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Pornobello

Tra le nuove forme di editoria si è affermato con successo il podcast, capace di superare l’istante della trasmissione per poter essere con calma scaricato e fruito quando vogliamo. In questo caso abbiamo – così lo presenta l’editore – un “porncast”, un libro sulla storia della pornografia, narrato in voce a puntate da Melissa Panarello, peraltro non nuova a iniziative trasgressive, sempre che oggi resti qualcosa da trasgredire. E infatti Melissa tira le fila di un fenomeno ormai consolidato: il porno, che esiste da sempre ma assume forme diverse nelle varie epoche, condizionato dalla religione, dalla morale ma anche dai mezzi di produzione e riproduzione dell’immagine. Melissa non perde tempo, come noi all’epoca, a discettare su cosa è pornografico e cosa è solo erotico; in questo la pensa come i giapponesi, i quali non distinguono tra le due categorie. Per lei – riassumo da una delle due prime puntate – l’erotismo è il tentativo di unire l’anima con il corpo, di trovare un equilibrio con il sesso, tipico del segno della Bilancia (il mio, ndr.). Il porno invece va subito al sodo, esprime istinto e fisicità. “Se ami le lenzuola di seta e le manette di velluto questo non è posto per te”, ironizza la nostra amica. Sfugge a Melissa che se il sesso è biologico, erotismo e pornografia sono comunque entrambe elaborazioni culturali, tutte umane, solo che il porno dell’erotismo è il grado zero. E’ la cultura del sesso, declinata ora verso la sublimazione (erotismo), ora verso la pura carnalità (pornazzo). Ed anche una scommessa: significa riempire di elaborate ricette un libro di cucina avendo due soli ingredienti, arricchiti di salse nell’erotismo, ma serviti quasi crudi nel porno. Perché Melissa chiama le cose col loro nome, inutile che tutti giochiamo a fare gli intellettuali quando poi siamo drammaticamente legati alla fisicità del nostro corpo e ai nostri istinti primordiali.

 Tutto bene? No, si gioca come al solito sul corpo della donna, che deve mostrarsi attraente ma pudica, disponibile ma casta, davanti a un uomo sempre potente e dominante; ma questo è un vecchio discorso. Quello che è interessante è vedere il passaggio “democratico” della pornografia (termine in teoria greco, ma adottato nel ‘700 dalla letteratura francese) da forme sacre, colte e aristocratiche (come nel Rinascimento o nel Settecento) che poi permeano tutta la cultura e scendono fino agli strati più umili della società, fino a diventare, come oggi, un amorale fenomeno di massa, continuamente capace di adeguarsi al momento e a sfruttare la tecnologia più avanzata, come dimostra oggi l’esplosione del porno in rete, e prima di questo il cinema, il VHS.  E’ una storia avventurosa ed è anche divertente ascoltarla dalla voce di Melissa, garbatamente siciliana, la quale è ironica e curiosa di scoprire cosa si sono inventati uomini e donne nel corso del tempo per rendere piacevole la vita in comune; si parte addirittura dalle caverne, dove nell’inevitabile promiscuità qualcuno guarda la coppia che fa l’amore e così inventa il porno (citare Freud e la scena primaria forse è troppo). Si continua con il mondo classico, poi per sciagura arriva il Cristianesimo, e così via. Le fonti documentarie a cui Melissa attinge sono di ogni tipo, qualche volta anche scontate; non mancano banali luoghi comuni, ma in fondo è una simpatica trasmissione radio a puntate. Ancora non siamo arrivati alla Golden Age of Porn americana (gli anni ’70 del secolo scorso), chissà poi se si parlerà di Lasse Braun detto l’Alieno, quello che sdoganò il porno come forma di liberazione ma non capì che sull’affare (esattamente) ci si sarebbero buttati a capofitto avventurieri e delinquenti: “Gola profonda” fu finanziato dalla mafia italo-americana. La vitale gioia del pornazzo nasconde anche angosce di castrazione o almeno disagio e frustrazione in chi guarda (Hitchcock insegna, penso a Psyco o a La finestra sul cortile), mentre il backstage produttivo è intriso di sfruttamento, droga e quant’altro. Resta poi un problema irrisolto: le donne si ritrovano ancora una volta – cito – “incastrate fra due modelli altrettanto inaccettabili di femminilità. Il primo è il modello tradizionale che, persino oggi, è difficile contestare, il quale condanna al disprezzo e all’ostracismo le donne promiscue; inoltre le donne sanno per esperienza che lo stereotipo tradizionale della femminilità è profondamente legato alla sessualità e le costringe a trasformarsi in spettacolo continuo di seduzione ma devono al tempo stesso rimanere modeste e non lasciar mai capire che si stanno esibendo. Il secondo è l’altro modello, ancora vago e inquietante, proposto dalla pornografia, imperniato sulle acrobazie sessuali e sulla soddisfazione completa di tutti i capricci, un terreno che sembra più familiare agli uomini, che affermano di esservi più a loro agio.” (da Bernard Arcand, Il giaguaro e il formichiere). Eppure ci sono ancora donne che vedono nel porno una sorta di sdoganamento della sessualità, basta scorrere il serioso sito Academia.edu.

Quello che è assodato è che il porno si aggiorna e si trasforma di continuo, oggi si adatta alla rete e al fai-da-te, domani chi lo sa, ma richiede comunque grandi investimenti e ancora produce grandi guadagni, concentrati in poche grandi produzioni e siti aggregatori. Ma vedremo come si svilupperanno le prossime puntate di quello che si profila come una piacevole scorribanda nelle nostre umane debolezze.

Russia 2.0

Stavo consultando una tesi di dottorato: Pluralismo tra democrazia e autoritarismo: il caso russo, di Laura Petrone. Liberamente scaricabile dalla rete (1), risale al 2010 ma resta attuale per capire quello che in questi giorni di guerra ci chiediamo tutti: come mai la Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica non si è evoluta come tutti avremmo sperato, cioè sviluppando istituzioni democratiche che non fossero formali ma garantissero uno sviluppo ideologico ed economico adeguato alla modernità? Lo scrivo in un momento in cui ci chiediamo, esterrefatti e inorriditi, come mai c’è ancora in Europa chi è convinto che obiettivi politici di egemonia non possano essere conquistati con pressioni politiche, diplomatiche e strategie economiche piuttosto che con la guerra, visto che nei conflitti moderni il costo è maggiore dei risultati e che pratiche forse normali nelle guerre antiche sono ormai inaccettabili?
Sicuramente c’è stata da parte del “pensiero occidentale” la convinzione che i regimi totalitari prima o poi crollino per evolversi verso una democrazia, con traiettorie abbastanza ordinate e prevedibili verso regimi democratici nati da elezioni libere e regolari. Determinismo peraltro simmetrico del pensiero totalitario, che ritiene la democrazia un disordinato contrattempo prima dell’affermazione di una struttura di potere non condizionata dall’equilibrio obbligato dalle dinamiche sociali ed elettorali. E qui mi andrei a rileggere Miseria dello storicismo di Karl Popper: l’evoluzione politica non segue mai strade obbligate: “nessuna società può predire scientificamente il proprio futuro livello di conoscenza”.
Ma torniamo alla Russia. In sostanza, ai tempi dell’Unione Sovietica, Stato e Partito (PCUS) facevano tutt’uno e Michail Gorbačëv (amato più da noi che dai Russi) cercò a suo tempo di riformarne le strutture, dando più importanza a quelle economiche che a quelle democratiche, indebolendo di fatto lo Stato. Lo scioglimento del PCUS imposto nel 1991 da Boris Eltsin spezzò questo binomio, col risultato di far indebolire le strutture statali a vantaggio di una classe di capitalisti che nelle privatizzazioni dei grandi enti di Stato trovarono la miniera d’oro, creando in un paese socialista una distopica sperequazione di ricchezza fra oligarchi e gente comune, resa possibile dall’indebolimento delle strutture statali e da connivenze criminali, fino all’ascesa di Vladimir Putin, il quale ha perseguito un fine solo: la restaurazione dello Stato come supremo organizzatore della vita civile, dell’economia e della politica. In sostanza è comunque lo Stato il garante che permette lo sviluppo di un regime democratico, e non per niente le democrazie occidentali si sono sviluppate quando lo Stato moderno ha definito e consolidato le sue funzioni (economiche, fiscali, militari, assistenziali, etc.) e dalla lotta politica si è creato un equilibrio fra i soggetti sociali rappresentati in un Parlamento. Non per niente i paesi ex-socialisti che hanno saputo creare una democrazia parlamentare (Polonia, Ungheria, i Paesi Baltici, Cechia) si basavano su esperienze storiche consolidate, mentre la Russia e le repubbliche sovietiche asiatiche (Kazakistan, Tagikistan) ne mancavano totalmente. Ma in Russia, dopo la debolezza dell’esecutivo a fronte dei poteri costituzionali e l’intreccio tra la sfera pubblica e la sfera privata tipica del tempo di Eltsin, Putin si è posto come priorità la ricostruzione dello Stato, dando più potere al centro attraverso una serie di riforme federali, riallineando con le buone o le cattive maniere gli oligarchi alla politica presidenziale, e di fatto burocratizzando l’élite politica. Il livello di obbedienza all’interno dell’apparato statale è tuttora alto, in più c’è l’ autosufficienza economica e finanziaria, ovvero il controllo statale sui proventi garantiti dalla vendita di risorse naturali come il petrolio e il gas, come ben sappiamo. Burocrazia qui va intesa in senso lato, come logica dell’organizzazione politica su larga scala. Questo recupero della centralità dello Stato non ha però incoraggiato né lo sviluppo di quelli che chiamiamo corpi intermedi (classe media, partiti politici rappresentativi) né il pluralismo. E’ un regime che di fatto unisce caratteristiche sia democratiche che autoritarie e propone un proprio modello di sviluppo politico-istituzionale alternativo a quello delle democrazie liberali. Al suo interno i valori democratici non costituiscono una priorità, in quanto subordinati all’imperativo di uno Stato forte e centralizzato. In questa logica si collocano provvedimenti quali la limitazione dell’autonomia dei poteri regionali, l’eliminazione dei governatori eletti dal Consiglio Federale, l’allontanamento dalla politica dei partiti non legati al Cremlino e alcuni interventi tesi a preordinare e regolamentare i confini della c.d. “società civile” attraverso un controllo delle principali fonti della contestazione politica. Anziché imporre un unico sistema filosofico-spirituale alla società nel suo insieme, lo Stato mette a disposizione un ventaglio di orientamenti accettabili, tra i quali la popolazione è libera di scegliere. Nella prassi si nota però il ricorso a forme di controllo autoritario non coercitivo, che vanno dalla frode elettorale all’intimidazione (o peggio) e cooptazione dei principali avversari politici come base del consenso sociale e del proprio potere. Diversamente dalle forme classiche di autoritarismo, l’apparato ideologico è scarno, lo vediamo in questi giorni, basato su un forte richiamo all’identità nazionale e sulla mancanza di alternative credibili, alle quali però non è stata data ancora occasione di crescere.
In questa prospettiva, il quesito più urgente non è perché la Russia non è democratica e cosa debba fare per esserlo, ma un altro: in quanto autocrazia, può essa affrontare le sfide dello sviluppo economico e della modernizzazione? Può vincere una guerra più lunga del previsto senza sfaldare la base del consenso popolare, per non parlare dell’economia, visto che il PIL russo è inferiore a quello italiano?

Note

  1. file:///C:/Users/Utente/Documents/Documenti%20scaricati/Geopolitica/Petrone_Laura_Tesi_dottorato(1).pdf .
    Bologna, Facoltà di scienze politiche, 2010.

Ma in fondo…

Nel noto film Boehemian Rhapsody, quando Freddie Marcury dice alla moglie “sono gay ma in fondo ti amo”, lei reagisce con violenza: “Ma che vuol dire in fondo?”. Me lo stavo chiedendo in questi giorni di guerra: in fondo la NATO si è allargata troppo a Est, in fondo i crimini di guerra li compiono tutti gli eserciti; in fondo rifornire di armi l’Ucraina non significa essere belligeranti; in fondo possiamo essere equidistanti perché vogliamo la pace; in fondo il battaglione Azov è formato da nazisti; in fondo il patriarca Kyrill si oppone all’Occidente decadente… e così via; come si vede, ce n’è per tutti. E’ il regno del Relativismo dal quale invano il cardinale (e poi papa) Ratzinger metteva in guardia l’umanità. Ma se il relativismo religioso o morale possono anche diventare un comodo alibi di massa, la Guerra invece ti costringe a decidere da quale parte stare, visto che è in gioco la tua sopravvivenza e quella dei tuoi figli. Sia chiaro che siamo rimasti tutti spiazzati dall’invasione russa dell’Ucraina, ma dopo due mesi di guerra chiunque ha il dovere morale di informarsi da più fonti, di riflettere e prendersi le proprie responsabilità. Sia chiaro: anche se dovessimo combattere, per noi la Guerra non è più un valore. Siamo stati educati a non legittimare la guerra come mezzo di risoluzione delle questioni politiche e abbiamo sinceramente creduto che la  diplomazia, la pressione economica, la deterrenza militare, la libera informazione e tante altri mezzi di azione politica potessero risolvere i problemi internazionali. In fondo la Guerra Fredda ha visto per anni eserciti contrapposti ma fermi ai confini delle alleanze di riferimento, e questo ha funzionato. Ora sappiamo che aver smontato tutto non avrebbe garantito “la fine della storia”, ma a maggior ragione lo storico del futuro (se ce ne sarà uno) dovrà chiedersi perché questioni così importanti come l’espansione della NATO o l’autonomia delle regioni di confine e la tutela delle minoranze non siano stati negli ultimi vent’anni – da quando si è affermato Putin – oggetto di negoziati seri e serrati, magari anche duri, ma evitando il ricorso alle armi, intervento che la Grande Russia ha considerato persino necessario. Che poi abbia fatto male i conti è un’altra storia.

Interessante è a questo punto leggersi cosa ha elaborato quella che per semplicità chiamo l’Accademia. Non parlo degli ideologi di Putin (troppo sfacciati), ma di quel mondo legato alle università e ai centri di ricerca. Sono idee elitarie ma che possono lentamente permeare la società intera, come dimostra la Cancel Culture americana, su cui nessuna persona istruita e intelligente avrebbe mai scommesso una lira. Sfoglio p.es. l’Antidiplomatico e leggo Come l’occidente distrusse la seconda Roma e come oggi cerca di fare lo stesso con la terza, di Cesare Corda. Allude al contrasto anche violento tra i Latini e Costantinopoli al tempo delle Crociate e prima. La terza Roma è invece la Madre Russia erede della cristianità e dell’Impero romano d’Oriente, un’ideologia molto popolare e non da ieri. È vero che per la storiografia di scuola germanica l’Impero Romano d’Oriente vale meno del Sacro Romano Impero, anche se il primo è durato mille anni. Ma resta il pregiudizio speculare: fin dai tempi di Carlo Magno noi europei occidentali siamo invece i Latini rozzi e violenti che vogliono distruggere un’antica civiltà superiore e non vogliono saperne di un impero orientale. Ma a questo punto mi leggo sul sito literary hub ( https://lithub.com/)  un lungo studio: On the West’s Demonization of Ancient Persia, a cura di Lloyd Llewellyn-Jones (gallese, suppongo), ordinario di storia antica all’Università di Cardiff. La sua teoria è che fin dai tempi dell’antica Grecia la Persia è stata sottovalutata e trattata come un invasore imperialista, mentre invece era portatrice di una civiltà ben superiore alla cultura classica di cui noi siamo gli eredi. Anche qui l’impostazione è viziata dall’ideologia: sicuramente la storiografia occidentale è eurocentrica e chi difende l’Europa per noi è sempre un eroe, si chiami Leonida o Alessandro Magno o Traiano. Ma non per questo vale di più il contrario, che cioè un dispotico impero orientale invada l’Europa in base a un’idea di superiorità o per motivi economici. Immagino la replica. “ma in fondo non erano poi così dispotici e decadenti”.  Ho voluto citare questi due esempi accademici per dimostrare che se un’indagine storica è viziata alla base dall’ideologia, i risultati non saranno mai definitivi, anche se ridiscutere tesi tradizionalmente accettate è comunque indice di vitalità culturale. Ma era molto più avanti Hendrik van Loon nella sua Storia dell’Umanità, pubblicato nel 1921 da Bompiani e ancora ristampato nel 2015: narrava lo sviluppo delle civiltà partendo da un’idea di policentrismo e di alternanze fra potenze, senza credere nella “missione storica” di nessuno. In fondo era onesto.

Mali d’Africa

Illustrazione Gianleonardo Latini

I Francesi sono stati estromessi dal Mali; persino l’ambasciatore è stato cacciato e d’ora in poi la lingua ufficiale del Mali sarà soltanto il Bambara, parlata da circa due milioni e mezzo di abitanti ma facilmente compresa da altri tre. Non sappiamo se sarà anche abolita la valuta CFA (Franco centro-africano), diffuso nell’Africa francofona:  vale un decimo del Franco francese ma è ancorato alla Banca di Francia. In ogni caso il posto dei soldati francesi sarà occupato da almeno 500 miliziani del Gruppo Wagner, quella specie di Legione Straniera russa già presente in Libia e forse ora anche in Ucraina. Quale sia il loro reale valore sul campo piuttosto che come pretoriani di regime è tutto da verificare, ma per la Francia di Macron è uno smacco: il Mali, come il Burkina Faso, era parte delle colonie africane e come tale manteneva forti legami politici e commerciali con la sua antica potenza di riferimento. Nel contratto di assistenza al locale governo era prevista la protezione militare contro attacchi esterni, in questo caso i guerriglieri Jahidisti che premono dal nord del paese. Per chi non conoscesse il Mali consiglio di dare un’occhiata alla carta geografica: è il classico stato africano disegnato con squadra e compasso in maniera assolutamente irrazionale: la parte a sud dei fiumi Niger e Senegal gravita sulla savana ed è la più popolata e coltivata, mentre la parte nord è un’enorme parte del Sahara sagomata geometricamente; è abitata da nomadi Tuareg ed è ricca di risorse minerarie. Ma difficile parlare di confini, di frontiere difendibili: il Mali è per molti versi un’astrazione geografica, come anche altri stati africani derivati dalla decolonizzazione. E come tanti stati africani, non riesce ad avere una dirigenza adeguata alla situazione. Quella attuale, capeggiata da Assimi Goïta, non fa eccezione.

Ora, sono stati fatti facili confronti fra  la disfatta statunitense in Afghanistan e quella francese in Mali, ma la realtà è diversa: l’esercito francese, coadiuvato dalla ben nota Legione Straniera, conosceva da oltre un secolo il terreno e nel corso del tempo aveva ottenuto anche reali successi militari, pur penalizzati dalla vastità del territorio e soprattutto da problemi politici nel rapporto con il governo del Mali. In regime coloniale la potenza occupante gestisce direttamente tutto, laddove ora può solo garantire assistenza alle fragili strutture statuali e ai deboli eserciti delle sue ex-colonie. Di fronte a una minaccia strutturale dovuta essenzialmente a una scarsa coesione sociale e statuale, addestrare le truppe locali non basta e in più un’eccessiva ingerenza esterna da parte di una ex-potenza coloniale viene malvista dalla gente. Esattamente quello che è successo in Mali.

Ma andiamo per ordine: dopo il colpo di stato del 2012 di soldati ammutinati guidati dal capitano Amadou Haya Sanogo e la sospensione della Costituzione, dall’aprile 2012 all’agosto 2013 è presidente ad interim Dioncounda Traoré, designato dalla giunta militare, e Cheick Modibo Diarra Primo Ministro ad interim il 17 aprile 2012 per aiutare il processo democratico fino alle elezioni del dicembre 2013. Nel frattempo riprende la guerra civile che ha portato l’etnia Tuareg (laica) del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, ad allearsi con alcune frazioni fondamentaliste, (gli Ansar Dine) che aderiscono al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, alias al-Qa’ida nel Maghreb islamico, e a prendere il controllo della regione settentrionale del Paese, l’Azawad, regione che comunque nulla ha che spartire con la parte del Mali a sud dei grandi fiumi. Il 10 gennaio 2013 il presidente Dioncounda Traoré‚ in un discorso alla nazione, comunica di aver chiesto e ottenuto un intervento aereo della Francia, in accordo con l’Ecowas, la comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale, contro i ribelli dell’Azawad (il nord del Paese). L’intervento francese in effetti libera i centri abitati dell’’Azawad cadute in mano ai fondamentalisti islamici, dove le truppe sono accolte con esultanza dalla popolazione. Nei quasi dieci anni successivi la guerriglia continua e i francesi contano alla fine 53 perdite, quante noi italiani in dieci anni in Afghanistan. Senonché il 18 agosto 2020 il presidente Ibrahim Boubacar Keïta assieme al primo ministro vengono tratti in arresto mediante colpo di Stato di una giunta militare. Prende il potere il Comitato nazionale per la salvezza del popolo che nomina il triumvirato Assimi Goïta, Malick Diaw e Sadio Camara fino a nuove elezioni politiche. Goita ha studiato a Mosca, parla russo e sobilla l’ostilità verso i francesi, i quali comunque da giugno di quest’anno avevano deciso di ridurre il loro impegno militare per il costo rispetto ai benefici, portando il proprio contingente da 5000 a 2000 uomini. A meno di non ricolonizzare l’Africa da capo, questo è un problema che assilla tutti gli eserciti occidentali. Ma soprattutto rimane il problema registrato in Afghanistan: non si può gestire una strategia di lungo termine con le risorse locali e i chiari di luna dei colpi di Stato e dei gruppi dirigenti locali, i quali alla fine sono capaci di venire a patti col nemico pur di salvare almeno parte del potere e del territorio. Solo negli ultimi dieci anni l’Africa ha visto una dozzina di colpi di Stato. In più gli eserciti europei alla fine se ne vanno, mentre il nemico è endemico e abita nel paese tuo, quindi meglio parlarci. Quanto a Russi e Cinesi, chiedono la licenza di estrazione delle risorse minerali, ma sono disposti ad aiutarti senza chiederti quelle noiosissime clausole che comprendono un parlamento eletto, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e il rispetto dei diritti umani. Ma alla fine per gli africani significa passare solo da una potenza post-coloniale all’altra.

La vita al tempo del Barocco

Questa scorrevole opera di Ottavia Niccoli ci riporta nella Bologna e contado nel ‘600, ma potrebbe descrivere allo stesso modo la vita di una grande città italiana del Barocco, Roma compresa. La memoria mi riporta infatti a un’opera del 1990, Carriere e clientele nella Roma barocca, scritta da Renata Ago per i tipi di Laterza. Anche la Ago ricostruiva la vita sociale del tempo attraverso atti giudiziari (lei tra l’altro proveniva da una famiglia di giuristi), ma sinceramente trovo il libro della Niccoli ben più leggibile e intrigante. Attraverso i verbali dei processi non conosciamo tanto i “buoni” , ma piuttosto chi non rispetta le regole: padroni che mettono incinte le domestiche, preti che cantano e suonano la chitarra, altri preti che hanno il vizietto, agricoltori che sparano al bestiame del vicino se rovina i campi, povere donne che delinquono per miseria, vagabondi, orfani e ragazzi di strada sfuggiti alla pubblica assistenza o maltrattati in orfanatrofio. Ne viene fuori un affresco che è coerente con l’arte figurativa del tempo, penso ai Bamboccianti, alle scene di genere, ma anche alle nature morte, il cui vero significato è esibire abbondanza alimentare in una società dove, per vari motivi frequenti erano le carestie. Ci sorprende la vita di Sabbatina, vedova di un contadino che aveva già perso due mogli e la metà dei figli, addetta a una serie di lavori agricoli anche nei giorni festivi. Siamo infatti in piena Controriforma e la Chiesa cerca intanto di metter ordine nel clero secolare e in certi suoi stili di vita ormai intollerabili (vino, amanti, musica secolare) ma legati in fondo agli usi e costumi della comunità. Ma l’operazione si estende anche a regolare la vita dei fedeli secondo le nuove indicazioni del Concilio Tridentino, formalizzando p.es. il matrimonio come sacramento, mettendo il naso nel privato attraverso l’istituto della confessione, ma anche disponendo una sistematica anagrafe parrocchiale. Era comunque un mondo già cristiano di suo: il tempo si scandiva da sempre secondo le ore liturgiche, le feste comandate e i rituali della vita sociale (battesimo, matrimonio) e la gente certe volte neanche conosceva bene i nomi dei mesi né aveva orologi, tanto c’erano campane e campanili. Vengono poi descritti arti e mestieri, rapporti sociali e immagini di vita quotidiana, legate all’onore, al rango, alle differenze sociali, a preoccupazioni per noi ignote: la rivoluzione industriale ci ha affrancato dalla necessità e troviamo tutto in negozio, ma per una ragazza da marito non saper cucire sarebbe stato grave, e infatti le scuole per ragazze (povere o meno) insegnavano di fatto i lavori domestici e le piccole attività (allevamento del baco da seta, p.es.), mentre i lavori maschili erano legati a corporazioni, gilde e confraternite fortemente strutturate. Il libro è corredato da molte illustrazioni puntualmente riferite a quanto orchestrato nel libro.


Storie di ogni giorno
in una città del Seicento
Ottavia Niccoli
Officina Libraria, 2021, pp. 310, 77 in b/n
Prezzo: € 22,00
ISBN: 9788833671536