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Turchia: Un regime che vuol governare facile

Turchia Un regime che vuol governare facileIl sultano Erdogan, dopo un tentativo di golpe, ha creduto di aver debellato l’opposizione e vincere con percentuali filosovietiche il referendum per una riforma costituzionale in senso presidenzialista forte, ma i SI, con il loro 51,2%, hanno solo evidenziato una Turchia divisa a metà.

Una Turchia divisa a metà, nonostante le prigioni sovrappopolate, tra una popolazione urbanizzata che guarda ad un futuro europeo e una rurale che si affida al custode della tradizione di una rifondazione ottomana.

Una maggioranza risicata che Erdogan cerca di esorcizzare con una battutina: “L’importante è vincere, 1-0 come 5-0”, ma da adito alle opposizioni di sospettare di brogli con 2,5miloni di schede sospette, anche se l’Alta commissione elettorale suprema (Ysk) boccia i ricorsi e ammette nel conteggio anche le schede senza timbro ufficiale.

L’ambizioso sogno di Erdogan di poter, Allah volendo, governare sino al 2034 ha anche l’avallo di Trump, mentre la Ue, tramite Osce (Organization for Security and Cooperation in Europe), afferma che sono stati «Violati gli standard internazionali».

Nonostante tutto Erdogan potrà festeggiare l’anniversario della repubblica turca, e magari del suo fondatore Ataturk, nel 2023 e continuare a gridare contro “le nazioni crociate”.

Forse in Turchia si sta collaudando una forma di Democrazia ibrida, dove un sistema di “governo nel quale, oltre al fatto che si tengano delle elezioni, i cittadini sono completamente tagliati fuori dalla conoscenza di tutto ciò che concerne il potere e le libertà civili.” (Da Wikipedia), diventerà una Democratura o una DittoCrazia? Qualunque sia il vocabolo è un sistema di governo che tanto piace a Trump e a Putin.

La Democrazia turca è sempre più squilibrata verso un sistema Autoritario, dove i Diritti Umani sono una pura Utopia barattati con una pretesa sensazione di sicurezza.

La detenzione di giornalisti con capi d’imputazione inconsistenti?????????????????????????????????????????????????????????come per il corrispondente del giornale tedesco Die Welt Deniz Yucel o non specificati come nel caso dell’italiano Gabriele Del Grande.

Si può ricondurre l’inizio di questo giro di vite sulle libertà civili alla repressione muscolare che il regime turco ha effettuato per arginare le proteste di Gezi Park del 2013, iniziate per salvaguardare l’omonimo uno spazio verde di Istanbul dalla speculazione immobiliare che lo minacciava.

Realizzare l’ennesimo ponte o tunnel tra la sponda asiatica e quella europea non dichiara comunque la sincera volontà del leader turco di essere disponibile al dialogo e avvicinare la Turchia all’Europa, quando è sempre più difficile discutere, ridere, contraddire la voce del padrone che si appresta alla reintroduzione della pena di morte.

È difficile pensare che delle periodiche chiamate alle urne per eleggere dei rappresentanti in Parlamento possa rendere una nazione democratica, come dimostrano le elezioni in Siria o in Kazakistan.

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Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza

Migrazione Orban sfida la Ue per una nuova accoglienza Viktor-OrbanL’Ungheria di Orban ci riprova, con il suo senso nazionalistico, a scoraggiare i migranti nel passare per quelle contrade. Dopo il Muro e la proposta di relegare clandestini su un’isola del nord Africa, da dove potranno fare domanda d’asilo, è ora la volta di fare un ulteriore passo in avanti per irritare l’Unione europea nella proposta di accogliere i migranti in strutture carcerarie, con la motivazione di prendere le dovute precauzioni contro l’imperante minaccia terrorista.

Questa particolare scelta di Orban, diversamente dalle precedenti iniziative, può avere degli aspetti relativamente umanitari, nell’accogliere persone che hanno affrontato pericoli ed esposti alle intemperie di un inverno che non ha scoraggiato la fuga dalle zone di conflitto, raggruppandole in strutture carcerarie dove non gli si negherà cibo e assistenza sanitaria, invece di lasciarli senza un tetto, in balia delle intemperie.

Ma Orban non si vuol limitare a reinterpretare personalmente il significato di assistere il prossimo in difficoltà: vuole avere il completo controllo, mettendo al bando ogni persona impegnata nel rispetto dei Diritti umani e le organizzazioni come Hungarian civil liberties union, Transparency international e Hungarian Helsinki commitee, legate al finanziere d’origine ungherese e di genitori ebrei George Soros, accusandolo di essere al servizio dei poteri forti e di tramare contro il governo.

Mentre in Francia, tra le montagne della valle della Roia, Cédric Herrou è un uomo dedito all’allevamento e all’agricoltura e interpreta alla lettera l’insegnamento, non solo cristiano, di dare ospitalità allo straniero, offrendo non solo un giaciglio e un pasto ai migranti di passaggio, ma aiuta i migranti a passare il confine senza dover sottoporsi alla dura burocrazia delle nazioni.

Fermare i profughi è impossibile: la via balcanica non è stata mai chiusa e la via mediterranea non ha cessato di essere utilizzata.

Nonostante i pericoli che comporta una migrazione affidata ai trafficanti di esseri, l’umanità che fugge non rinuncia alla possibilità di trovare un luogo lontano da conflitti e carestie, senza dover aspettare di essere scelti per i Corridoi umanitari.

Un mezzo quello dei Corridoi umanitari ben collaudato dalla comunità di Sant’Egidio, con la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese. Un progetto, finanziato con l’8 per mille e protocollo d’intesa firmato con il Viminale e la Farnesina, che ha portato in Italia un numero di rifugiati non lontano da quello che l’intera Unione europea è riuscita sinora a ricollocare, con tanta parsimonia, nei singoli paesi.

I vertici dell’Unione europea non si lasciano scappare occasione per stigmatizzare la necessità di non lasciare la questione dei migranti solo sulle spalle dei paesi in prima linea (Grecia, Italia, un po’ Malta e Spagna in minima parte), ma non riesce ad essere altrettanto convincenti a far rispettare la ridistribuzione migratoria come quando minacciano sanzioni ai paesi inadempiente verso le percentuali deficitarie.

Una nuova iniziativa dell’Unione europea intende schierare le navi a ridosso delle coste per dissuadere i trafficanti della migrazione a mettere le bagnarole in mare. Per questo progetto la Ue stanzia 100milioni di euro per il governo libico riconosciuto dall’Onu.

Trattare con uno dei governi che attualmente legiferano in Libia non appare una buona mossa, tanto più se accompagnata da un’elargizione di milioni di euro in stile accordo euro-turco.

La Ue ha mostrato tutta la debolezza nell’affidare alla Turchia il ruolo Migrazione Orban sfida la Ue per una nuova accoglienza muro_54131882di sentinella dei confini europei, senza permettere al Commissario europeo per le migrazioni, il greco Dimitris Avramopoulos, e al lettone Nils Muižnieks, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, di vigilare sul rispetto dei Diritti nei luoghi di “filtro” migratorio.

È oltre modo utopistico poter scuotere le coscienze dei benestanti in pelliccia e cravattino sulle pene di un’umanità in migrazione con Fuocoammare, il lavoro pluripremiato di Gianfranco Rosi e ora candidato all’Oscar come miglior documentario, come ottimistico è affidare ad operazioni navali come Mare Nostrum e Triton o all’agenzia Frontex la sicurezza e la gestione dei confini europei.

Non ultimo è l’impegno di nel ministro degli Interni Marco Minniti nel non lasciare in mano della destra lo scettro della mano pensante verso la migrazione, organizzandosi per  aprire un centro Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) in ogni regione, per una specie di internamento del frutto dei “rastrellamenti” attuati nelle città per scovare chi viene trovato privo di documenti, senza utilizzare un carcere, adeguandoci all’idea di accoglienza modello Orban.
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Turchia: Il Sultano senza freni

turchia-erdogan-146026_600Senza alcun timore Erdogan sta rendendo le carceri un’industria redditizia, affollate come sono di magistrati e giornalisti, d’intellettuali e politici, ma anche di artisti e militari. Parte dell’intellighenzia turca soggiorna nelle galere, essendo stati liberati 38mila posti dai detenuti comuni con l’indulto del post tentato golpe, in gran parte nelle 118 strutture penitenziarie più grandi, collocate nelle periferie delle grandi città, con ospedali, moschee, supermercati, campi sportivi e alloggi per le guardie, oltre ai tribunali che sono andati a sostituire i 187 carceri chiusi negli ultimi dieci anni.

La chiusura dei carceri, come quello di Bakırköy, hanno l’obbiettivo di una riqualificazione urbana, liberando i terreni occupati dalla prigione per far spazio a progetti immobiliari proposti da imprenditori vicini al governo, ma anche per portare la popolazione carceraria a 250mila detenuti entro la fine del 2017.

Un modello carcerario ispirato dagli Stati Uniti, delle città penitenziarie dove raggruppare diverse strutture detentive e tutto il necessario per la vita delle guardie e delle loro famiglie, sradicando il detenuto dal suo contesto, rendendo per le famiglie meno ambienti o addirittura povere difficile far visita al loro congiunto detenuto in un luogo lontano dalle città.

Un’ulteriore pena inflitta anche alle guardie che si vedono costrette ad una vita inglobata nel solo ed unico ruolo professionale, lontano da ogni dialogo e confronto con la società e le sue differenti persone che la compongono, ma in compenso queste strutture si avvicineranno agli standard internazionali e la loro realizzazione arricchirà le aziende che operano nel settore dell’edilizia pubblica.

Inoltre dal 2015 oltre 40mila detenuti sono stati impiegati in diverse attività, anche questo preso in prestito dal modello carcerario statunitense, dalla confezione di uniformi all’allevamento di bovini, alla stampa di documenti amministrativi.

Manodopera a buon mercato, con tutele inesistenti, contribuendo alla crescita del Pil turco e aprendo all’inserimento di un liberalismo selvaggio, dove il lavoratore può anche essere affittato ad aziende private per capi di sartoria o lenzuola, trasformando il penitenziario da soggiorno ozioso in luogo di produzione forse non tanto dissimile dalla visione chapliniana del lavoro frenetico e continuo di  “Tempi Moderni”.

L’Unione europea, nonostante il rinnovamento delle strutture penitenziarie e di queste fabbriche che contribuiscono alla crescita turca, sembra preoccupata per incarcerazioni troppo disinvolte praticate da Erdogan nei confronti di ogni possibile sospettato di non pensare al bene della Turchia che fino ad ora si erano “limitate” a giornalisti e curdi, oltre che ai sedicenti golpisti, ma con l’arresto di alcuni parlamentari del partito filo-curdo HDP l’Unione si è sentita in dovere di stigmatizzare in un comunicato che gli arresti “compromettono la democrazia parlamentare in Turchia”.

turchia-erdogan-stampa-vignettaTra le vittime dell’arroganza paranoica e protesa verso un presidenzialismo esasperato di Erdogan c’è anche la scrittrice Ash Erdogan, arrestata nella sua casa la notte del 16 agosto al 17, accusata di terrorismo solo per la sua collaborazione al giornale Guden Ozgun, per dar voce alle rivendicazioni dei curdi.

Giro di vite dopo giro, ritornando alle assonanze di carcere come fabbrica, le libertà continuano ad essere ulteriormente ridotte e il sultano Erdogan sta trasformando un governo autoritario, ma democraticamente eletto, in una forma di dittatura elettiva, mentre l’Occidente non può andare oltre generici comunicati di protesta, perché la Turchia, comunque sia, è importante per l’Europa come per Stati uniti nello scacchiere internazionale.

La Nato ha delle basi in Turchia e l’Unione europea conta su Erdogan per bloccare e filtrare la migrazione e finché l’Occidente non troverà un nuovo assetto geopolitico, e si riappacificherà con la Russia, potrà solo fare dei generici comunicati di disapprovazione sul rispetto dei Diritti umani o tutta al più del sarcasmo verso le sollecitazioni “poetiche” di un ministro del Sultano alle madri turche di cantare delle ninne nanne per celebrare le gesta di Erdogan impegnato a portare, entro il 2071, il paese della mezza luna alla grandezza pari, se non superiore, a quella conquistata con la battaglia di Manzikert, tra gli ottomani e l’occidente, per la terra che un giorno sarebbe diventata la moderna Turchia.

turchia-erdogan-1469094288589-jpg-vauro__la_vignetta_ferocissima_su_merkel_ed_erdogan_-550x370Erdogan, tra incarcerazioni e nenie, si prepara a cancellare la repubblica turca, mentre l’Ue rimane ostaggio dell’accordo sui profughi, confidando sulla possibilità di trovare i voti necessari per fare approvare una riforma in senso presidenzialista da sottoporre a referendum popolare.

Madri che intonano epiche nenie sulla traccia dell’Ariosto “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, / che furo al tempo che passaro i Mori….” (Orlando Furioso), per trasformare un nazionalismo laico in islamico, per preparare la Turchia ad un governare dittatorialmente eletto.

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Da un emisfero all’altro l’etica traballa quanto le valute

L’Argentina e la Turchia sembrano accomunate non solo dalla difficoltà delle rispettive valute, ma anche da un’instabilità politica.

Un raro esempio quello della Turchia e dell’Argentina dove la politica influenza l’andamento finanziario e non il contrario.

Le difficoltà di due paesi che cercano di emergere mettono in ansia quelli cosiddetti “industrializzati” e gli Stati uniti non aiutano ritirando gli stimoli monetari della Federal Reserve e frenando il Quantatitive easing, l’immissione di nuovi quantitativi di dollari.

Con il recente Discorso dello Stato dell’Unione Barack Obama dà grande risalto alla timida ripresa statunitense e ne approfitta per sfidare il Congresso con una serie di riforme volte a  marcare la sua presidenza, riforme  che dovrebbero aprire la società alla regolarizzazione di milioni di migranti e dare nuove opportunità alle famiglie americane aumentando il salario minimo di alcune centinaia di migliaia di impiegati federali ed eliminare la disparità salariale tra uomini e donne.

Riforme che contemplano la creazione di un fondo pensioni sostenuto dal governo e che dovrebbero essere varate scavalcando l’iter legislativo del Congresso, minacciandolo con il veto presidenziale su ogni proposta atta a inasprire le sanzioni contro l’Iran, puntando alla diplomazia per sciogliere il nodo del programma nucleare iraniano, sventolando la bandierina del raggiungimento dell’indipendenza energetica sino a ribadire il suo impegno per chiudere Guantanamo nel 2014.

Nelle priorità statunitensi ci sono anche lo sviluppo di nuovi accordi commerciali con l’Ue nonostante le periodiche minacce europee di bloccare i negoziati di libero scambio e  con l’Asia del Pacifico che aiuteranno a fronteggiare l’egemonia cinese e a creare posti di lavoro in America.

Un palliativo rispetto a un default di Detroit e il rischio che altre città statunitensi o d’interi territori come quello di Porto Rico possano seguirne l’esempio. L’ex paradiso caraibico e protettorato degli Stati Uniti è sconvolto dalla crisi economica, dal malgoverno e dalla delinquenza dilagante che ha innescato un esodo.

L’Europa, come il resto del mondo, è a caccia dei ricchi cinesi, ma in Cina non è tutto oro quello che luccica e come ogni paese che si crede industrialmente avanzato sta vivendo al di là dei propri mezzi, accumulando una montagna di debito, non solo derivante dall’acquisto dei titoli statunitensi per sostenerne l’economia, ma anche dallo sviluppo immobiliare indiscriminato, dalle migliaia di nuovi musei in costruzione, che solo con le opere degli artisti autoctoni non saranno sufficienti a riempirli. Tutto questo è una minaccia per la sua crescita.

George Soros, il miliardario investitore, afferma che “Ci sono alcune somiglianze inquietanti con le condizioni finanziarie che hanno prevalso negli Stati Uniti negli anni precedenti il crollo del 2008” ritenendo che la Cina “è a corto di vapore”.

La Cina si sta esponendo troppo con l’acquisto smodato di terre, con il Land grabbing, principalmente nei paesi africani con l’agricoltura e l’estrazione mineraria, offrendo in cambio finanziamenti e infrastrutture.

Un’espansione che potrebbe portare la Cina a una possibile crisi che vuol affrontare non solo agevolando la migrazione, ma puntando anche su una “deportazione” di massa di 250 milioni di cinesi e portare il settanta per cento della popolazione in città, rendendo appetibile lo sviluppo immobiliare e favorendo il consumismo nonostante le nuvole di smog perennemente stazionate sulle principali metropoli.

Così i paesi emergenti come quelli raccolti sotto l’acronimo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) cominciano ad accusare il fiatone, magari per far posto al Mint (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia), dopo anni di grandi conquiste e risultati sui mercati per una galoppata del Pil, che si sta trasformando in trotto, sempre superiore al blando passo dell’Occidente per aver focalizzato il loro impegno sull’industrializzazione e sulla conquista di fonti energetiche permettendo grandi guadagni per le minoranze, senza preoccuparsi di realizzare i cambiamenti sociali necessari a rendere stabili le singole economie.

L’Argentina aveva impostato la sua rinascita su una forma di autarchia che teoricamente avrebbe dovuto dare dei benefici a tutti se i profitti fossero stati reinvestiti nell’economia argentina e non in fughe valutarie, mostrando una scelta fragile e obbligando la presidentessa Kirchner, certamente non aiutata dai recenti risultati elettorali delle politiche parziali, a svalutare il peso e allentare le restrizioni in vigore da oltre due anni sugli acquisti di valuta estera, passando da un fittizio cambio alla pari con il dollaro negli anni ’90 agli attuali 8 pesos per un biglietto verde. Uno choc per la maggioranza degli argentini che già prima doveva essere attenta al bilancio famigliare per  scelte economiche influenzate dal panico e da calcoli elettorali.

Una svalutazione quella argentina che doveva essere effettuata prima che fosse risultata impopolare in occasione delle elezioni. Prima e con oculatezza, senza ricorrere a espedienti demagogici come quelli di un sostegno ai giovani dai 18 ai 24 anni senza lavoro o con un lavoro “ufficioso” o quello di sperperare il denaro pubblico per facilitare il pagamento delle bollette elettriche e del gas in modo indiscriminato.

Ricchi che godono delle stesse agevolazioni dei poveri, mentre quelli del ceto medio guardano in alto e fanno gli scongiuri per non cadere nel baratro degli indigenti e all’orizzonte appare lo spettro del default a Buenos Aires.

La Turchia delle grandi opere e dei bassi salari si è andata a scontrare con il dinamismo della Magistratura e della Polizia nell’indagare su una serie di azioni corruttive che vedono coinvolti i familiari di alcuni esponenti di primo piano del governo Erdogan.

Erdogan, al pari della Kirchner e di altri capi di stato, non ha niente di meglio che gridare al complotto, ma la verità è che i governanti si fanno imbambolare da palliativi d’immediato effetto, mancando di lungimiranza per realizzare una solida struttura sociale che sollevi dalle difficoltà la maggioranza della popolazione e non punti sullo sfrenato consumo delle minoranze facoltose per propagandare un benessere diffuso.

Due paesi quelli dell’Argentina e della Turchia che non hanno un gran peso nello scacchiere economico internazionale, ma sono capaci, come ogni granellino di sabbia, di creare dei problemi nell’ingranaggio.

Gli argentini come i turchi e tutta l’umanità dei paesi emergenti, emersi o sottomessi, non possono confidare nei capricci delle ricche minoranze o sperare di vincere la lotteria per uscire dal quotidiano conteggio delle entrate e delle uscite del bilancio familiare.

Quella della lotteria è una soluzione presa in considerazione dal Portogallo per combattere la frode fiscale, favorendo l’utilizzo degli scontrini, validi solo con il codice fiscale dell’acquirente, come ricevute delle giocate. Il Portogallo è stato preceduto dalla Cina, dal Brasile, nello stato di San Paolo, dall’Argentina e da Taiwan.

Non si disquisisce sull’incremento del Pil agganciato alla crescita per sognare migliori condizioni di vita della maggioranza dei cittadini, ma si deve puntare sulla ridistribuzione della ricchezza con scelte stabili che non prevedano repentine svalutazioni per dare spazio alle esportazioni che arricchiscono le classi privilegiate ma per far lavorare i molti, rivalutando la moneta e acquistando a prezzi vantaggiosi le materie prime necessarie alla produzione.

Non può essere così semplice ridurre tutto a un teorema focalizzato su salari bassi e maggior produttività, perché il fine ultimo della merce è essere comprata, non solo messa in vendita e il 10% dei ricchi non potranno comprare tutto quello che si produce.

Sembra che la felicità di alcuni dipenda dall’infelicità di molti in un susseguirsi di sali e scendi tellurici, ma chi attualmente ha in un mondo globalizzato la forza di giocare ai rialzi e ai successivi ribassi delle quotazioni valutarie e finanziarie senza far infuriare le altre nazioni?

Forse sarebbe opportuno ripensare non solo a un riordino bancario finanziario, ma soprattutto come e cosa offrire ad ogni costo sullo sterminato scaffale del consumo e poi come smaltirlo quando si scopre obsoleto.

La situazione non è circoscritta solo all’Argentina e alla Turchia, ma anche alla Spagna che nei riguardi del paese latinoamericano si trova esposta con le sue banche, alla Russia che accusa l’indebolimento del rublo e alla Samsung, in Corea del Sud, che si trova in difficoltà rispetto alla concorrenza multi produttiva dell’Apple, Lenovo e Huawei; solo per citare i casi più evidenti. Ma anche la Grecia e il Portogallo che avevano tirato un respiro di sollievo rivivono gli equilibrismi dei loro titoli di Stato, come anche l’Italia che ha visto lo spread superare quota 200 per poi stabilizzarsi al di sotto.

Probabilmente sono solo “rimbalzi tecnici”, come amano stigmatizzare i broker davanti alle periodiche cadute in borsa, o sono i segni premonitori di ulteriori cambiamenti nello scacchiere internazionale, che mescolano interessi “privati” a quelli delle speculazioni e dei contratti commerciali ad ogni costo, a quelli pubblici, alla guerra al terrorismo ed ai cambiamenti climatici, mescolando fino all’eccesso, trasformando le insalate in passati di verdura dove ogni ingrediente è indistinguibile dall’altro.

L’etica esce nuovamente sconfitta dalle tante morali dove il fare affari non guarda in faccia all’interlocutore con il quale stipularli e i freddi rapporti di numeri e statistiche non tengono conto dei disagi sociali. Una situazione paragonabile a quella pre-Primavere arabe, dove diplomatici e politici non si erano accorti di quanto stava bollendo nel pentolone dello scontento per poi correre ai ripari in ordine sparso, facilitando involuzioni e caos separatisti.

La finanza islamica, presente da decenni nella City londinese, propone i Sukuk, nel nome riecheggia la musicalità del mercato arabo conosciuto come Suk, un titolo ligio ai principi islamici, eticamente apprezzabile nell’escludere investimenti di natura speculativa come i derivati, ma accettando le attività immobiliari. Bandendo i commodity futures o gli investimenti nei settori come la pornografia, il tabacco, la carne di maiale, le bevande alcoliche e gli armamenti, i Sukuk sono dei bond “halal” a tutti gli effetti.

La storia dei Sukuk, strumenti finanziari dalle radici antiche, può essere ripercorsa nel libro Bond islamici alla conquista dei mercati (2012) di Federica Miglietta.

Ma l’etica potrebbe dimostrarsi il tallone di Achille delle banche islamiche con la loro scelta di ridurre al minimo le riserve liquide, apparendo come dei soggetti a maggior rischio rispetto alle altre banche, dimostrando che le buone intenzioni non pagano.

Il Mondo si sta aprendo a un multipolarismo, come viene prospettato nel dossier dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), che ridimensionerà il ruolo statunitense e di tutto l’Occidente con sviluppi difficilmente prevedibili dove uno dei fattori variabili è proprio il sistema finanziario.

 

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Autocrazia Ottomana

I recenti avvenimenti turchi stanno avallando i dubbi avanzati da alcuni osservatori sulla democrazia d’impronta islamica perpetrata dal governo di Recep Tayyip Erdoğan all’indomani delle elezioni del 2002.

Erdoğan ha silenziosamente guidato la Turchia verso un’islamizzazione strisciante, limitando la laicità promossa da Moustafah Kemal Ataturk nel fondare la Turchia moderna e per una democrazia autoritaria. Una visione personalistica della democrazia molto simile a quella di Putin con l’addomesticamento della Turchia con ogni mezzo compreso l’arresto in massa di chi manifesta e di chi li difende davanti alla Legge.

Un indirizzo che non era evidente per tutti, ma le restrizioni sulla vendita degli alcolici o l’incoraggiare l’uso del velo in ogni luogo hanno ampliato lo scontento che la cementificazione di uno spazio verde di Istanbul non ha fatto che dare il segno a una protesta diffusa.

A far scendere per le strade la protesta è stata anche la scelta del governo di continuare a cementificare Istanbul con un nuovo centro commerciale, cancellando Gezi Park, uno degli ultimi luoghi verdi della città, per un progresso forzato da perseguire attraverso la strana idea occidentale che può essere realizzata con l’edificazione forzennata.

Alle porte di Istanbul la modernizzazione ha le fattezze del Teknopark, un complesso stile Silicon Valley che dal prossimo agosto, dopo oltre vent’anni d’intenzioni e lavori, ospiterà un migliaio di aziende di tecnologia avanzata.

Sembra indicato, nel caso di Gezi Park, citare il primo verso della canzone di Joni Mitchell, Big yellow taxi, (Ladies of the Canyon, 1970), anche se la folk singer si riferiva ad una cementificazione alle Hawaii “Hanno pavimentato il paradiso / e ci hanno messo su un parcheggio / con un hotel rosa, una boutique / ed un riflettore che ondeggia. […]”

La rabbia turca ormai non è solo ambientalista, ma soprattutto contro un governo che vuol sorvegliare troppo da vicino il comportamento dei singoli mettendo in discussione l’identità turca che non può essere quella araba.

La minaccia di abbattere 600 alberi è riuscita a coagulare le anime più diverse per gridare all’unisono lo scontento accumulato in anni di svolta autoritaria del governo Erdoğan che potrebbe coincidere con la crisi diplomatica con Israele e il voler assurgere a ruolo di tutore della riscossa del mondo islamico. Un’ambizione stimolata dalla nostalgia di un impero e dei suoi pascià che il progetto del complesso commerciale, con annessa ricostruzione di una caserma ottomana e una moschea, rendono Erdoğan un euroscettico per le continue richieste dell’Ue di europeizzare la Turchia e affiliarla all’Europa o la riluttanza di alcuni paesi della comunità di accettare nel proprio club uno stato islamico.

Una nostalgia per un’epoca che non era proprio di grande esempio per un musulmano con l’opulenza e le numerose deroghe alle regole all’Islam.

È più probabile che il governo Erdoğan non abbia mai avuto l’intenzione di dare seguito alla richiesta della maggioranza che lo aveva preceduto nell’aderire al Ue, ma preferire degli interlocutori commerciali più autoritari come la Cina e la Russia.

Il premier Recep Tayyip Erdoğan al suo terzo mandato, con il 52% di preferenza ben lontano dai risultati plebiscitari del 2002, ha ritenuto doveroso presentarsi poco dialogante, contraddicendo il suo schierarsi con le “Primavere” arabe e rivelandosi incapace di ascoltare le istanze dei suoi connazionali.

Una posizione muscolare quella di Erdoğan che ha sfoggiato nel gridare contro i social media e accusando la protesta di piazza di infiltrazioni straniere non ben identificate nelle proteste calandosi nella paranoia di un governante in cerca di nemici esterni per coagulare su di se il consenso, potendo contare sui suoi fan coattivi di 2.041.503 “Mi Piace” su Facebook e 2.823.762 Follower su Twitter.

Il porsi come un primo ministro autoritario gli permette di creare degli interlocutori come i capi della protesta e pensare a una consultazione referendaria sulla quale ci dovrà essere il futuro del Parco, ma gli permette anche di trovare nuove forme di censura come quella di multare le televisioni che trasmettono immagini della protesta ritenendo antieducativi i filmati.

Tutto questo mentre il movimento di protesta elegge Bella Ciao a sua colonna sonora e la ragazza in rosso che sfida il getto di gas lacrimogeni e degli idranti come suo simbolo.

Una posizione intransigente quella del primo ministro Erdoğan criticata anche dal presidente Abdullah Gül, anche lui islamico, portando in superficie i pacati contrasti tra le due alte cariche turche, marcando i contrasti all’interno della stessa compagine governativa e ponendo gli scontri non tanto tra islamismo e laicità, ma piuttosto tra una parte dello Stato e la maggioranza dei cittadini.

Erdoğan non ha alcuna intenzione di cedere alle proteste di piazza e vuol proseguire nei suoi progetti e appuntamenti come Giochi del Mediterraneo 2013 a Mersin o farsi intimidire dalle minacce di sospendere i negoziati di adesione della Turchia all’Ue.

Nessun rimprovero europeo o statunitense, sul comportamento dalla polizia nel contrapporsi alle proteste, fa recedere Erdoğan dalle sue posizioni e i 600 alberi che potrebbero diventare la fine di una democrazia autoritaria come la foresta lo fu per lo shakespeariano Macbeth.

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