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Ucrainazisti: Perché i russi…

Ucrainazisti: Perché i russi…

Putin giustifica l’intervento militare in Ucraina per “denazificarla”. Ora, in guerra la realtà è sempre filtrata attraverso la propaganda, ma in effetti sul campo è attiva una formazione paramilitare neonazista – il Battaglione Azov – alle strette dipendenze dell’esercito regolare ucraino. Formato da volontari ucraini e stranieri con esperienza militare, ha ormai raggiunto l’organico di 3.000 uomini, al punto da cambiar nome in Reggimento operazioni speciali Azov. Dislocato nell’area del Mar nero, ostenta effettivamente simboli nazisti e finora ha dato filo da torcere agli schematici reggimenti russi. Meno numeroso è (o era) invece il 24° Battaglione d’Assalto Separato “Aidar”, che con 400 uomini operava nel Dombass contro i separatisti russi. Difficile avere su questi reparti informazioni attendibili e aggiornate: anche se posti sotto il comando dell’esercito regolare, tendono naturalmente ad essere autonomi, a seguire i loro capi e non sempre rispettano delle leggi di guerra. In più, tendono ad aumentare la loro fama con atteggiamenti esibizionistici a uso dei mass-media. Questo non significa che non sappiano combattere; il problema è che una gestione meno superficiale di queste compagnie di ventura gioverebbe innanzitutto al governo ucraino, il quale appoggia ed esalta reparti da cui dovrebbe invece prendere le distanze.

Andando però indietro negli anni, scopriamo però che c’è qualcosa di già visto. Parlo della 14° Divisione Waffen SS “Galizien”. Reclutata fra gli Ucraini d Galizia (una regione fra Polonia e Ucraina, da non confondere con l’omonima regione iberica) ma anche fra Slovacchi e altre minoranze ostili ai Sovietici e al Comunismo. Da un bacino di 80.000 volontari fu addestrato nel 1943 un contingente di 14.000 uomini, dove gli ufficiali tedeschi mantenevano i gradi più alti. La divisione fu mandata a combattere nel 1944 sul fronte orientale, dove fu pesantemente impegnata nell’area di Brody, distretto di Leopoli, Ucraina occidentale. Dal 19 luglio, dopo feroci battaglie, la divisione, assieme ad alcune unità tedesche, fu accerchiata e sconfitta dall’Armata Rossa. A dispetto della difficoltà del combattimento, la divisione seppe mantenere la disciplina e molti dei suoi membri furono capaci di infrangere l’accerchiamento. Dei 10.400 impegnati in combattimento se ne salvarono 7.000, che ripiegarono in buon ordine. Poco tempo dopo il reparto fu ricostituito attingendo alle riserve. Il 17 marzo 1945 emigrati ucraini crearono il Comitato Ucraino Nazionale per far valere gli interessi ucraini presso la Germania, ottenendo che la Galizien diventasse la 1° Divisione Ucraina. Nel frattempo l’Armata Rossa avanzava e la disfatta era solo questione di tempo. Fu a questo punto che la Divisione si arrese non ai Sovietici, ma agli Anglo-Americani. Fu la salvezza: gli stessi Inglesi che avevano consegnato ai Sovietici la Divisione del generale Vlasov (fanteria di linea ucraina armata dai tedeschi) e i Cosacchi stanziati in Carnia, stavolta non accolse le richieste sovietiche. 8000 prigionieri furono esfiltrati dall’Austria e internati in un campo di prigionia a Bellaria – Igea Marina, vicino Rimini e poi, su interessamento del Vaticano e dei governi Statunitense e Canadese, si favorì la loro emigrazione in Canada e in altri paesi sicuri. Diciamolo pure: gli andò bene. Anche se non furono mai trovate neanche da parte sovietica prove di crimini di guerra di cui si macchiarono altri reparti SS, non fu mai organizzato nessun processo serio sui membri di una formazione militare comunque armata dai Nazisti. Va detto che la Galizien fu impiegata tardi e come reparto militare sul campo, in difesa del territorio piuttosto che come polizia di occupazione, ma è indubbio che per una volta gli Alleati chiusero un occhio e il Vaticano discretamente fece la sua parte. In fondo, anche se peccatori, erano “buoni cattolici e ferventi anticomunisti”. Così li raccomandò il loro vescovo Ivan Buchko.

Negli ultimi anni le insegne della Galizien si sono viste in alcuni cortei in Ucraina, fin quando un tribunale ha ufficialmente stabilito con una sentenza che quei simboli sono nazisti e pertanto sono vietati.

Dopo Afghanistan anche in Ucraina una crisi umanitaria

Sono passati 6 mesi dalla fuga dei governi occidentali dall’Afghanistan e il risultato è stato tragico per chi confidava in un paese capace di garantire i diritti non solo per i prepotenti e sconfortante per chi aveva come obbiettivo la pacificazione.

Vent’anni anni non sono serviti, nonostante molti miliardi di dollari impegnati, alla realizzazione di una economia e di un sistema sociosanitario autosufficiente, se non quello di aver edificato qualche scuola e delle strutture di pubblico servizio, quando i fondi venivano gestiti dalle strutture militari o dalle organizzazioni umanitarie, senza dover sottostare alle richieste governative.

Un paese da un’economia fragile che si reggeva virtualmente sugli aiuti internazionali che ora vengono sospesi, anzi l’Occidente decide di sanzionare il governo afgano. Una scelta quella delle sanzioni contro i talebani con il solo effetto di aggravare le condizioni di vita della popolazione, senza avere alcuna conseguenza sul tenore di vita degli attuali governanti che per vent’anni hanno ricevuto cospicui finanziamenti per la loro attività terroristica e che ora continueranno a riceverli per la loro attività governativa.

Un servizio sanitario sorretto dall’impegno delle organizzazioni non governative (Emergency, Intersos) che continuano ad operare tra mille difficoltà, mentre le Nazioni Unite si sono fatte carico del pagamento degli stipendi. La maggioranza delle persone hanno difficoltà nel preoccuparsi cibo, mezzi di riscaldamento e gli indumenti per superare il periodo invernale.

L’Unhcr si è attivata per raccogliere fondi da devolvere alla sopravvivenza di migliaia di persone grazie anche alla donazione che si può fare, sino al 6 marzo 2022, inviando un SMS al 45588 con il costo di 2 euro o chiamando lo stesso numero da rete fissa per donare 5 o 10 euro.

Un’emergenza umanitaria che si ripropone con l’aggressione russa all’Ucraina per la quale l’Unhcr si trova affianco all’Unicef ed alla Croce Rossa per la raccolta fondi, iniziata il 27 febbraio con il solo numero solidale – 45525 – che permetterà alle tre organizzazioni, da sempre impegnate attivamente nelle crisi internazionali, di portare un aiuto concreto e di testimoniare la generosa vicinanza dell’Italia.

Un’invasione, quella russa all’Ucraina, dalle mille giustificazioni geopolitiche e fronteggiata dall’Occidente con una serie di sanzioni che come nel caso dell’Afghanistan colpirà la popolazione, mentre chi ha portato dolore e miseria non patirà alcuna sofferenza.

In Afghanistan quale danno possono subire i talebani dopo che per vent’anni sono stati e continuano ad essere foraggiati da organizzazioni e governi? Così Putin potrà continuare ad operare, avendo razziato le ricchezze russe, con il suo tono intimidatorio verso i suoi collaboratori e con il pacato sostegno della Cina.

L’Occidente in Afghanistan è intervenuto in forze, in Ucraina non può intervenire militarmente senza far scoppiare un conflitto internazionale, ma ha promesso aiuti finanziari e militari al governo ucraino che saranno difficili da far pervenire con le vie di comunicazioni in sofferenza.

Due popoli che si pongono verso la vita in diverso spirito ed ecco l’Afghanistan in miseria con dei genitori a vendere un loro rene o le loro figlie, mentre gli ucraini prendono le armi per reagire e difendere la famiglia dall’invasore.

C’è da riflettere su quanto l’Occidente si sente così benevolmente coinvolto con l’Ucraina, ben lontana dalla posizione interventista presa con il conflitto balcanica. L’Occidente si è dimostrato forte con i deboli e diplomatico con i prepotenti, d’altronde la Russia in quegli anni non era così bellicosi e la così detta società civile non era così presente, eppure i Balcani sono più in Europa che l’Ucraina e l’autodeterminazione dei popoli funziona a senso unico, l’unica voce coerente è quella del Papa.

Un’ultima riflessione è da dedicare ai profughi e sulla disparità di trattamento: mentre si erge un muro tra Polonia e Bielorussia, dall’Ucraina i “bianchi” sono agevolati nelle pratiche di accoglienza, ben diverso quello destinato agli altri.

Scompartimento numero 6: Sfuggenti, casuali viaggiatori

Il film è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice finlandese Rosa Liksom, nota in Italia anche per altri suoi libri (1). Chi li ha letti ha imparato ad amare i suoi personaggi usciti dal nulla, poco comunicativi, spesso in viaggio e frequentatori dei non-luoghi tipici del road movie. Qui siamo immersi piuttosto in un “rail movie”: i protagonisti viaggiano nello stesso scompartimento ferroviario e sono fin troppo diversi: una giovane, taciturna ricercatrice finlandese di archeologia e un giovane operaio russo, bullo e mezzo delinquente. Il libro è ambientato nell’Unione Sovietica di fine anni ’80 – ma davvero la Russia è cambiata una volta usciti dalle grandi città? – e si dipana per la Transiberiana. Qui però il film per esigenze narrative si concentra sul tratto San Pietroburgo – Mosca per poi puntare a nord verso Murmansk (mare Artico). La ragazza deve vedere alcune pitture rupestri, lui è stato assunto come operaio da una compagnia mineraria. Ogni volta che scendono dal treno di decente c’è solo la vodka, ma la vita a bordo non è facile: spazi stretti, convivenza difficile e lunghe soste in stazioni inospitali di città chiuse (2). Lui è brusco, ma si rivela generoso: ospita lei da una ciarliera vecchietta mezza parente, le rimedia una macchina (rubata?) e l’aiuta a cavarsela con russi disposti a tutto purché pagati: d’inverno il luogo dove si trova la zona archeologica è impraticabile e il meteo è proibitivo. Lei ha alle spalle una dolorosa storia d’amore (sembra; in realtà il suo malessere è più profondo) e in fondo si affeziona a questo simpatico mascalzone (diciamolo: è un classico) sfuggente quanto lei, ma più onesto di quanto sembra, mentre è proprio un connazionale della ragazza a rubarle la videocamera dove c’è anche il suo archivio personale. Ma è in fondo quando perde la memoria (digitale) che la ragazza si concentra su questo scontroso e solitario giovane russo, fin troppo caratterizzato (robusto, testa rasata, una cicatrice in fronte e l’aria spavalda; sembra uscito di peso da Educazione siberiana). Lo spazio claustrofobico dello scompartimento – a una stazione sale pure una famiglia con bambini – si alterna al lusso del vagone ristorante, dove a fine viaggio però servono solo panini (3). Inospitale è invece l’esterno: quando arriveremo a Murmansk e infine all’isolotto dove si trova questa famosa zona archeologica, ci ritroviamo in capo al mondo fra relitti di navi e inquinamento industriale. Lei vorrebbe in fondo legarsi a quest’uomo, ma lui non si fa mai prendere. Alla fine inevitabilmente si separano, ma ormai sono tutti e due cambiati interiormente e la convivenza in fondo non è stata così drammatica come si pensava all’inizio. Merito del film è infatti una ripresa fatta esclusivamente con camera a mano (molto realistica) e una sceneggiatura che riesce sempre a tenere sospesa l’attenzione dello spettatore. L’idea della convivenza forzata di caratteri diversi e di incontri improbabili durante un viaggio in un piccolo spazio chiuso non è nuova: è introdotta per la prima volta in un racconto di Balzac, Palla di sego (4) e ripresa da decine di film, persino in Ombre Rosse di John Ford. Qui il regista finlandese Juho Kuosmanen sfrutta al massimo le differenze culturali e caratteriali dei due protagonisti, con effetti anche divertenti. Il film è stato presentato al Festival di Cannes quest’anno e ha conquistato il Premio Grand Prix Speciale della Giuria.


Note:

  1. Stazioni di transito (1985, ed. it. 2012) e Memorie perdute (1986, ed. it. 2003) sono raccolte di racconti, mentre sono romanzi La moglie del colonnello (2019, ed. it. 2020) e Scompartimento n. 6 (2011, ed. it. 2014). La traduttrice è Delfina Sessa.
  2. Alcune città russe sono chiuse agli stranieri o a chi non ci lavora. Vi sono concentrate le industrie militari o comunque strategiche e sono del tutto prive di interesse per un turista. Vedi: https://www.iltascabile.com/societa/citta-chiuse/
  3. In Transiberiana , di Marco Pellegrino (1992) testimonia che in molte stazioni sovietiche cuochi e i ferrovieri si rivendevano i viveri pregiati, traffico che avveniva alla luce del sole.
  4. https://www.salernoeditrice.it/prodotto/palla-di-sego/

Scompartimento n.6
(Hytti nro 6)
Regista: Juho Kuosmanen
Con: Seidi Haarla e Yuriy Borisov
Genere: Drammatico
Anno: 2021
Paese: Finlandia, Russia, Estonia, Germania
Durata: 107 min
Data di uscita: 02 dicembre 2021
Distribuzione: BIM Distribuzione


Grigori Galitsin: Foto lontano dai clamori

Non so quanti conoscano l’opera fotografica di Grigori Galitsin. A vederlo, non ha niente del fotografo glamour, sembra più un contadino uscito da un racconto di Tolstoji. Nato nel 1957 in Ucraina (URSS), si è diplomato a Leningrado studiando prima pittura e poi fotografia, iniziando a lavorare nel 1997 con una Leica donata da suo nonno che l’aveva comprata da un ufficiale tedesco. Trasferitosi a Volgograd (già Stalingrado) nel 1996, l’anno successivo vince un premio Kodak e soprattutto inizia a specializzarsi nella fotografia erotica, alimentando i primi siti web del genere: MET-ART e DOMAI e poi gestendone dal 2002 uno tutto suo, Galitsin Archives. Entra in società col suo collega norvegese Petter Hegre (anche lui dedito alla foto erotica) per litigarci nel 2004 e fondare Galitsin News, seguito nel 2006 da Nud-Art. A Volgograd lo studio era nel suo appartamento e la sua attività era ignota ai vicini, al massimo incuriositi dal suo alto tenore di vita. La maggior parte delle foto era scattata nei dintorni di Volgograd o in un albergo di Mosca. I primi guai li ebbe con l’India, dove in un “salone” aveva realizzato un servizio sul massaggio ayurvedico non gradito alle autorità indiane. Il video era stato postato su Galitsin News. Ma il peggio doveva venire: nel 2006 fu arrestato insieme alla moglie Irina (1) dalle autorità russe con l’accusa di aver violato gli articoli 133 e 242.1 del Codice penale russo (coercizione tramite ricatto per commettere atti sessuali; produzione e diffusione di materiale pornografico con minori). Il 26 ottobre Galitsin si appellò direttamente a Putin, ma ancora nel 2007 il processo non si era concluso. Nel 2009 lui e la moglie uscirono di prigione, anche se la vicenda ebbe ancora strascichi giudiziari. Nell’ottobre del 2014 lui, la moglie e i due bambini (ora sono tre) si trasferiscono in una fattoria nel distretto di Volgograd dove i risparmi erano stati investiti in un’azienda modello per l’allevamento di una rara specie di suini pelosi, i “Mangalica”, e facendo foto solo in famiglia (2). Il suo unico fotolibro in circolazione, Galitsin’s Angels, sul mercato del collezionismo viene venduto a non meno di 250 euro (3), Recentemente il nostro fotografo ha timidamente ripreso la sua attività, segno di un atteggiamento diverso del governo russo verso l’erotismo: Galitsin ha una pagina Facebook e soprattutto si finanzia attraverso il sito Patreon, che permette agli abbonati di avere foto esclusive, seguire le prove in studio e corrispondere direttamente con lui. Posso testimoniare che il Maestro risponde anche sulle domande tecniche (luci, obiettivi, etc.), cosa che non tutti i fotografi fanno. Le sue foto sono raffinatissime, ma lui resta un uomo alieno da qualsiasi mondanità.

E parliamo delle foto. Protagonista assoluto è il corpo femminile, ma non straniato come in Helmut Newton o apparentemente freddo come in Petter Hegre, né ancora falsamente verginale come in David Hamilton. L’innocenza si direbbe un optional. Sono donne giovani e spesso diverse una dall’altra (la Russia è un paese immenso), ma sempre profondamente femminili, ora immerse nella natura, ora riprese in scenografie minimaliste, con un attento uso della luce. Grande cura per i dettagli: un cappello, un fiocco, un oggetto di trovarobato. La bellezza è nella semplicità, anche se si capisce che dietro ogni foto c’è uno studio accurato, maniacale, che ora possiamo anche seguire nei video riservati al fan club.

NOTE:

  1. Irina era una sua modella, meglio nota come “Valentina”
  2.  Buffi i commenti della stampa locale: “passa dalle modelle ai maiali” . (in calce alla voce “Grigori Galitsin” su Wikipedia, in inglese.
  3. Galitsin’s Angels: From Russia with Love. Munich: Edition Reuss. 2005. ISBN 3-934020-34-8

Tripoli bel suol d’errore

Nel momento in cui scrivo si è svolta la conferenza di Berlino senza che nessuno dei due contendenti abbia firmato il protocollo finale. La tregua regge, grazie anche alla mediazione russa, ma Haftar blocca la metà dell’export di petrolio libico “perché lo chiede il popolo” (già sentita altrove), dimostrando di marcare stretto il suo avversario e di avere una strategia alternativa alle armi. Ma comunque vadano le cose, noi italiani siamo fuori o almeno al margine del Grande Gioco, gestito da ben altri attori e condotto da eserciti più o meno organizzati. E se cerchiamo di andare oltre le dichiarazioni alla stampa, non ci vuol molto a capire che dietro alle dichiarazioni dei nostri politici c’è poco: dopo aver per settimane detto che era auspicabile una soluzione negoziata (banale) e che si doveva fare ogni sforzo per la pace (id.), siamo disposti a mandare i nostri militari solo ad acque ferme, ma in genere i soldati si mandano per placare le onde. Sempre meglio dei quattordici mesi durante i quali agli Esteri c’era Moavero Milanesi: della Libia vedevamo solo l’incubo degli immigrati trascurando il resto. Sicuramente paghiamo gli errori del 2011, quando pressati da Francesi e Americani la guerra ce la siamo dichiarata da soli e il debole governo Berlusconi scaricava l’amico Gheddafi da un giorno all’altro. Lo stesso Berlusconi che ora lamenta la mancanza di un nuovo Gheddafi e irride i nostri attuali ministri fu in realtà corresponsabile del caos successivo: nessuno infatti aveva un progetto per il dopoguerra in un paese dove convivono 140 clan e dove non c’era un parlamento. Ma stare alla finestra, auspicare la pace o il negoziato o pensare a un embargo delle armi quando nel frattempo tutti hanno fatto quello che volevano resta poco più che una tardiva esercitazione retorica. Anche a Berlino si è parlato di interrompere il flusso delle armi, ma chi si doveva rifornire l’ha già fatto da tempo. Chi passa alle armi la guerra vuole vincerla e poco si cura del resto. In più, imporre un embargo significa far uscire le navi da guerra per farlo rispettare. La verità è che il governo italiano ha perso un anno di tempo e partiva male, visto che il rappresentante politico riconosciuto dalle Nazioni Unite e da noi patrocinato si è rivelato troppo debole. Non è tutta colpa nostra: Obama ce lo aveva raccomandato, ma Trump, il nuovo presidente, decideva che la Libia non era strategica per la politica americana e noi ci siamo trovati soli non solo contro Haftar, mediocre militare di carriera, ma anche contro i suoi protettori, attori come Russia, Egitto, Arabia Saudita e Francia. Sicuramente i nostri interessi sono in Tripolitania, mentre in Cirenaica avevamo problemi già all’epoca delle colonie. Ma, ossessionati dal problema dell’immigrazione, abbiamo visto corto e del resto neanche Al Serraj ci ha aiutato molto. Messo alle strette da Haftar, alla fine ci ha chiesto armi e soldati che non potevamo comunque dare se non all’interno di un mandato ONU e senza violare l’art. 11 della Costituzione; quindi si è rivolto ai Turchi – musulmani ma non arabi – i quali possono mandare anche una brigata di fanteria senza troppi problemi politici (la logistica è un altro discorso). Dopo un secolo dunque i Turchi si riprendono Tripoli, da cui li avevamo sloggiati nel 1911-12. Al Serraj forse non sa che chiamare in aiuto un esercito straniero significa la perdita di indipendenza e noi italiani ne sappiamo qualcosa, visto che ci abbiamo messo secoli prima di levarci di torno chi voleva governare al posto nostro, né è detto che ci siamo ancora riusciti. Ma questo è un altro discorso. Il paradosso è che siamo in questo momento alleati di una media potenza – la Turchia – che manda in giro mercenari siriani e nel frattempo ha firmato con la Libia un trattato che di fatto spezza in due il Mediterraneo orientale e ipoteca la nostra presenza nella gestione del petrolio libico (le concessioni dell’ENI) e nello sfruttamento della piattaforma naturale fra Cipro e le isole greche. Ma quando una nostra nave ENI è stata cacciata dalle acque attorno a Cipro più di un mese fa non abbiamo battuto ciglio, salvo mandare in crociera da quelle parti una nave della nostra Marina un mese dopo. La prassi diplomatica suggeriva almeno di convocare l’ambasciatore turco per consultazioni. Tenendo presente che quel trattato è illegale pesta i piedi anche a Grecia, Egitto e Israele, forse qualcosa si poteva anche fare. Quanto all’Europa come entità politica, si doveva muovere prima e in modo coordinato, anche se nessuno si fa illusioni sulla sua coesione politica. Ora la Germania ha preso l’iniziativa diplomatica, anche perché dipende molto dal gas e petrolio russi e la partita di gioca su più tavoli, ma l’Italia è stata l’ultima a capire che non si può far niente da soli. Sicuramente l’Europa si è mossa tardi e in modo poco coordinato, ma sappiamo bene che alcuni singoli paesi – penso alla Francia – perseguono da sempre interessi nazionali, che peraltro sanno individuare meglio di noi. D’altro canto i governi Turchi, Russi e Statunitensi sono coscienti che in Europa la guerra non vuole più farla nessuno e si regolano di conseguenza, anche se la diplomazia suggerisce di avvertire almeno gli alleati delle proprie intenzioni: la Turchia è pur sempre un paese della NATO. Purtroppo, la situazione internazionale ricorda l’inerzia del 1938, quando a chi voleva espandersi a spese degli altri fu concesso tutto in cambio di niente, col risultato di scatenare la guerra mondiale che alla fine tutti hanno dovuto combattere. Sicuramente l’attuale sistema delle relazioni internazionali e del bilanciamento delle potenze limita il rischio di una guerra su larga scala, ma i conflitti locali o per procura mostrano da tempo i limiti delle Nazioni Unite nel saperli evitare e gestire. Si direbbe che il trend attuale è la distruzione degli stati deboli e non allineati e la successiva spartizione in zone d’influenza, com’è avvenuto in Iraq e in Siria. Sono conflitti misti, dove si vedono sul campo sia eserciti regolari che bande irregolari, più formazioni di duri mercenari legate ai governi in campo(rispettivamente siriani al servizio dei Turchi e il neanche tanto misterioso Gruppo Wagner gestito dai Russi, più sudanesi e forse chadiani . A Berlino si è detto di disarmare le milizie (600 circa, divise fra 140 clan, ndr.) ma nessuno ha parlato di mercenari, segno che per ora è un problema di difficile soluzione. Comunque vadano le cose, la Libia potrebbe essere di fatto spartita tra Russia e Turchia, vista la sua divisione storica fra Tripolitania e Cirenaica, più a sud l’enorme Fezzan. Fu infatti proprio l’Italia coloniale a unificare il paese, percorso proseguito da Gheddafi nei suoi 42anni di potere, durante i quali comunque egli fece anche gli interessi del suo popolo. Dal canto nostro potevamo offrire tecnologia e infrastrutture in cambio di petrolio, quindi possiamo dire benissimo che Italia e Libia avevano economie complementari. Come andrà ora ancora non lo sa nessuno, ma è intuitivo pensare che ditte turche e russe si guadagneranno le concessioni petrolifere scalzando l’ENI e forse anche i Francesi, la cui condotta politica ha sfiorato la diplomazia parallela ma poco può fare con attori del calibro dei Russi. Tutto il resto a noi in fondo interessa poco, ma proprio per questo la nostra politica estera avrebbe dovuto essere meno passiva. E qui una nota personale: quando parlo con amici stranieri di un certo livello culturale, non è facile spiegar loro perché un paese messo da Madre Natura in mezzo al Mediterraneo non riesca mai ad avere un ruolo di protagonista, e questo non solo dal secondo dopoguerra. Le ragioni le spiegava l’ambasciatore Sergio Romano: perché non sappiamo identificare gli interessi nazionali. A questo aggiungo l’opinione di Edward Luttwak: perché non abbiamo una forte coesione nazionale. Di mio aggiungerei: perché attualmente abbiamo una classe politica ma non una vera classe dirigente. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.