istriani, mi son portato dietro l’insegna della bottega storica che abbiamo chiuso dopo più di mezzo secolo, quando mia madre aveva ormai 90 anni e io non potevo prenderne la gestione perché ancora in servizio in Campidoglio.

Già, mia madre. Fino all’ultimo si è fatta tre piani di scale e l’ascensore resta tuttora il tormentone del condominio. Non mi va di entrare in polemica visto che ormai il problema non mi riguarda, ma avrei voluto che almeno mia madre potesse fare a meno di quei 78 gradini. Mia madre ha comunque chiuso la bottega storica all’età di 90 anni, che abbiamo festeggiato alla grande al Circolo Ufficiali. Purtroppo negli anni si era appesantita e non era sempre facilmente gestibile, ma l’abbiamo accudita fino alla fine. Anche Cristina le ha voluto bene e si è spesso sacrificata per lei, mentre io distraevo energie dal nostro matrimonio. Mia madre era un personaggio; difficile dimenticare le sue battute, i suoi capricci, le sue espressioni. Sicuramente era una donna diversa dalle altre, nel bene e nel male. Su mia madre potrei realmente scrivere un libro, anche se non è facile: significa anche parlare di me stesso, vista la continua interazione con lei per via della gestione del negozio e di quel rapporto di dipendenza che s’instaura con le persone anziane e sole. Mia madre negli ultimi tempi soffriva anche di solitudine: i suoi amici erano defunti o non potevano fare le scale, la sua vita sociale era legata soprattutto al negozio e alla quotidiana vita di strada, dove era servita e riverita e s’intratteneva anche con giornalisti e studiosi. A casa invece riceveva poche telefonate, ma ancor meno ne faceva. Leggeva molto, scriveva anche poesie in romanesco. Naturalmente vedeva per ore la televisione, ma per noia, e non posso darle torto. E fumava. In quello era come mia zia, la sorella maggiore morta a 93 anni e da sempre fumatrice. La prima generazione delle donne lavoratrici faceva tutt’uno con le sigarette e tenevo sempre un pacchetto di riserva per evitare di rifare le scale un’altra volta, anche se ormai gambe e polmoni erano ben abituati a farle più volte al giorno.

Un’altra caratteristica di casa nostra: sempre aperta a tutti. I compagni di scuola che suonavano dai Pasquali potevano sempre salire senza pensare di aver disturbato; le feste di carnevale permettevano persino l’uso dei coriandoli e non si contava il numero degli imbucati. Qualche volta le feste debordavano sul pianerottolo e se la battevano con quelle organizzate da Fabiana al piano di sopra. Nulla nasce da nulla: negli album di famiglia si vedono le feste a tema organizzate da mio nonno tra le due guerre (in quella del 1935 tutti sono mascherati da abissini!), se ne deduce che godersi la vita insieme agli altri è una tradizione di famiglia. Mio nonno, grosso commerciante, organizzava spesso il Mercante in fiera e naturalmente era il banditore. Papà e mamma avevano un debole per le cene gastronomiche, dove ognuno portava un piatto preparato da sé. Abbiamo una serie di foto dove si vede di tutto: ecclesiastici italiani e stranieri, amici di famiglia, compagni di scuola, commilitoni di caserma, famiglie con bambini. Non solo: quando mia sorella Susanna doveva preparare l’esame di architettura detto di composizione, era un turnover di studenti che si alternavano per disegnare di continuo tavole su tavole (all’epoca non c’era la computer grafica). Camera di Susanna era piccola e da solo il tavolo da disegno occupava un terzo dello spazio, quindi io e Fabio prestavamo anche le camere nostre. Una festa di compleanno di Fabio rimase storica: più di 80 o forse 100 invitati, al punto che si temeva per i solai. E poi le famose proiezioni: papà faceva un film per ogni viaggio che una volta all’anno faceva con mia madre. Essendo stato un semiprofessionista del cinema, i film erano medio metraggi ben fatti, ben al di sopra dei filmetti in superotto della prima comunione che dovevamo sorbirci altrove. Seguiva sempre un ricevimento dove non ci siamo mai fatti guardare dietro neanche quando non avevamo una lira. Questo è stile.

Quella casa ha visto anche i nostri primi amori. Non avendo figli, poco so dei giovani d’oggi, ma è evidente che crescono in un ambiente familiare e sociale molto diverso dal nostro – parlo per me e per i miei fratelli e sorelle. Le ragazze erano normali ma poco sveglie e soprattutto molto controllate dalle famiglie, mentre noi maschi eravamo spesso imbranati e sul sesso e l’amore c’erano meno informazioni di adesso. Morale: Fabio mio fratello ogni tanto mi chiedeva di andare a studiare in biblioteca, visto che lui con le ragazze ci sapeva fare, mentre la prima volta che mi sono portato in casa una ragazza – quanti anni avevo meglio non dirlo, altro che rapporti precoci – ho rischiato di farmi scoprire perché nel frattempo mia madre tornava dal negozio. Nascosi la mia giovane amante da qualche parte, poi la feci uscire, nonostante ancora mezza nuda insistesse per conoscere la potenziale suocera, la quale seppe tutto il giorno dopo dalla portiera. Già, perché avevamo pure la portiera, dove oggi un senatore ci ha messo lo studio privato. Ma la regola imposta da mio padre era: le donne non ce le porto io, quindi non dovete farlo manco voi. Principio discutibile, visto che una donna comunque lui ce l’aveva, ma con mio padre non si scherzava. Oggi i miei nipoti ascolterebbero questi racconti come una cronaca d’altri tempi, come in effetti è. Ma se penso che nelle feste di liceo del sabato pomeriggio non era affatto rara la presenza delle madri e zie delle ragazze che ci avevano invitato, qualche volta mi viene da ridere: visto col metro di oggi, il nostro era un mondo omerico.

Anche il letto dove ho vissuto i miei non molti amori non esiste più: l’ho smontato e buttato. Qualcosa però a casa vecchia è rimasto: qualche quadro per arredo, la grande stampa panoramica di Roma che ornava continuerà a ornare la parete del salotto (venduta al nuovo proprietario) e quel pianoforte inglese che mio padre suonava nel tempo libero. Non lo volevamo portar via perché scordato e tutto sommato di media qualità. Mia suocera a casa di pianoforti ne ha due, uno meglio dell’altro perché era pianista, quindi non aveva senso averne un altro. In più, il trasporto dei pianoforti è gestito da poche, costose ditte specializzate. Quando il nuovo padrone di casa ha chiesto di tenerlo per arredo, non ce lo siamo fatti dire due volte.

Quanto al nuovo proprietario, è l’ennesimo esempio di come si distrugge il centro storico. Una sinistra ossessionata dalle piste ciclabili ma incapace di elaborare un piano per il commercio nel Centro, più una giunta di dilettanti allo sbaraglio hanno sottovalutato se non ignorato un fenomeno che sta modificando le città d’arte: il sovra turismo, overtourism in inglese. L’affitto breve ai viaggiatori low-cost è l’affare del momento. Tenete duro, se siete ancora abitanti del centro, anche se ogni giorno vedrete per le scale gente diversa che parla altre lingue e lascia solo mondezza, o se per strada sentite il rumore continuo e ossessivo dei trolley che scorrono sui sampietrini, erede dei carri che disturbavano il sonno del poeta latino Orazio. I negozi di zona – sempre più kitsch e omologati sul modulo cinese e pakistano – si sono adeguati a questi nuovi nomadi, grazie anche alla totale disattenzione o corruzione dei politici. Anche il mercato di Campo di Fiori si è adeguato al turismo e si vede: un altro segno dei tempi. Ma il Campo era già da tempo divenuto almeno di sera un luna park per alcolisti italiani e stranieri e i titolari dei banchi preferivano trasferire la licenza ad altri mercati rionali. Questo anche per un motivo poco noto: la speculazione sui magazzini attorno alla piazza, diventati pub, ha reso troppo costosa la loro gestione come depositi di mercato. Il turismo ha fatto il resto, visto anche il progressivo spopolamento della zona.

Detto questo, la mia non è una lettera di addio. Sicuramente niente sarà più come prima, ma la vita continua.

Il tempo sospeso

Ieri è morto Max von Sydow, l’indimenticabile cavaliere che nel Settimo Sigillo di Ingmar Bergman (1957), proprio durante un’epidemia di peste, gioca una lunga partita a scacchi con la Morte. Parlare della peste finora mi ricordava solo certi temi di liceo (la peste in Tucidide, in Lucrezio, nel Decamerone e nei Promessi Sposi, col primato manzoniano nell’umanità delle descrizioni), ma di mio ci metto anche letture meno scolastiche, non tanto The Journal of Plague Year di Daniel Defoe (1722) o La Peste di Camus (1947), quanto piuttosto L’amore ai tempi del colera di Jorge Amado (1985), dove l’epidemia ostacola ma non scoraggia affatto chi ama la vita. Già, perché l’epidemia scatena l’angoscia di massa (basta vedere i supermercati presi d’assalto come in guerra o la diffidenza sui mezzi pubblici), ma anche frenetiche reazioni vitali: ogni giorno su whatsapp mi arrivano scherzi e barzellette sul coronavirus, che subito ritrasmetto in modo virale (!) agli amici. Questo almeno compensa il clima di coprifuoco e i quotidiani consigli: lavarsi spesso le mani, non tossire in faccia agli altri, sanificare water e lavandini, cioè quello che una persona civile dovrebbe comunque fare ogni giorno senza aspettare un’infezione. L’epidemia diventa sempre una metafora: ora castigo divino, ora segno di malessere o degenerazione politica, ora prova del complotto internazionale o dei cambiamenti climatici. Una letteratura che va dalla Bibbia a Manzoni, da Thomas Mann ad Albert Camus fino a Saramago, ma non disdegna inverosimili rivelazioni del Mossad (che non rilascia mai dichiarazioni, ndr.) o profezie apocalittiche. Ma gli antichi erano in parte giustificati: privi di microscopio e di antibiotici, non avevano idee migliori che relegare in isole lazzaretto le navi provenienti dall’Oriente o le carovane con cui viaggiavano insieme uomini, merci, animali, virus e batteri. Soprattutto gli intellettuali francesi – penso ai Nouveaux Philosophes degli anni ’70 del secolo scorso – hanno scritto colti volumi sulla strategia dell’isolamento e della reclusione ed esclusione del malato infetto, sia esso appestato o psichiatrico, ma i pragmatici Veneziani di cinque secoli fa certi problemi non se li ponevano proprio e quindi provvedevano a isolare – esattamente – gli infetti. Ricordo anni fa di aver trovato un teschio scavando in un campeggio nell’isola di Osljak (in veneziano: Calugerà) davanti Zara, in Dalmazia. L’isola naturalmente si chiamava anche Lazaret. Le navi di un tempo viaggiavano comunque lente e così le carovane, quindi le epidemie non si spargevano rapidamente come ora, dove bastano un aereo o una nave da crociera per creare il panico mondiale. Ne La morte a Venezia di Thomas Mann l’impiegato inglese dell’agenzia di viaggio spiega al prof. Aschenbach il lento itinerario del colera di cui nessuno deve parlare: alla fine dalla Turchia è arrivato a Venezia, dopo aver fatto per anni il giro di altri porti. Quell’epidemia non se l’era inventata Thomas Mann, ma si è saputo dopo: la censura sull’informazione era stretta, tant’è vero che pochi sanno che l’epidemia di febbre spagnola del 1918 fu introdotta in Europa dai soldati americani inviati in Francia contro i Tedeschi. La chiamiamo universalmente “spagnola” perché la Spagna era un paese neutrale e quindi solo i giornali iberici ne parlavano senza censura militare. In realtà il focolaio si era sviluppato tra le reclute del Kansas che lavoravano negli allevamenti dei maiali e si sparse in Francia fra la truppa ammassata nelle retrovie del fronte occidentale. Il tentativo di dar la colpa agli operai cinesi non regge: erano stanziati lontano, sulla costa californiana (1). Ma come sempre, il Male lo porta sempre lo Straniero. L’epidemia fece 100 milioni di morti, di cui 20 solo in Europa, più dei 17 milioni di soldati caduti al fronte, anche se bisogna mettere in conto una popolazione indebolita da quattro anni di guerra e dalla mancanza di antibiotici, inventati e diffusi vent’anni più tardi. Ma la memoria della spagnola si è spenta con i nostri nonni, i veri sopravvissuti a tutto quanto può essere accaduto nel Secolo Breve.

Naturalmente nel momento della disgrazia collettiva saltano fuori il meglio e il peggio del Genius Loci. I Cinesi hanno dimostrato ancora una volta una grande organizzazione collettiva, ma anche la differenza tra un ordine che parte dall’alto e una comunicazione che parte dalla periferia per il centro. Noi italiani abbiamo finora scoperto che la frettolosa e sgangherata riforma del Titolo quinto della Costituzione ha portato allo scoordinamento totale tra Stato e poteri locali. Voluta qualche anno fa per contrastare il federalismo e il pericolo della secessione, ha precluso al Ministero della Salute la possibilità di imporre standard sanitari coerenti su tutto il territorio nazionale. Il balletto dei decreti ufficiali sembra poi allineato allo stile di Badoglio. Ma neanche l’Europa brilla per capacità organizzativa: non si è stabilito subito un protocollo comune per stabilire il grado di contagio; si permette ai singoli stati di decidere chi entra e chi esce, senza neanche avvertire i viaggiatori e le ambasciate. E se abbiamo scoperto tanti casi, è anche perché abbiamo fatto un controllo con 25.000 tamponi, dieci volte più che in Germania o Francia. Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ancora non ha deciso se è pandemia o no. Nel frattempo è sparita l’Amuchina, insieme ai partiti politici in continua lite fra di loro. Forse per senso civico, ma anche perché il Coronavirus ha – come direbbero i pubblicitari – vampirizzato la comunicazione, complice anche una tv che mobilita un esercito di esperti – virologi, ospedalieri, volontari, ricercatori a tempo pieno. Momenti di Gloria. Nel frattempo finalmente anche in Italia si scopre lo smart working, lavoro agile, quello che anni fa si chiamava telelavoro ma non poteva ancora valersi delle linee veloci, di whatsapp e della logistica in stile Amazon. Ma ci voleva la Peste Nera per modernizzare l’Italia?

E sempre a proposito della Peste, mi piace essere originale e di parlare di un libro tradotto solo nel 1940 da Elio Vittorini e di cui ho fatto cenno all’inizio: A Journal of the Plague Year (Diario dell’anno della peste o La peste di Londra ) pubblicato nel 1722 anonimo, ma riferito all’epidemia che falciò la popolazione di Londra nel 1665. Presentato come cronaca autografa di un testimone oculare dell’epidemia e integrato da documenti originali, era stato in realtà scritto da Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe, pubblicato anch’esso come reale autobiografia. Fake news? No, il nostro autore sapeva far bene il suo mestiere di scrittore e pioniere del giornalismo. La critica italiana preferisce naturalmente Manzoni: «Nel libro di Defoe c’è meno arte, meno maestria, meno meditazione e più peste» , scrive Vittorini. Io invece provo una profonda ammirazione per i grandi falsari, e Daniel Defoe lo era (2). Alieno da sentimentalismi e sovrastrutture morali, ha confezionato una vivida e accurata cronaca fingendosi testimone oculare.

Tutti gli altri scrittori hanno esteso invece la descrizione dell’epidemia proiettandola in una dimensione morale, metafisica. Lucrezio nel sesto e ultimo libro del De rerum natura descrive la peste di Atene del 430 a.C. sulla scia di Tucidide (3), il quale notava la destrutturazione morale della società colpita dal morbo, il che non sfugge neanche a Boccaccio nel Decamerone. Se gli dèi non ti proteggono, l’etica non paga. Ma è proprio Lucrezio a suggerire che l’epidemia è un fenomeno naturale e gli dèi poco c’entrano: proprio i santuari sono pieni di cadaveri e la malattia non distingue tra buoni e cattivi. Sarà piuttosto Manzoni ad affidare alla peste il compito di punire Don Rodrigo e il Griso, anche se sapremo solo dopo anche della morte di Fra’ Cristoforo nel Lazzaretto, dove prestava aiuto agli altri. Epidemia invece tutta laica, decadente e tardo romantica ne La Morte a Venezia di Thomas Mann (1912), libro noto anche per l’interpretazione cinematografica di Luchino Visconti (1971). Peste che Albert Camus interpreta invece come metafora del Nazismo, anche se la dinamica resta la stessa: all’inizio si sottovaluta il contagio, poi non si deve creare allarmismo e in questo modo la situazione peggiora; quindi si ordina un rigido cordone sanitario attorno alla città e si studia il vaccino. Qui siamo a Orano, in Algeria, forse nel 1940 o comunque sotto il governo di Vichy (1940-44), e a descrivere tutto è un medico. La trama è abbastanza nota, quindi non la riassumo, come nota è la morale: bisogna vigilare perché solo la prevenzione può evitare il ritorno del flagello. Ma che si parli di Nazismo è solo sottinteso, visto che i topi neri che hanno invaso Orano non portano incisa la svastica. In fondo, il romanzo di Camus potrebbe essere reinterpretato di continuo, come certe opere di Brecht.

Mi piace però terminare questo primo excursus con Cecità di José Saramago (1995). Questa improvvisa cecità che si espande a macchia d’olio fra gli abitanti di una città non definita è inspiegabile, come non si capisce il motivo per cui nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio come all’inizio della vicenda era sopraggiunta improvvisa l’epidemia. Nel libro non manca niente: la sofferenza collettiva, i morti per le strade, una protagonista immune dal contagio, la strategia della reclusione dei malati, il crollo della morale e l’affermarsi della legge del più forte. E’ un romanzo complesso e va letto per intero, ma ha una precisa chiave di lettura, espressa da uno dei personaggi, più precisamente la moglie del medico: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono». E’ quindi un j’accuse all’indifferenza, il nuovo male del secolo.

E passiamo al cinema. In questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del contagio, ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti (1971) o ancora de L’amore ai tempi del colera (2007). I soggetti originali per una rassegna di cinema “epidemico” sono infatti per la maggior parte film di fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. Con l’aiuto di Google, ecco un breve elenco: L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha visto ben tre adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard Matheson col titolo Io sono leggenda (1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato George Romero: La città verrà distrutta all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce gli Stati Uniti si finanzia la ricerca (più chiaro di così..) e parte la caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così produrre il vaccino. Cugini primati che rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam (1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willys) nel 1995, a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga il danno. Nel film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni dopo esce Il Quinto Elemento di Luc Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willys, stavolta nell’impresa di salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico. Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli umani proviene sempre da fuori.

Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle, dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su aggressivi scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh, vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano. Ma giusto ieri sera in tv c’era Weaponized (2016), di Timothy Woodward jr. , dove il virus è robotico, creato in laboratorio dal padre vendicativo di una vittima per terrorismo.

Cosa resta allora che non sia film di genere? Beh, ho citato

all’inizio Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman, dove siamo in piena epidemia di peste nera, e il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo meno schematico. In Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria due film che ci proiettarono alle elementari, quando esisteva ancora una figura professionale chiamata vigilatrice scolastica. Il primo era avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il siero contro la difterite. Non ricordo il titolo, ma ricordo questi treni di slitte che avanzano nella tormenta polare e ieri ho scoperto (con Google, lo ammetto) che Balto, uno dei leggendari husky siberiani della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento in bronzo al Central Park di New York, a perenne riconoscenza dei bambini. L’altro era un tetro film giapponese del dopoguerra: Una lettera per Tezuò. Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e ogni volta che penso a quel film giuro che ancora mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa convincermi a cambiare idea sui vaccini. Ricordo anche di quel padre che nella Budapest del dopoguerra è alla spasmodica ricerca della penicillina per salvare il figlio (El Dorado o A peso d’oro, 1989, regia di Géza Bereményi ). E visto che parliamo di cinema ungherese, mi piace concludere in modo indiretto con un film che di epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982, ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa significa il rallentamento della vita sociale dovuto a un traumatico evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.

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NOTE

1) Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo. Trad. di

Anita Taroni, Stefano Travagli. Nodi editore, 2018. Prezzo: 20 euro, 7.99 ebook

2) Defoe è considerato il padre del moderno romanzo, ma è stato anche un giornalista, e il suo stile realistico lo dimostra. Tutte le sue opere narrative (Robinson Crusoe, Capitan Singleton, Memorie di un Cavaliere, Moll Flanders, Lady Roxana) si presentano come autobiografiche e lasciano poco spazio al sentimentalismo che avrebbe imperato dopo.

3) Dai sintomi, gli specialisti hanno ipotizzato che si trattasse in realtà di tifo esantematico. Vedi: Manolis J. Papagrigorakis, Christos Yapijakis, Philippos N. Synodinos e Effie Baziotopoulou-Valavani, DNA examination of ancient dental pulp incriminates typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens, in International Journal of Infectious Diseases, vol. 10, nº 3, 2006, pp. 206–214

Quando la letterature è un Virale virus

Un preside ha invitato gli studenti a rileggersi le pagine manzoniane sulla peste a Milano e questo mi ricorda i classici temi del liceo (la peste in Tucidide, in Lucrezio, nel Decamerone e nei Promessi Sposi, col primato manzoniano nell’umanità delle descrizioni) ma anche letture meno scolastiche, non tanto The Journal of Plague Year di Daniel Defoe (1722) o La Peste di Camus (1947), quanto piuttosto L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez (1985), dove l’epidemia ostacola ma non scoraggia affatto chi ama la vita. Già, perché l’epidemia scatena l’angoscia di massa (basta vedere ora i supermercati presi d’assalto come in guerra o la diffidenza dei passeggeri in metropolitana), ma anche frenetiche reazioni vitali: ogni giorno in mail o whatsapp mi arrivano scherzi, barzellette e vignette sul coronavirus, che subito ritrasmetto in modo virale (!) agli amici. Questo almeno compensa i frequenti consigli di chi ti suggerisce di lavarti spesso le mani, di non tossire in faccia agli altri, di sanificare water e lavandini, cioè quello che una persona civile dovrebbe comunque fare ogni giorno senza aspettare un’infezione. L’epidemia diventa sempre una metafora: ora castigo divino, ora segno di malessere o degenerazione politica, ora prova del complotto internazionale o dei cambiamenti climatici. Una letteratura che va dalla Bibbia a Manzoni, da Thomas Mann ad Albert Camus fino a Saramago, ma non disdegna inverosimili rivelazioni del Mossad (che non rilascia mai dichiarazioni, ndr.) o profezie apocalittiche. Ma gli antichi erano in parte giustificati: privi di microscopio e di antibiotici, non avevano idee migliori che relegare in isole lazzaretto le navi provenienti dall’Oriente o le carovane con cui viaggiavano insieme uomini, merci, animali, virus e batteri. Soprattutto gli intellettuali francesi  – alludo ai Nouveaux Philosophes degli anni ’70 del secolo scorso – hanno scritto colti volumi sulla strategia dell’isolamento e della reclusione ed esclusione del malato infetto, sia esso appestato o psichiatrico, ma i pragmatici Veneziani di cinque secoli fa certi problemi non se li ponevano proprio e quindi provvedevano a isolare – esattamente – gli infetti. Ricordo anni fa di aver trovato un teschio scavando in un campeggio nell’isola di Osljak (in veneziano: Calugerà) davanti Zara, in Dalmazia. L’isola naturalmente si chiamava anche Lazaret. Le navi di un tempo viaggiavano comunque lente e così le carovane, quindi le epidemie non si spargevano rapidamente come ora, dove bastano un aereo o una nave da crociera per creare il panico mondiale. Ne La morte a Venezia di Thomas Mann l’impiegato inglese dell’agenzia di viaggio spiega al prof. Aschenbach il lento itinerario del colera di cui nessuno deve parlare: alla fine dalla Turchia è arrivato a Venezia, dopo aver fatto per anni il giro di altri porti. Quell’epidemia non se l’era inventata Thomas Mann, ma si è saputo dopo: la censura sull’informazione era stretta, tant’è vero che pochi sanno che l’epidemia di febbre spagnola del 1918 fu introdotta in Europa dai soldati americani inviati in Francia contro i Tedeschi. La chiamiamo universalmente “spagnola” perché la Spagna era un paese neutrale e quindi solo i giornali iberici ne parlavano senza censura militare. In realtà il focolaio si era sviluppato tra le reclute del Kansas che lavoravano negli allevamenti dei maiali e si sparse in Francia fra la truppa ammassata nelle retrovie del fronte occidentale. Il tentativo di dar la colpa agli operai cinesi non regge: erano stanziati lontano, sulla costa californiana (1). Ma come sempre, il Male lo porta sempre lo Straniero. L’epidemia fece 100 milioni di morti, di cui 20 solo in Europa, più dei 17 milioni di soldati caduti al fronte, anche se bisogna mettere in conto una popolazione indebolita da quattro anni di guerra e dalla mancanza di antibiotici, inventati e diffusi vent’anni più tardi. Ma la memoria della spagnola si è spenta con i nostri nonni, i veri sopravvissuti a tutto quanto può essere accaduto nel Secolo Breve.

Naturalmente nel momento della disgrazia collettiva saltano fuori il meglio e il peggio del Genius Loci. I Cinesi hanno dimostrato ancora una volta una grande organizzazione collettiva, ma anche la differenza tra un ordine che parte dall’alto e una comunicazione che dalla periferia deve raggiungere il centro. Noi italiani abbiamo finora scoperto che la frettolosa e sgangherata riforma del Titolo quinto della Costituzione ha portato allo scoordinamento totale tra Stato e poteri locali. Voluta qualche anno fa per contrastare il federalismo e il pericolo della secessione, ha precluso al Ministero della Salute la possibilità di imporre standard sanitari coerenti su tutto il territorio nazionale. Ma neanche l’Europa brilla per capacità organizzativa: non si è stabilito un protocollo comune per stabilire il grado di contagio; si permette ai singoli stati di decidere chi entra e chi esce, senza neanche avvertire i viaggiatori e le ambasciate. E se da noi abbiamo scoperto tanti casi, è anche perché abbiamo fatto un controllo con 10.000 tamponi invece dei 1000 come in Germania. Ma anche la chiusura dei voli con la Cina è stato un atto unilaterale italiano e forse anche dannoso: chi voleva entrare da noi magari ha fatto scalo a Monaco e poi ha preso un Flixbus, eludendo i controlli e diventando il Paziente 1 (una volta si diceva Untore). Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ancora non ha deciso se è pandemia o no.

Nel frattempo è sparita l’Amuchina, insieme ai partiti politici in continua lite fra di loro. Forse per senso civico, ma anche perché il Coronavirus ha – come direbbero  i pubblicitari – vampirizzato la comunicazione, complice anche una tv che mobilita un esercito di esperti – virologi, ospedalieri, volontari, ricercatori a tempo pieno. Momenti di Gloria. Nel frattempo finalmente anche in Italia si scopre lo smart working, lavoro agile, quello che anni fa si chiamava telelavoro ma non poteva ancora valersi delle linee veloci, di whatsapp e della logistica in stile Amazon. Ma ci voleva la Peste Nera per modernizzare l’Italia?

E sempre a proposito della Peste, mi piace essere originale e di parlare di un libro tradotto solo nel 1940 da Elio Vittorini e di cui ho fatto cenno all’inizio: A Journal of the Plague Year (Diario dell’anno della peste o La peste di Londra ) pubblicato nel 1722 anonimo, ma riferito all’epidemia che falciò la popolazione di Londra nel 1665. Presentato come cronaca autografa di un testimone oculare dell’epidemia e integrato da documenti originali, era stato in realtà scritto da Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe, pubblicato anch’esso come reale autobiografia. Fake news? No, il nostro autore sapeva far bene il suo mestiere di scrittore e pioniere del giornalismo. La critica italiana preferisce naturalmente Manzoni: «Nel libro di Defoe c’è meno arte, meno maestria, meno meditazione e più peste» , scrive Vittorini. Sarà, ma io provo una profonda ammirazione per i grandi falsari, e Daniel Defoe lo era (2). Alieno da sentimentalismi e sovrastrutture morali, ha confezionato una vivida e accurata cronaca fingendosi testimone oculare.

Tutti gli altri scrittori hanno esteso invece la descrizione dell’epidemia proiettandola in una dimensione morale, metafisica. Lucrezio nel sesto e ultimo libro del De rerum natura descrive la peste di Atene del 430 a.C. sulla scia di Tucidide (3), il quale notava la destrutturazione morale della società colpita dal morbo, il che non sfugge neanche a Boccaccio nel Decamerone. Se gli dèi non ti proteggono, l’etica non paga. Ma è proprio Lucrezio a suggerire che l’epidemia è un fenomeno naturale e gli dèi poco c’entrano: proprio i santuari sono pieni di cadaveri e la malattia non distingue tra buoni e cattivi. Sarà piuttosto Manzoni ad affidare alla peste il compito di punire Don Rodrigo e il Griso, anche se sapremo solo dopo anche della morte di Fra’ Cristoforo nel Lazzaretto, dove prestava aiuto agli altri. Epidemia invece tutta laica, decadente e tardo romantica ne La Morte a Venezia di Thomas Mann (1912), libro noto anche per l’interpretazione cinematografica di Luchino Visconti (1971). Peste che Albert Camus interpreta invece come metafora del Nazismo, anche se la dinamica resta la stessa: all’inizio si sottovaluta il contagio, poi non si deve creare allarmismo e in questo modo la situazione peggiora; quindi si ordina un rigido cordone sanitario attorno alla città e si studia il vaccino. Qui siamo a Orano, in Algeria, forse nel 1940 o comunque sotto il governo di Vichy (1940-44), e a descrivere tutto è un medico. La trama è abbastanza nota, quindi non la riassumo, come nota è la morale: bisogna vigilare perché solo la prevenzione può evitare il ritorno del flagello. Ma che si parli di Nazismo è solo sottinteso, visto che i topi neri che hanno invaso Orano non portano incisa la svastica. In fondo, il romanzo di Camus potrebbe essere reinterpretato di continuo, come certe opere di Brecht.

Mi piace però terminare questo excursus con Cecità di José Saramago (1995). Questa improvvisa cecità che si espande a macchia d’olio fra gli abitanti di una città non definita è inspiegabile, come non si capisce il motivo per cui nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio come all’inizio della vicenda era sopraggiunta improvvisa l’epidemia. Nel libro non manca niente: la sofferenza collettiva, i morti per le strade, una protagonista immune dal contagio, la strategia della reclusione dei malati, il crollo della morale e l’affermarsi della legge del più forte. E’ un romanzo complesso e va letto per intero, ma ha una precisa chiave di lettura, espressa da uno dei personaggi, più precisamente la moglie del medico: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono». E’ quindi un j’accuse all’indifferenza, il nuovo male del secolo.

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NOTE

  1. Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo. Trad. di Anita Taroni, Stefano Travagli. Nodi editore, 2018. Prezzo: 20 euro, 7.99 ebook
  2. Defoe è considerato il padre del moderno romanzo, ma è stato anche un giornalista, e il suo stile realistico lo dimostra. Tutte le sue opere narrative (Robinson Crusoe, Capitan Singleton, Memorie di un Cavaliere, Moll Flanders, Lady Roxana) si presentano come autobiografiche e lasciano poco spazio al sentimentalismo che avrebbe imperato dopo.
  3. Dai sintomi, gli specialisti hanno ipotizzato che si trattasse in realtà di tifo esantematico. Vedi: Manolis J. Papagrigorakis, Christos Yapijakis, Philippos N. Synodinos e Effie Baziotopoulou-Valavani, DNA examination of ancient dental pulp incriminates typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens, in International Journal of Infectious Diseases, vol. 10, nº 3, 2006, pp. 206–214

Confini / Limes

I confini sono una creazione moderna: nei tempi antichi il Limes era presidiato, ma in maniera meno burocratica di adesso. Indicava piuttosto la fine del territorio dove era esercitato il potere dello Stato, magari lì affidato ai legionari con famiglia o delegato alle comunità locali romanizzate. Al di là del Limes non c’era il contatto immediato con un altro impero, ma piuttosto un continuo attrito di frontiera in vaste aree incolte ancora prive di governo o abitate da nomadi. Nel  lessico romano dopo l’ager venivano il campus e infine la silva, ovvero: campi coltivati, terreni forse colonizzabili e zone selvagge. Anche se in ampie aree del pianeta il controllo statuale è spesso solo formale per mancanza di strutture o semplicemente di popolazione, oggi una zona senza stato è solo la conseguenza di un collasso politico (come in Libia), il concetto di confine essendo organico allo stato nazionale. Almeno in Europa i confini sono diciamo razionali: le Alpi dividono le popolazioni italiane da quelle francesi, tedesche e slave; i Pirenei sono lo spartiacque tra francesi e spagnoli, mentre i lunghi fiumi del Nord fissano i confini nel senso dei meridiani: il Reno spartisce francesi e tedeschi, l’Oder fissa la frontiera tra tedeschi e polacchi, dopo la Narva ai baltici subentrano i russi. Ovviamente esistono sempre minoranze stanziate dalla parte sbagliata, ma è solo la Guerra Fredda ad aver fissato per più di quarant’anni confini presidiati quanto artificiali; altrimenti c’è sempre una logica, a meno che uno stato non decida di spostare popolazioni allogene da un’altra parte, come fecero i Turchi Ottomani nei Balcani o nel Baltico i Sovietici. Ma in quel caso possiamo parlare di movimenti metanastatici, ovvero spostamenti demografici interni agli imperi. I friulani iniziarono a emigrare quando la fine dell’Impero austro-ungarico impedì loro di lavorare a stagione in Polonia come facevano da sempre. E a scatenare la seconda Guerra Mondiale furono anche le nuove frontiere decise dai vincitori della prima, e non a caso gli Americani nel 1945 impedirono agli alleati altre annessioni territoriali, mentre per i sovietici e gli jugoslavi il discorso fu ben diverso: ai polacchi fu tolto una parte di territorio a est, compensato da una parte della Prussia orientale, mentre la Jugoslavia di Tito oltre l’Istria  stava per annettersi Trieste ma almeno in quello fu fermata da Churchill. Oggi il confine è aperto, ma per anni al porto mancava il naturale entroterra commerciale proprio per la rigidità dei confini.

Ma ora andiamo ora in Africa. I giornali dicono che gruppi terroristici si muovono tra Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad, sconfinando magari in Libia o in Mauritania. Ebbene, invito tutti ad aprire un atlante De Agostini o Google Maps: i confini tra quegli stati africani sono tirati con riga e compasso, uniscono zone quasi a casaccio, fanno convivere etnie diverse o le dividono dall’etnia omologa. Disegnate sulla carta ma non sul terreno, quelle frontiere non sono presidiate se non da rade pattuglie del deserto, né hanno senso per gli allevatori nomadi Tuareg e Tebu. Neanche ho idea di come accorgersi di aver sconfinato, visto che non ci sono posti di dogana o reticolati. Eredità coloniale, ma drammaticamente presa sul serio dai giovani stati africani, che hanno accettato senza mai discutere le vecchie linee di confine a suo tempo  disegnate dai diplomatici europei su carte geografiche magari anche imprecise. In maniera non meno drammatica, l’Impero Ottomano fu smembrato dopo la prima Guerra Mondiale. L’accordo segreto anglo-francese Sykes-Picot (1916), anche se è durato 100 anni, si è inventato l’Iraq, il Libano e la Siria, più la Palestina affidata agli Inglesi, con i risultati che sappiamo. Ma se i confini tra Iraq e Iran sono soltanto convenzionali e seguono in gran parte l’Eufrate, dalla parte del Tigri la situazione non è lineare. In ogni caso i grandi fiumi – Danubio, Volga, Tigri ed Eufrate – spesso non dividono ma uniscono, specie se navigabili.

Sia chiaro che i confini hanno comunque un senso: quando ho fatto il militare a Trieste negli anni Settanta del secolo scorso ho capito a che serve un confine e perché va difeso, concetto oggi dilavato e ambiguo, vista l’ondivaga politica estera italiana. Ma che senso ha difendere con muri e reticolati Ceuta e Melilla, due antieconomiche exclave spagnole (cioè formalmente europee) in Marocco? Difenderle dagli africani, quando sono Africa? Nel 2020 non dovrebbero semplicemente esistere.

Morale? Le frontiere dovrebbero deciderle direttamente le popolazioni. Spagnoli e portoghesi si ignorano e la linea di confine è la stessa da mille anni. Noi italiani abbiamo la fortuna di avere le Alpi, che sono confini naturali come i Pirenei. Ma erigere muri non serve (l’ultimo è la Brexit), o almeno è antieconomico. L’idea può non piacere, ma è la realtà. Quando poi le Nazioni Unite stabiliranno che ognuno può andare dove gli pare senza dare spiegazioni, allora sarà realmente una nuova era.