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Turchia: Un regime che vuol governare facile

Turchia Un regime che vuol governare facileIl sultano Erdogan, dopo un tentativo di golpe, ha creduto di aver debellato l’opposizione e vincere con percentuali filosovietiche il referendum per una riforma costituzionale in senso presidenzialista forte, ma i SI, con il loro 51,2%, hanno solo evidenziato una Turchia divisa a metà.

Una Turchia divisa a metà, nonostante le prigioni sovrappopolate, tra una popolazione urbanizzata che guarda ad un futuro europeo e una rurale che si affida al custode della tradizione di una rifondazione ottomana.

Una maggioranza risicata che Erdogan cerca di esorcizzare con una battutina: “L’importante è vincere, 1-0 come 5-0”, ma da adito alle opposizioni di sospettare di brogli con 2,5miloni di schede sospette, anche se l’Alta commissione elettorale suprema (Ysk) boccia i ricorsi e ammette nel conteggio anche le schede senza timbro ufficiale.

L’ambizioso sogno di Erdogan di poter, Allah volendo, governare sino al 2034 ha anche l’avallo di Trump, mentre la Ue, tramite Osce (Organization for Security and Cooperation in Europe), afferma che sono stati «Violati gli standard internazionali».

Nonostante tutto Erdogan potrà festeggiare l’anniversario della repubblica turca, e magari del suo fondatore Ataturk, nel 2023 e continuare a gridare contro “le nazioni crociate”.

Forse in Turchia si sta collaudando una forma di Democrazia ibrida, dove un sistema di “governo nel quale, oltre al fatto che si tengano delle elezioni, i cittadini sono completamente tagliati fuori dalla conoscenza di tutto ciò che concerne il potere e le libertà civili.” (Da Wikipedia), diventerà una Democratura o una DittoCrazia? Qualunque sia il vocabolo è un sistema di governo che tanto piace a Trump e a Putin.

La Democrazia turca è sempre più squilibrata verso un sistema Autoritario, dove i Diritti Umani sono una pura Utopia barattati con una pretesa sensazione di sicurezza.

La detenzione di giornalisti con capi d’imputazione inconsistenti?????????????????????????????????????????????????????????come per il corrispondente del giornale tedesco Die Welt Deniz Yucel o non specificati come nel caso dell’italiano Gabriele Del Grande.

Si può ricondurre l’inizio di questo giro di vite sulle libertà civili alla repressione muscolare che il regime turco ha effettuato per arginare le proteste di Gezi Park del 2013, iniziate per salvaguardare l’omonimo uno spazio verde di Istanbul dalla speculazione immobiliare che lo minacciava.

Realizzare l’ennesimo ponte o tunnel tra la sponda asiatica e quella europea non dichiara comunque la sincera volontà del leader turco di essere disponibile al dialogo e avvicinare la Turchia all’Europa, quando è sempre più difficile discutere, ridere, contraddire la voce del padrone che si appresta alla reintroduzione della pena di morte.

È difficile pensare che delle periodiche chiamate alle urne per eleggere dei rappresentanti in Parlamento possa rendere una nazione democratica, come dimostrano le elezioni in Siria o in Kazakistan.

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Democrazia e conflitto per una Sinistra da rifondare

renzi-matteo-scompostoIn un articolo pubblicato il 29 novembre scorso dal New York Times, la giornalista Amanda Taub, citando uno studio di due giovani scienziati politici, sintetizza i tre fattori coi quali si può misurare il grado di stabilità di una democrazia: 1) il sostegno dei cittadini e delle cittadine; 2) l’ampiezza della disponibilità pubblica a forme di governo non democratiche, financo a regimi militari; 3) la crescita di consenso dei cosiddetti “movimenti e partiti anti-sistema”[1].

Utilizzando questo metro di valutazione, dovremmo dare una valutazione positiva dell’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso in Italia: l’affluenza del 65% (nonostante non fosse necessario il raggiungimento del quorum) dimostrerebbe una discreta coscienza dell’importanza politica che rivestiva questo passaggio istituzionale e una rinnovata disponibilità alla partecipazione nei processi decisionali attraverso gli strumenti di democrazia diretta individuati dalla nostra Costituzione; la vittoria del NO, con più del 59% dei suffragi, a sua volta dimostrerebbe una netta volontà popolare di difendere non solo gli strumenti e le architetture istituzionali definite dalla carta costituzionale, ma in questo modo di difendere anche i valori e principi affermati nella prima parte di questa.

Tuttavia, provando ad andare un po’ più a fondo e cercando di capire le motivazioni più profonde che hanno animato il variegato fronte politico e sociale del NO referendario, la situazione si presente, a mio avviso, molto meno omogenea e molto più problematica. Per sintetizzare, in questo rifiuto della presunta “riforma costituzionale” targata Renzi-Boschi si sono incrociate almeno tre motivazioni politiche fondamentali: 1) l’effettiva volontà di salvaguardare il testo e l’impianto costituzionale da una riforma che vedeva, come ha scritto Gaetano Azzariti[2], la democrazia come un intralcio e che avrebbe nei fatti aperto le porte ad un inasprimento autoritario della forma di governo, con la concentrazione oggettiva del potere anche legislativo e di controllo nelle mani del governo (governo che, con la riforma elettorale dell’Italicum, rischia tuttora, se questa riforma venisse applicata anche per l’elezione del Senato, di rappresentare una esigua minoranza del corpo elettorale); 2) l’opposizione politica e sociale all’operato non solo del governo Renzi e del Partito Democratico, ma a anche a tutti quegli esecutivi che lo hanno preceduto negli ultimi anni; 3) questa opposizione politica e sociale era a sua volta divisa fra chi, come ha scritto Anna Fava, difendeva «l’idea di una società plurale e eterogenea, fatta di razze e generi diversi, di diverse opinioni politiche e fedi religiose […] fisiologicamente percorsa da conflitti[3]», e chi invece era mosso da un’idea di società chiusa, permeata dall’egoismo sociale (di classe, di razza e di genere), per il quale la soluzione dei problemi sociali passa per la sopraffazione di chi sta peggio o solamente di chi è diverso.

Uno dei principali insegnamenti della Costituzione, che ci piaccia o meno, sta proprio nel riconoscimento del carattere conflittuale della società moderna e nella necessità di individuare soluzioni il più possibile condivise per garantire alla cittadinanza quei diritti che la Carta stessa sancisce nella sua prima parte. L’ex premier Renzi, la maggioranza di governo che lo ha sostenuto (e che ora sostiene Gentiloni), il Partito Democratico, avrebbero dovuto interrogarsi, già subito dopo l’uscita dei primi exit poll nella tarda serata del 4 dicembre, su come i provvedimenti di questi anni non solo non abbiano fatto uscire l’Italia dalla profonda crisi economica in cui versa, ma abbiano di fatto spaccato ulteriormente il Paese, aumentando fortemente le diseguaglianze: basti solo pensare al decreto “sblocca Italia”, al famigerato Jobs Act, alla “Buona Scuola”, al cosiddetto “Decreto salva banche”, quello “taglia sanità” della ministra Lorenzin, solo per fermarci a quelli più importanti (e più odiati). Provvedimenti sui quali il PD e le forze politiche alleate non solo non hanno mai aperto un serio confronto con le forze sociali e sindacali impattate da quelle leggi, ma che nei confronti dei movimenti che hanno protestato e manifestato in questi due anni, hanno spesso solo usato il linguaggio dell’arroganza e della repressione, come dimostrano gli almeno cinquanta episodi di cariche violente della polizia, di pestaggi di contestatori, fossero essi lavoratori, studenti, correntisti bancari.

Col Referendum del 4 dicembre il segnale di sfiducia popolare al governo Renzi e al PD è stato inequivocabile, ed è arrivato proprio da chi questi provvedimenti legislativi li ha subiti nel modo più drammatico: il meridione del Paese (col dato quasi plebiscitario della Sardegna), le zone periferiche delle grandi città, i/le giovani (vittime della interminabile precarietà e disoccupazione). Invece dal segretario del Partito Democratico non solo nessuna autocritica, ma neanche il tentativo di capire il “grido di dolore” che arriva dalla “periferie” (geografiche, sociali, generazionali) del Paese, solo negazione o rimozione. Lo dimostrano non solo le parole di Renzi già la sera del 4 dicembre, il limitare gli errori ad aspetti di “comunicazione”, o quelle imbarazzanti di Gennaro Migliore sul Jobs Act (il problema dei voucher sarebbe stato semplicemente che qualcuno ha pensato che si potesse abusare di loro), o ancora quelle del nuovo presidente del consiglio Gentiloni, per il quale sui temi del lavoro (e in particolare sull’art. 18) il governo non farà alcuna marcia indietro.

Di fronte a questo scellerato esempio di arroganza e di inettitudine, chi incasserà nel breve periodo i risultati dell’esito referendario saranno paradossalmente proprie quelle forze politiche non solo lontane ai valori di eguaglianza e solidarietà sociale, ma anche dai valori e dai principi stessi della Costituzione repubblicana, (si pensi non solo e non tanto al Movimento 5 Stelle o a Forza Italia, ma soprattutto a forze politiche apertamente razziste come la Lega Nord o dall’eredità politico-culturale inequivocabilmente fascista come Fratelli d’Italia.

Per questo, oggi nel variegato campo della Sinistra più che arrovellarsi il cervello su formule elettorali e proposte di governi di coalizione, sarebbe necessario un serio processo di rifondazione, fatto innanzitutto di presenza e lavoro politico nei luoghi e fra i settori sociali che hanno espresso il loro NO alla riforma costituzionale. È l’unica possibilità per ricostruire una politica credibile ed alternativa a quella imposta dai centri del potere economico e finanziario europeo, ed eseguita dai vari governi tecnici o a guida PD che si sono avvicendati in questi anni. Una politica che ascolti il conflitto sociale e sia capace di risvegliare la partecipazione dei tanti uomini e delle tante donne che non hanno niente a che vedere tanto con la tecnocrazia renziana, quanto col becero populismo liberista del M5S e con quello razzista di Lega e Destra.

[1] Cfr. L’URL http://www.nytimes.com/2016/11/29/world/americas/western-liberal-democracy.html?_r=0.

[2] Cfr. G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2016.

[3] Cfr. l’URL http://effimera.org/partire-dal-no-rilanciare-la-partecipazione-anna-fava/.

Referendum: SI/NO/FORSE

refeferendum-votoMai come questa volta è difficile sentirsi completamente liberi di esprimere il proprio voto, trovandoci davanti alla scelta di manifestare la propria opinione, senza possibilità di alcun distinguo, a un “pacchetto” costituzionale che interviene su vari ambiti.
Complica ulteriormente la situazione l’amletico dilemma di dover mescolare il voto a quello di una destra intollerante e bigotta o approvare la proposta di un monellaccio impertinente.
Da decenni si promettono cambiamenti e cosa ci garantisce che se vince il NO si potrà fare meglio di quello che si propone con il SI?
Si discute sull’impossibilità di eleggere i futuri senatori direttamente dal cittadino che viene privato dal diritto di votare, ma abbiamo già una Democrazia “riflessa” con la nascita delle Città metropolitane http://www.cittametropolitanaroma.gov.it/.
Si aboliscono le Provincie con un consiglio eletto per far posto, con le procedure di voto che hanno rasentato la clandestinità, a un parlamentino eletto dagli amministratori dell’Area e con la presidenza di diritto del sindaco del comune capoluogo.
Questo non è esautorare il cittadino dallo scegliere il proprio rappresentante?
Entrambi gli schieramenti sono faziosi e tra una brodaglia che accomuna una destra misogina con un centro che sventola l’efficientismo e una sinistra che fugge dalle proprie responsabilità, il cittadino si trova schiacciato e confuso, eppur non dovrebbe votare di pancia, come qualcuno suggerisce, ma di testa per non confondere l’emotività con il futuro di coliche intestinali.
Il grande Totò gridava: siamo uomini o caporali? Parafrasando si potrebbe dire se siamo esseri pensanti o avvinghiati ai primordiali istinti che non vanno oltre il cibo e il sesso?
L’unica omologazione accettabile e quella di garantire a ogni essere vivente il cibo, l’istruzione e ogni diritto fondamentale e non quella di correre dietro all’illuminato di turno che sventola la sua verità come una verità globale.
Non ci sono condottieri e salvatori, ma solo interessi comuni o privati e il Referendum è un banco di prova per usare l’intelletto rivolto a consolidare o a evolvere. A questo siamo responsabilmente chiamati finché non si troverà un sistema politico avulso dalla tirannia della finanza e dai vacui mercati del comprare e vendere il lavoro altrui.