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Egitto, il ‘piano della speranza’ finisce in galera

Giungono notizie, ne scrive la stampa internazionale come Le Monde, di recenti arresti che il ministero degli Interni egiziano ha confermato. Si tratta di esponenti liberali e della sinistra riformista: l’ex deputato socialdemocratico El-Eleaimy, l’esponente del gruppo Hizb al Tahrir Hossam Mo’anes, e altri attivisti d’area neo nasseriana che aveva sostenuto nei suoi tentativi presidenziali Hamdin Sabbahi. Il regime di Al Sisi li accusa di preparare un “piano di speranza”, l’avrebbero definito così essi stessi. Per provare a rilanciare quei diritti di parola, manifestazione, per non dire d’opposizione che sono stati azzerati nel Paese che fa di prigione, tortura e assassinio una sistema di controllo e di potere. Che esista un processo d’idee simile, ma non un partito e neppure un movimento, non viene negato da taluni intellettuali impegnati a rivendicare diritti civili, col sostegno di strutture come Amnesty International, pronti comunque al distinguo con la Fratellanza Musulmana. Quest’ultimi sono totalmente estranei al piano della speranza e secondo i promotori devono restare tali, perché strade e obiettivi delle due componenti restano diversi, anche al cospetto della comune repressione in atto ormai da sei anni.

Non è chiaro segli esponenti di quest’area liberal abbiano elaborato le tappe da loro stessi percorse nel fatidico 2013. Quando facendosi se non promotori, sostenitori della sedicente “seconda rivoluzione” con la raccolta di firme che chiedeva le dimissioni del presidente in carica Morsi, favorirono il golpe bianco dei militari che il 3 luglio pose agli arresti il Capo di Stato. Negli anni seguenti, a repressione diffusa e generalizzata, anche i più noti attivisti di strada che avevano agitato i cartellini rossi con su scritto Irhal , cioè vattene, rivolto al presidente islamista che non amavano, hanno conosciuto i trattamenti delle carceri. La propaganda anti Fratellanza di quei giorni affermava d’aver raccolto oltre venti milioni di firme contro il presidente, sebbene l’Alta Corte Costituzionale, che venne interpellata, sostenne come la massima autorità nazionale non poteva essere deposta con una simile iniziativa. Poi, nonostante una metà degli egiziani sostenesse quell’uomo, l’azione passò all’esercito che iniziava a far pesare le maniere di sempre, quelle forti, divenute sempre più forti e sanguinarie. Un’opposizione laica cavallo di Troia dell’esercito reazionario?

Se è per questo i laici, laicissimi ragazzi del “6 Ottobre” anche in quei turbolenti giorni dichiaravano come elementi alla El Baradei e Moussa non fossero altro che rottami mubarakiani, mentre Sabbahi appariva il classico inutile idiota di certa politica di finta opposizione. Certo, tanto s’è detto sulla lotta di potere fra la lobby militare, i tycoon e i fantocci filo occidentali, la Confraternita islamica. Eppure per l’intero biennio compreso fra la rivolta di Tahrir e l’avvio della repressione inaugurata da Sisi col massacro di Rabaa, giovani laici e islamisti si ritrovavano nelle strade cairote a inseguire il sogno d’un cambiamento di rotta governativo. Che questo non ci sia stato è una realtà, ma chi ha lavorato e per cosa è egualmente evidente, seppure oggetto d’interpretazioni differenti. L’Egitto uscito da quell’intricato periodo, mostra travagli e angosce ben maggiori per i suoi cittadini come per chi ne osserva il cupo clima che continua a schiacciarne libertà, democrazia e la stessa voglia di vivere. Una prigione a cielo aperto che è stata denunciata da Ong e avvocati dei diritti che rischiano come e più degli stessi liberal fautori di speranze cui il regime soffoca sul nascere qualsiasi vagito. Ovviamente bollando tutto come terrorismo. E facendo di tutto tabula rasa, perché cancellare il passato, anche quello prossimo, paga.

Enrico Campofreda
Pubblicato il 24 giugno 2019
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2 giugno di polemiche

La festa della Repubblica dovrebbe essere un momento di unione di tutte le componenti civili di una società, e invece quest’anno si è visto di tutto: reparti ridotti all’osso, frasi insolite per un presidente della Camera, provocatorie assenze di generali in pensione e di politici, parole come “inclusione” lasciate nell’ambiguità iniziale. Insomma, non ci siamo fatti mancare niente. Visto che io la parata del 2 giugno la seguo o vi partecipo da sempre in prima persona, mi sia permessa qualche osservazione personale.

La prima: la festa della Repubblica ha smesso da almeno dieci anni di essere celebrata con una parata esclusivamente militare. Quest’anno si sono visti 300 sindaci sfilare con la fascia tricolore, ma già il presidente Napolitano aveva gradualmente escluso dalla sfilata i mezzi meccanici e inserito come novità la partecipazione dei gonfaloni delle Regioni e delle organizzazioni di Protezione civile. I mezzi erano comunque ormai pochi, almeno per chi come me si ricorda le sfilate degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando i reparti sfilavano per battaglioni (falangi di 600 uomini; quest’anno gli scaglioni ne contavano 54!) e le vibrazioni di decine di carri armati facevano tremare pure il Colosseo. E pur militarista quale sono, sono anche il primo a dire che la festa della Repubblica deve mostrare pubblicamente tutte le componenti della società civile e non solo i militari in divisa e i corpi armati dello Stato. I volontari del Servizio civile universale sfilavano anche due anni fa, quindi inutile sbeffeggiarli. Resta casomai da chiarire cosa significa “società civile” e cosa volesse dire realmente il Ministro quando ha lanciato la parola d’ordine “inclusione” senza spiegarne il senso completo. Sulla società civile abbiamo una terminologia tradizionalmente chiara: sono cives quelli che godono dei diritti civili e hanno il diritto e dovere di esercitarli. In tempi neanche antichi i diritti civili riguardavano – come i servizi – solo una parte della società, ora sono stati gradualmente estesi verso l’esterno. Il limite in questo momento sono gli ultimi arrivati, i migranti e i nomadi, e si è visto quali danni produce l’accoglienza senza integrazione o, come oggi è più frequente dire, l’inclusione. Per quanto ne ho capito parlandone in giro, può darsi che ieri si volesse estendere la partecipazione alla sfilata (inutile ormai chiamarla parata) anche ad associazioni civili assistenziali o umanitarie, trovando però la discreta ma ferma opposizione dei vertici militari, i quali fanno meno rumore dei politici ma sanno bene come muoversi.

E qui passiamo al secondo argomento: l’ostilità dei vertici militari. Il Ministro Trenta non piace agli ufficiali di Stato Maggiore, i quali non hanno digerito i tagli alla Difesa, il Sindacato militare, l’inchiesta sui danni da uranio impoverito e i tagli alle pensioni dei generali con incarichi speciali. Sicuramente il Ministro si trova stretto fra Salvini che vorrebbe la sua testa e il proprio partito, che pur essendo pacifista e antimilitarista ottiene la Difesa e ovviamente impone le sue idee in materia. Sia chiaro: il “Dual Use” non lo ha inventato la Trenta: armi a parte, le Forze armate possono collaborare con la società civile e in fondo l’hanno sempre fatto. Piuttosto – cito dalla stampa di vario colore – è ingiusto chiamare la Trieste “la nuova nave dei Crociati”, come è ridicolo definirla “una nave di pace” o meravigliarsi sentendo dire: “ma imbarcherà anche aerei e armi”. Il compito della Trieste è il controllo del Mediterraneo, l’unica zona che ci dovrebbe interessare, ma non è una nave ospedale o un traghetto per migranti, anche se ha stive capaci e ben due sale operatorie, come la Cavour. Anche la nave San Giusto era stata finanziata con i fondi della Protezione civile, avendo spiccate capacità di trasporto e scarico rapido. Né è colpa della Trenta se i soldati professionisti sono ormai più che quarantenni: come nella società civile, le assunzioni sono state bloccate per anni e non c’è stato ricambio. E quando i soldi mancano, le caserme non hanno manutenzione, mancano i pezzi di ricambio per i mezzi e l’addestramento viene ridotto.

Infine, un’ultima osservazione. I generali che hanno disertato la festa provengono tutti dall’Aereonautica, la forza armata che più ha bisogno di investimenti (vedi l’F-35) ed è più legata alla ricerca dell’industria aerospaziale e delle telecomunicazioni. I tagli alla Difesa hanno penalizzato soprattutto questo settore, dove le industrie premono da sempre sulle commissioni del Ministero. E’ un settore di punta della nostra industria e in effetti non andrebbe trascurato, viste anche le ricadute nel mercato commerciale e nell’export. A questo punto, la protesta dei generali in pensione ha un senso preciso. E se quelli in servizio non parlano è perché non sono abituati a farlo in modo esplicito, né gli è permesso alzare la voce senza rischiare la carriera. E purtroppo la storia italiana insegna che non di rado i vertici militari hanno seguito le indicazioni dei politici, ma senza crederci veramente. E mai come in questo momento la spaccatura è evidente.

Infanzia: i Diritti negati nel rapporto di Save the Children

I media riescono a commuoverci per un minorenne vittima di violenza, ma in un mondo d’immagini è difficile che un rapporto pieno di numeri e statistiche possa coinvolgere il cittadino come un’immagine di un bimbo dal viso sofferente.

Conflitti, carestie e sfruttamento negano a centinaia di milioni di minorenni l’infanzia che non solo Save the Children cerca di fargli vivere, portando all’attenzione la realtà dell’infanzia nelle varie aree del Mondo e nonostante l’Italia occupa l’ottavo posto “migliore” dove bambine e bambini potrebbero vivere, sono 1,2 milioni i minori in povertà assoluta.

Sempre più bambini soffrono e muoiono in un Mondo dove gli adulti violenti dettano legge, distruggendo scuole con raid aerei o attentati, aumentando la schiera dei mancati alunni. Bambini ai quali viene negato il diritto allo studio vengono struttati nel lavoro minorile e sono vittime di matrimoni e gravidanze precoci.

Il Mondo subisce un’ulteriore diseguaglianza nella fortuna per i bambini che possono godere a pieno tutte le potenzialità offerte nel nascere a Singapore o in Finlandia, piuttosto che nella Repubblica Centrafricana.

Nel Rapporto sulla condizione dei bambini in 176 Paesi https://s3.savethechildren.it/public/files/uploads/pubblicazioni/rapporto-sulla-condizione-dei-bambini-nel-mondo.pdf, stilato da Save the Children, è evidenziato come non tutti i bambini di questo millennio hanno la possibilità di crescere in salute, di essere scolarizzati ed essere protetti.

Per i bambini che riescono a fuggire dalle aree di conflitto, come ad esempio la Siria e lo Yemen, la vita in un campo profughi non è priva di pericoli e non sarà facile neanche per quelli che riusciranno a sbarcare in Europa, per essere accettati.

Vivere in paesi come la Svezia, Finlandia, Irlanda, Germania, Slovenia e Norvegia non esenta l’infanzia dai pericoli della pedofilia e dalla violenza familiare, ma sicuramente con minori rischi che incontrano i 420 milioni di bambini nelle aree di conflitto.

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Infanzia in pericolo: uno più di 100
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Europa: identità per esclusione

Molto prima delle elezioni europee la comunità del web si è interrogata sul senso dell’identità europea, a prescindere dall’immagine negativa percepita da chi vede nella UE solo un’eletta di burocrati e tecnocrati concentrati sull’economia e sulle regole, ma poco comunicativi con l’Europa dei popoli. Ma nei siti diciamo identitari l’immagine dell’Europa è mitica più che storica, icona di una comunità più sognata che reale, legata a una società preindustriale. A guardare anche superficialmente questi siti, intanto si direbbe che il Mediterraneo è totalmente escluso da un’Europa nordica e continentale. Volti, paesaggi, usi e costumi rimandano al repertorio del Sacro Romano Impero o del Reich millenario, dimenticando un grande imperatore come Federico II di Svevia, l’unico che ha realmente cercato di integrare nord e sud d’Europa. Vero è che nell’UE egemonia franco-tedesca si è sempre imposta sugli altri paesi, ma questa visione mitologica non fa altro che marcare l’esistente invece di ricrearlo. Il messaggio è emblematico: il sud dell’Europa non partecipa da protagonista all’identità europea, il che dimostra che certi pregiudizi datano dai tempi dei Franchi e Longobardi. Eppure la parola Europa parte da sud, è fenicia (Ereb, occidente). Europa era la figlia di Agenore re di Tiro, città fenicia oggi in Libano. Zeus, innamoratosi di lei, decise di rapirla e si trasformò in uno splendido toro bianco. Mentre coglie i fiori in riva al mare, Europa vede il toro che le si avvicinava. E’ spaventata ma il toro si sdraia ai suoi piedi ed Europa, tranquilla, vi sale in groppa. Ma il toro si getta in mare e la conduce fino a Creta, dove Zeus si ritrasforma in dio e le rivela il suo amore. Avranno tre figli: Minosse, Sarpedonte e Radamanto. Il senso del mito è che la civiltà arriva dal Medio Oriente, ma una volta traversato il mare quella cultura si sviluppa con una vita propria.

Ora, se il mito di Europa è greco, il concetto di Europa risale al medioevo; prima era tutto Imperium Romanum e il termine geografico per i greci indicava in modo generico una terra a nord del Mediterraneo, dai confini ancora indefiniti. Il primo a usare il termine è a fine del VI secolo l’abate irlandese San Colombano, futuro fondatore dell’abbazia di Bobbio, che lo cita (tutus Europae) in una delle lettere al papa Gregorio Magno. Il termine lo usa anche il monaco Isidoro Pacensis, per indicare i soldati di Carlo Martello che avevano combattuto a Poitiers (prospiciunt Europenses Arabum tentoria, nescientes cuncta esse pervacua). La battaglia aveva assunto infatti un grande valore simbolico: l’Occidente cristiano, idealmente rappresentato dall’Europa, aveva fermato l’espansione araba; e quindi Isidoro usa l’aggettivo “europeo” per attribuire un’identità collettiva ai guerrieri franchi che avevano fermato gli invasori musulmani. E infatti l’Europa politica nasce con l’impero di Carlo Magno, all’inizio del IX secolo, realtà che riunisce simbolicamente popoli romani, celti e germanici, sotto la guida dell’Imperatore e del Sommo Pontefice. Peccato che si ignorasse l’Impero Romano d’Oriente, che pur è durato mille anni ed era ben più solido del Sacro Romano Impero.

Tornando però ai nostri siti web, alcuni vanno più indietro: la vera Europa non è cristiana, ma pagana, ancestrale. L’iconografia è un misto di Nibelunghi e Trono di Spade, fra rune naziste, rudi guerrieri e bionde fanciulle in un paesaggio cupo e boscoso che fa rimpiangere il trascurato Mediterraneo. E se l’Europa è un continente che possiede una massima diversità culturale in distanze geografiche minime, questi siti misticheggianti esaltano l’identità europea non accogliendo o assimilando la varietà, ma operando solo per esclusione, esaltando un cupo nordismo e mostrando famiglie patriarcali, guerrieri scorciati dal basso, uomini inseriti in un’economia contadina e una cupa vegetazione forestale, in mezzo a simboli runici ossessivamente ripetuti. Da un punto di vista elettorale, ci si può anche chiedere quanta presa possono avere queste immagini sulle masse inurbate che vivono nelle periferie delle metropoli piuttosto che nelle province del continente o nelle comunità locali isolate, serbatoio di voti per i partiti c.d. sovranisti (1). Sui motivi di questa immagine neopagana e paleoecologista in stile Frei Korps Kultur si potrebbe discutere, ma è probabilmente anche una reazione alle politiche cattoliche di accoglienza dei migranti e di dialogo con l’Islam che papa Francesco porta avanti quasi in modo ossessivo, provocando l’ostilità o almeno la diffidenza dei cristiani più conservatori e non solo di quelli, visto il successo dei partiti europei “sovranisti”.

Si è parlato di Islam. Ebbene, abbiamo scoperto che per ogni sito razzista europeo che incoraggia la maternità ariana ce n’è parimenti uno islamista o africanista che sogna unioni con bionde fanciulle da usare come fattrici per sommergere la vecchia Europa con nidiate di bimbi musulmani e donne convertite al velo. Gli stilemi ricordano una certa pornografia e sono anche pieni di minacce e profezie, le quali danno solo una giustificazione o almeno un appiglio ai teorici del complotto della sostituzione razziale e religiosa, altro mito che fa tutt’uno con il complotto mondiale dei banchieri. Ma si sa, in rete tutto è permesso. L’importante è che chi vota usi anche il proprio cervello

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NOTE

  1. La differenza fra nazionalismo e sovranismo potrebbe essere così definita: il nazionalismo tende ad aggregare popoli etnicamente e culturalmente affini, mentre il sovranismo crea un’identità mitologica esclusivamente per sottrazione, escludendo non solo i diversi ma persino gli affini.

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Qualcosa di più:
Migrazione: Europa, Europa
14 Lug 2018
Mediterraneo, una storia di conflitti
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2005
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Inoltre:

Europa: una speranza di Unione
Europa: Il clima delle nuove generazioni
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Avanza l’India per soli indù

Narendra Modi, trionfatore delle elezioni indiane, dice: i partiti d’opposizione hanno ingannato le minoranze, innanzitutto islamiche. Esse sono schiacciate in un angolo, soggette a immaginarie paure. Eppure fra i 303 deputati eletti dal Bharatiya Yanata Party non c’è neppure un musulmano, fa notare qualche commentatore locale non schierato. E chi osserva con occhio critico il governo aggiunge “Col verdetto elettorale la maggioranza indù dà sfogo alle insoddisfatte aspirazioni di un’India indù. Se Modi è interessato alla condizione delle minoranze, allora dovrebbe fermare le manifestazioni d’intolleranza contro i musulmani che sono proseguite dopo il suo successo elettorale”. In questi giorni si sono verificati casi di pestaggio anche di donne e bambini islamici e dall’insediamento di Modi a primo ministro i linciaggi a sfondo religioso, la costruzione di templi al posto di moschee, l’introduzione di norme volte a escludere gli islamici si sono riproposti alle cronache ampliando certi contorni già conosciuti in altre fasi. Del resto il passato di Modi, ragazzo povero e politico che s’è fatto da sé, parla chiaramente della fascinazione che aveva avuto davanti al fanatismo religioso. Nel nativo distretto Gujarati da giovane aveva militato nel Rashtriya Swayamsevak Sangh, gruppo paramilitare indù da cui proveniva l’assassino del Mahatma Ghandi. Quell’omicidio accadeva nel gennaio 1948, due anni prima che Modi nascesse.

Ma il gruppo del fanatismo indù, seppure per anni non raccolse un gran seguito fra gli indiani, aveva nel dna certi princìpi che tuttora circolano nell’estremismo induista: considerare il proprio credo non una religione, bensì un percorso di vita e di cultura del popolo di quella terra. Da lì il passaggio per l’India indù il passo è breve. L’opinionista Saeed Naqvi, ascoltato da Al Jazeera, ritiene che il Bjp alimenti un piano mono-religioso per un’India solo induista, progetto da portare a termine in alcune decadi. Invece alcuni avvocati indiani dei diritti intervistati sul tema sempre dalla tivù qatarina dichiarano che tale tendenza “Può portare a un vero e proprio scippo di diritti per l’istruzione, l’assistenza sanitaria, il voto a danno dei cittadini indiani seguaci dell’Islam”. E c’è chi rammenta come simili esasperazioni possono riaprire quelle ferite che nel 1947 determinarono il contrasto politico-religioso con le cosiddette ‘spalle islamiche’: il Pakistan occidentale e quello orientale, divenuto nel 1971 Bangladesh a seguìto di un ulteriore passo d’indipendenza. Paesi che hanno 1.3 miliardi (India), 220 (Pakistan) e 168 milioni (Bangladesh) di abitanti… L’agenda suprematista della destra indù mette in allarme quei musulmani fautori d’un percorso politico legale e democratico. Costoro sanno che il fanatismo jihadista non aspetta altro per rilanciare indiscriminati atti di terrore e rinfocolare rancore fra i fedeli dell’Islam.

Proprio il tema della sicurezza contro il terrorismo ha rappresentato un punto cardine della campagna elettorale di Modi, con riferimento all’ultimo attentato suicida attuato in Kashmir che aveva ucciso quaranta militari indiani. In seconda posizione la promessa di fermare l’onda di migrazione dal Bangladesh (in maggioranza musulmano) verso lo Stato indiano, mentre il governo consente l’ingresso di migranti indù violando la Costituzione secolare della nazione. Nei comizi elettorali lo staff del Bjp definiva ‘termiti’ i cittadini bengalesi, accentuando i toni xenofobi e dalle parole dei politici gli attivisti indù passavano ai fatti aggredendo cittadini di diversa fede. Il timore che la schiacciante vittoria alle urne del partito governativo ringagliardisca ulteriormente la destra razzista che agisce all’interno dell’organizzazione è reale. In aggiunta si temono mosse legislative, come l’abolizione di quegli articoli costituzionali che tutelano le minoranze nell’amministrazione regionale. Scelta che infiammerebbero aree già esplosive come, appunto, il Kashmir. Taluni commentatori azzardano un paragone con Israele, sostenendo che le scelte di Modi prendono la china assunta dai sionisti coi palestinesi: attuare un’apartheid ignorando i diritti dei cittadini e la comunità internazionale. Eppure, oltre la fede, la destra pro induista sta trovando sostegno dalle classi più umili, da quei lavoratori poveri che vedono nel presidente un loro simile capace di raggiungere il vertice sociale. Un concetto diverso dalla stessa visione induista propensa a una rigidità di casta, che decreta un ruolo sin dalla nascita per potere divino.

Enrico Campofreda
Pubblicato il 29 maggio 2019
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