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Radioamatori: Una specie in estinzione

Il Radioamatore è una persona che, debitamente autorizzata, si interessa di radiotecnica a titolo puramente personale e senza scopo di lucro, che partecipa al servizio di radiocomunicazione detto d’amatore, avente per oggetto, l’istruzione individuale, l’intercomunicazione e gli studi tecnici“. G.U. n. 289 del 9/12/1992:

Nel 1995 i radioamatori italiani registrati erano 30.000, e ora? È dal 1995 che con l’avvento dell’internet c’è stato un calo drastico dei radioamatori. Prima dell’era della rete, l’unico sistema per potersi collegare e tenere uno stabile e facile collegamento senza spendere una lira in telefonate da e verso i cellulari era la radio (CB, VHF, UHF) (1), ma il rovescio della medaglia era una confusione generale e la mancanza di qualsiasi protocollo di trasmissione. Chi scrive ricorda i “baracchini”, radio abbastanza economiche in CB (la banda cittadina, senza bisogno di esami o patenti speciali), oggi usate quasi solo dai camionisti. Altro mondo invece quello dei radioamatori, che da sempre devono sostenere un esame presso il Ministero, hanno una regolare patente, un identificativo e sono obbligati a precise regole di comportamento, oltre a essere sempre a disposizione della Protezione Civile. Molti di loro con le radio ci hanno lavorato, quindi hanno una competenza specifica: prima c’erano le stazioni radiotelegrafiche dei porti, i marconisti sulle navi, gli operatori radio delle ambulanze, tutto un mondo superato dalla telefonia cellulare, dalle linee digitali e dal web. Oggi a un giovane non verrebbe mai in mente di spendere migliaia di euro per le apparecchiature, le antenne e le autorizzazioni richieste a un radioamatore, visto che può fare lo stesso con la normale chat di un iphone di seconda mano. E infatti, ad ascoltare le conversazioni dei radioamatori, si nota subito l’età matura se non avanzata di chi si collega la sera. Per parlare di cosa, poi? Per la maggior parte le comunicazioni sono tecniche: si usano sigle (QSO, QRP, etc.) (2), si parla di antenne, impedenze, frequenze, ponti radio; ma spesso si chiacchiera. Ad ascoltarle, le conversazioni tecniche sono utili e fanno da sempre parte della cultura radiantistica, ma le altre sono poco interessanti e tradiscono un basso livello culturale. Meglio a questo punto un web forum o un social. Ma neanche i radioamatori sembrano soddisfatti dell’attuale situazione. Cito da un loro forum:

“Questo pomeriggio facevamo un qso a 145,500 con un amico che mi ha visto crescere sia in sezione che come radioamatore. parlavamo dei nuovi sistemi digitali fm in 2 metri (c4fm, fusion dstar), che stanno creando un isolazionismo per chi non ne possiede una radio. se non hai una radio con questi sistemi (per me del tutto inutile tanto non ce mai traffico in 2 metri nei canali normali), sei tagliato totalmente fuori da questo mondo. il mio amico, radioamatore di vecchia generazione come me, mi ha confessato con tutta sincerità che non trova più lo stimolo di andare in sezione se non si parla di radio, esperienze e cose che accrescono la mente dei nuovi e vecchi radioamatori. brutta cosa. lui è stato Presidente di sezione per 2 mandati, e ne abbiamo avute esperienze assieme sia belle che brutte. suo papà era radioamatore nel 1960, ed è stato socio fondatore della sezione. Noi (i radioamatori) saremo una dinastia in via di estinzione come i dinosauri, spazzati via da nuovi modi di comunicare tra i giovani che cercano il dinamismo della comunicazione.”

I radioamatori hanno comunque una lunga storia. La loro prima epoca è quella dell’autocostruzione. All’inizio del ‘900 un manuale spiegava, in appena 100 pagine, come costruirsi un apparato trasmettitore e un apparato ricevitore per comunicare a distanze di parecchie centinaia di metri a linea di vista. In ogni caso per diversi decenni il radioamatore sapeva assemblare e riciclare parti di altre radio, adattare componenti, e in ogni caso aveva anche buone cognizioni di matematica. Si trasmetteva non sempre in voce, ma più spesso in Morse. La successiva rivoluzione tecnologica (dalle valvole ai transistor e poi ancora ai circuiti integrati stampati) fa sparire già dagli anni ’70-80 del secolo scorso le autocostruzioni e la sperimentazione: era ormai difficile intervenire su sistemi chiusi e assemblati in fabbrica; al massimo si poteva lavorare sugli accessori e sulle antenne. Gli apparati infatti diventano sempre più complessi e costosi, ma più potenti e performanti. Il radioamatore non ha più bisogno di elevate competenze tecniche, e neppure di conoscere il codice Morse. Il boom dei baracchini amplia la base dei radioamatori, ma – come nel turismo – alla quantità non si accompagna la qualità. Oggi infine siamo arrivati all’epoca della SDR, software defined radio. Gli apparati diventano dei computer che convertono la radiofrequenza in un flusso di dati (e viceversa in trasmissione), in modo da lavorare (filtrare, decodificare, ecc.) quasi esclusivamente su quel flusso. In un apparato, il lavoro che prima veniva fatto da un gran numero di componenti elettronici viene fatto ora da un software, con un risparmio notevole sulle parti fisiche e sul lavoro. In pratica, il radioamatore diventa concettualmente un informatico-matematico, e lo scopo non è più il mettere in contatto persone ma il trasferire dati fra computer (dati in cui ci può anche essere traffico voce). Unica discriminante con l’informatico: le antenne, che da sempre hanno acquisito le forme più diverse in funzione delle radiofrequenze. In più, un vantaggio esclusivo: per comunicare non c’è bisogno di un’infrastruttura esterna, e infatti i radioamatori garantiscono le comunicazioni anche quando salta la rete telefonica (si è visto negli ultimi terremoti). Quanto all’interoperabilità con l’internet, per ora è un valore aggiunto.

Note:

 

 

 

Achille Nero

La pratica cinematografica di fare interpretare dei personaggi di un film o di una serie televisiva ad un attore di un’etnia diversa non risparmia neanche l’Iliade di Omero: nel 2018 Netflix e la BBC trasmetteranno Troy: Fall of a City, rifacimento televisivo del celebre poema greco, con un Achille interpretato da David Gyasi. attore afroamericano già noto per i suoi notevoli ruoli in Interstellar e ancor prima in Cloud Atlas. Nella polemica seguita all’evento, sono stati confusi due piani diversi anche se correlati: la reinterpretazione del mito e il suo adeguamento alle differenze culturali subentrate al testo classico. Per il primo punto, nessuno può e deve dire niente: miti millenari sono stati reinterpretati centinaia di volte e con successo da artisti, scrittori e registi. E visto che si parla del colore della pelle, cito Orfeo negro (1959), lo stupendo film scritto da Albert Camus, dove il mito di Orfeo ed Euridice viene reinterpretato e ambientato nel carnevale di Rio. Per il secondo punto, il politically correct, la questione in realtà non è nuova. I poemi omerici hanno sempre goduto di grande popolarità, ma nella Francia del re Sole e del barocco di corte era imbarazzante seguire le gesta di sovrani che scannano montoni davanti all’ospite e guerrieri che si coprono di insulti. Questo urtava le convenzioni sociali del tempo, anche se non era colpa di Agamennone se era vissuto nell’età del bronzo, quasi tremila anni prima. Risultato? Le traduzioni in francese dell’epoca sono un capolavoro di diplomazia. Ma ancora quando facevo io il liceo si sorvolava sull’episodio di Telemaco che cerca di rendersi indipendente da Penelope, perché il linguaggio di un figlio verso sua madre era ritenuto irrispettoso! E sempre in quei tempi, nell’Eneide televisiva firmata da Franco Rossi (1971) all’unione del maturo Enea con la giovane Lavinia viene affiancata una sub-trama di un coetaneo che corteggia la fanciulla: una love story ipocrita che mette in secondo piano il rapporto fra Enea e Lavinia e la loro differenza di età. In realtà anche la vergine Maria era giovanissima, visti i costumi dell’epoca, ma questo il pubblico televisivo non l’avrebbe accettato.

E passiamo dunque al nostro Achille Nero. Ovviamente tale non poteva essere, visto che era miceneo. Fosse stato il capo dei Garamanti o dei Numidi o degli Etiopi (popoli africani già noti a Omero), allora era diverso. Ma ammettiamo pure che l’Iliade non è un documento storico, quindi del testo classico uno può farne quello che vuole: per un jazzista è normale improvvisare variazioni su un tema di Bach, il quale del resto faceva lo stesso con la musica del suo tempo. Il vero problema di Achille Nero è piuttosto la debolezza del progetto: la motivazione sembra tutta commerciale, allo stesso modo in cui anche la nostra pubblicità ora è piena di colori alla Benetton. Non saranno i lineamenti somatici di un attore ad interferire con gli amori, intrighi, tradimenti e battaglie del un kolossal a episodi, non per nulla annoverato come Historical fiction – Fantasy, girato a Città del Capo, in Sudafrica, impegnato a offrire il racconto, e non storia, della presa di Troia vissuta attraverso lo sguardo dei vari protagonisti, con il punto di vista della famiglia reale troiana. Se veramente avesse voluto reinterpretare il mito, il regista avrebbe potuto rappresentare sia il re Menelao che la bellissima Elena con la pelle scura, Paride essendo invece adatto a simboleggiare la prepotenza dello sfruttamento coloniale europeo. A quel punto la guerra di Troia sarebbe stata la stupenda metafora di un popolo che si riprende quello che altri gli hanno espropriato con la forza e con l’inganno. Ma questo è solo un suggerimento letterario. Purtroppo Bertolt Brecht non è più di moda.

 

Cantate un canto nuovo

“Cantate Domino canticum novum, cantate Domino omnis terra” (Salmo 96)

Nella mia parrocchia non conoscono il suono di un organo: a messa solo chitarre ed ora pure un bongo, percosso da un ragazzotto di provata fede. Sempre meglio di una parrocchia vicina, dove i neocatecumenali cantavano rumorosamente e in modo abominevole. E a questo punto mi chiedo a che serve il Pontificio Istituto di musica sacra e perché non chiuderlo (1). Aggiungo pure di far parte di una schola cantorum sfrattata da una basilica romana dal nuovo parroco, accolta ora in un’altra basilica e impegnata per tutto l’anno nelle liturgie solenni. Amo dunque la musica sacra, so cantare e ho un minimo di competenza in un paese dove pochi sanno leggere uno spartito e la scuola non educa alla musica. Detto questo, andate a messa la domenica in qualsiasi parrocchia romana e sentite cosa cantano e come: è un confuso repertorio di musica pop, canzonette, corali simil-luterani, brani di musical, salmi e inni vari, ora imparati a memoria, ora letti su un libretto promosso dalla CEI. I singoli brani sono numerati, ma non seguono l’anno liturgico (come nel Liber usualis) (2), la sequenza la decide di volta l’officiante, senza comunque ricorrere a quei tabelloni coi numeri che si vedono nelle funzioni dei protestanti. Ma quelli almeno sanno cantare: sono disciplinati, si sentono parte di una comunità e il corale protestante è schematico quanto facile da intonare, vista la sua origine popolare. Lutero aveva visto giusto e capiva di musica. La tradizione sia cattolica che delle chiese orientali invece previlegiava il canto gestito da un coro separato dall’assemblea dei fedeli, che comunque partecipava nelle formule responsoriali e ha localmente elaborato un ricco patrimonio di inni popolari, spesso legati al culto mariano. Tutto questo fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) (Atti: Sacrosanctum Concilium, in sigla SC) e alla sua ossessione per la partecipazione. Senza addentrarci in una discussione teologica, ci limiteremo a constatare che l’evoluzione della musica liturgica è imprescindibile dalla riforma della liturgia, e in questo gli atti del SC sono fondamentali. Il principio di partecipatio actuosa (SC 14) è infatti una pietra miliare della riforma liturgica post-conciliare, anche se il primato sulla partecipazione era stato richiamato anche da documenti precedenti (3). Ripeto: non è il caso di entrare in una discussione teologica che richiede ben altra competenza. Mi limito pertanto a dire che, per quanto riguarda la musica che deve accompagnare la liturgia, nella pratica la partecipazione si è appiattita sull’omologazione e si è finito per impoverire ciò che il Concilio voleva invece arricchire. Nella pratica corrente il canto assembleare è divenuto la “traduzione simultanea” della partecipazione attiva. Tutto ciò che lo esclude si configura quindi come elemento in sé negativo perché in contraddizione “a priori” con  tale principio, quasi fosse un diaframma tra l’assemblea e l’officiante. La debole riflessione ecclesiale ha fatto il resto, contribuendo a determinare un progressivo degrado della prassi liturgico-musicale. Non cantare la liturgia, usando solo musica di consumo piuttosto che musica sacra, rifiutare di educarsi o di educare gli altri nella tradizione della Chiesa e nelle sue direttive, mettendo poco o nessuno sforzo per l’edificazione di un programma dignitoso di musica sacra è a mio parere un atteggiamento colpevole e anti-intellettuale. E quello che è più pericoloso, la liturgia ha subìto una deriva dalla spiritualità verso l’autoesaltazione emotiva, cosa che peraltro le chiese evangeliche sanno fare molto meglio, mentre in realtà i giovani cattolici  sono oggi i primi a cercare la spiritualità, un segnale preciso da non sottovalutare. Ma quando il mio parroco, giovane e capace pastore di anime, nella messa domenicale ha testualmente affermato che “la messa è un balletto”, invitando dunque i fedeli all’animazione della liturgia, nessuno gli ha replicato che la liturgia non è un musical, né un happening che celebra sé stesso, ma dovrebbe essere animata dalla fede e dalla celebrazione collettiva del mistero del sacramento, senza ricorrere a contributi esterni legati allo spettacolo più che alla spiritualità.

Ma le premesse erano diverse: si vedano in SC le disposizioni relative alla musica sacra e al suo rapporto con la liturgia. Le indicazioni generali dei paragrafi 114 e 115 (Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della Musica sacra […] Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari […] ai musicisti e ai cantori, e in primo luogo ai fanciulli, si dia anche una vera formazione liturgica) sono suggellate dal paragrafo 116, intitolato specificamente Canto gregoriano e polifonico. Il paragrafo recita alla lettera “a)”:

La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale.

Malgrado le chiare indicazioni conciliari, nella fase successiva le conferenze episcopali hanno invece previlegiato un repertorio musicale estraneo al latino e al gregoriano, con forme vicine al pop e alla musica leggera, mettendo in secondo piano la cura del repertorio gregoriano che, pur ritenuto tradizionalmente solido, è invece scomparso dalla scena liturgica. Sono state dunque imposte nella pratica liturgica idee estranee al testo conciliare, troppo spesso con la complicità di una mancanza di vigilanza da parte del clero e della gerarchia ecclesiastica. Il patrimonio della musica sacra, che il Concilio aveva chiesto venisse preservato, non solo non è stato preservato ma è stato combattuto; e questo certamente contro il Concilio, che aveva chiaramente affermato ben altro. Purtroppo il dibattito post-conciliare si è sostanzialmente appiattito e impoverito nella contrapposizione puramente ideologica fra un gregoriano comunque indiscutibile e un gregoriano da eliminare del tutto, al punto di farne un estraneo in casa propria. In realtà, se pur tradizionale, il canto sacro non è esclusivamente il gregoriano, né è intangibile. E se la risposta ideologica è stata una congerie musicale non strutturata e di basso livello artistico, ancora più assurdo è che ancora nessuno abbia insegnato all’assemblea dei fedeli il canto corale. Eppure, dal Concilio a oggi vescovi e parroci hanno avuto ben cinquant’anni di tempo.

Ma scorriamo il canzoniere della mia parrocchia, ufficializzato dalla CEI: sono 170 pagine con il testo di 246 tra inni, salmi, canzoni e canzonette. La musica non c’è e s’impara a memoria, tanto nessuno la saprebbe leggere. Il legame armonico tra le parole e la musica è spesso casuale, segno che nessun musicista ha mai affrontato il problema. Le traduzioni degli inni dal latino sono sciatte, forse opera di un prete straniero: in un Sanctus stile spaghetti western “Hosanna in Excelsis” diventa un banale “Osanna nelle altezze”. Ma del Sanctus esiste anche una versione country , accompagnata da battiti delle mani e movimenti sincronizzati delle braccia. Partecipazione, d’accordo, ma a che cosa? Bisogna sottolineare che il magistero non richiede un’indistinta partecipazione di tutto il popolo nel canto liturgico, ma raccomanda un buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, da cui “scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso” (Giovanni Paolo II, chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003) (4). E proprio questo testo ci ricorda che la Santa Sede si è sempre occupata del problema, molti essendo i documenti dedicati alla musica sacra, dalla “Docta Sanctorum Patrum” (1324) di Giovanni XXII alla “Annus Qui” (1749) di Benedetto XIV, giù fino al Motu Proprio “Tra le sollecitudini” (1903) di San Pio X, la “Musicae Sacrae Disciplina” (1955) di Pio XII, e appunto il Chirografo sulla Musica Sacra (2003) di cui sopra. Interessanti poi gli interventi di papa Benedetto XVI, vista la sua reale competenza musicale: servirebbe un lungo articolo solo per darne una sintesi. Qui basta notare che il pensiero di Ratzinger – grande teologo e grande pontefice – non si limita alla musica liturgica, ma riconosce la musica come espressione dell’anima dell’uomo. Il suo non è un elogio formale e scontato, ma un contributo importante per lo sviluppo della dottrina sulla musica. Egli ricorda come con la riforma conciliare si fosse rinnovato l’“antichissimo contrasto” tra i sostenitori della musica sacra nella liturgia e i fautori della partecipazione attiva dei fedeli nelle celebrazione della fede con la loro maggiore semplicità, anche musicale. Proprio la liturgia celebrata da San Giovanni Paolo II in ogni continente ha mostrato “tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico” e, insieme, che la “grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa”. E con un valore, soggiunge, senza paragoni:

Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quell’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa “ … L’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano” (dal discorso del 4 luglio 2015 tenuto a Cracovia)

Un compendio è accessibile in un suo libro intitolato appunto: Sulla musica (5).

E passiamo a papa Francesco. Non è un intenditore come Ratzinger, ma nel 2017 scrive testualmente (6) :

L’incontro con la modernità e l’introduzione delle lingue parlate nella Liturgia ha sollecitato tanti problemi: di linguaggi, di forme e di generi musicali”:.. “Talvolta è prevalsa una certa mediocrità, superficialità e banalità, a scapito della bellezza e intensità delle celebrazioni liturgiche. Per questo i vari protagonisti di questo ambito, musicisti e compositori, direttori e coristi di scholae cantorum, animatori della liturgia, possono dare un prezioso contributo al rinnovamento, soprattutto qualitativo, della musica sacra e del canto liturgico”.

Tutto bene allora? No, se rileggiamo un capoverso iniziale:

emerge una duplice missione” per la Chiesa: da una parte, si tratta “di salvaguardare e valorizzare il ricco e multiforme patrimonio ereditato dal passato, utilizzandolo con equilibrio nel presente ed evitando il rischio di una visione nostalgica o archeologica” … “d’altra parte, è necessario fare in modo che la musica sacra e il canto liturgico siano pienamente ‘inculturati’ nei linguaggi artistici e musicali dell’attualità; sappiano, cioè, incarnare e tradurre la Parola di Dio in canti, suoni, armonie che facciano vibrare il cuore dei nostri contemporanei, creando anche un opportuno clima emotivo, che disponga alla fede e susciti l’accoglienza e la piena partecipazione al mistero che si celebra”.

Che vuol dire “visione nostalgica e archeologica”? Gregoriano? Più chiara la tesi dell’inculturazione, cara ai Gesuiti, dalle cui file papa Francesco proviene. Come si vede, più preoccupato che appassionato dal tema, egli auspica comunque la qualità. Quanto all’inculturazione, essa significa – se compresa correttamente – che noi dovremmo introdurre la cultura di ogni popolo nella liturgia. Ma non nel senso che la liturgia e la sua musica debbano divenire il luogo dove esaltare una cultura secolare. Essa è un luogo dove la cultura, ogni cultura, deve essere trasportata a un altro livello e purificata. E qui entriamo nel vivo: nel canto gregoriano come in quello delle chiese orientali – ma stavo per dire anche nel corale luterano – la parola di Dio si fonde indissolubilmente con la musica, entra in un’altra dimensione, si dispiega. La natura liturgica del canto sta nella sua capacità di strutturarsi in stili e forme precise, laddove nella musica di consumo (ma non nella musica popolare) il legame tra il testo e la forma musicale resta labile, né ha pretesa alcuna di trascendenza..

Chi deve cantare è un problema successivo. Ma se decidiamo che a cantare debba essere solo l’assemblea, a questo punto va condotta una seria alfabetizzazione musicale e soprattutto il clero deve dare più spazio ai musicisti, gli unici che possono indicare la strada per superare l’attuale degrado della musica liturgica. Detto questo, concludo la mia analisi con alcuni suggerimenti pratici, con la speranza che in parrocchia se li leggano e se ne discuta insieme:

  1. Se di musica si parla, vanno coinvolti i musicisti. E’ assurdo che coloro che hanno competenza e amore per la musica siano gli ultimi ad essere ascoltati, come se il loro parere non fosse invece fondamentale.
  2. A un volontario di coro parrocchiale consiglierei di provare a cantare tutti i quasi 250 canti contenuti nel libro degli inni, con la sola voce, senza chitarre o percussioni. Se ha un minimo di sensibilità musicale scarterà tutti quelli dove parole e musica mal si accordano, seguiti da quelli con testi troppo concettuali (quindi poco cantabili) o persino ambigui (p.es., Te lodiamo Trinità) e infine tutto quanto è Sanremo con le parole cambiate.
  3. Il canto liturgico deve mantenere un minimo di solennità, non è un musical.
  4. Com’è unitaria la liturgia, unitario dovrebbe essere anche il canto liturgico. Invece spesso si cantano in sequenza brani musicali diversi per stile e privi di un vero legame organico. L’insieme non è strutturato.
  5. Nel repertorio attuale, spesso gli intervalli tra le note sono spesso troppo ampi. Il corale luterano si canta con naturalezza perché il motivo è contenuto anche in una sola ottava e tra una nota e l’altra l’intervallo è minimo, mentre le canzoni in stile Sanremo sono riservate a cantanti professionisti, capaci di passare da un’ottava all’altra senza steccare e di passare dal basso all’acuto con naturalezza. Ma sono atleti della voce.
  6. Un’iniziativa elementare ma pratica consiste nel selezionare in ogni parrocchia almeno una voce guida. Una persona che abbia una bella voce, sappia cantare e leggere uno spartito e intoni per primo il canto, seguito dall’assemblea. E che sia capace anche di dare quelle indicazioni minime per cantare insieme in modo decente, visto che la pratica del canto corale è decaduta anche nella scuola primaria. Chiediamo troppo?

NOTE:

 

 

 

Afghani: rimpatri forzati fra le bombe

Tornano. Sono costretti a tornare nel Paese da cui erano fuggiti per cercare un’esistenza futura. Sono migliaia di afghani che, come altri migranti e rifugiati, si vedono respinti dall’aria che tira in Europa, un’aria xenofoba fomentata o subìta dai tanti governi Ue. Che in troppe circostanze, e nelle più diverse latitudini, non hanno attuato un’adeguata politica dell’accoglienza e dell’inserimento delle emergenze migratorie, così da ritrovarsi decine di migliaia di vite in sospeso. E nelle condizioni più varie: dalle para-detenzioni di taluni centri di accoglienza, alla ghettizzazione e all’autoemarginazione in città e campagne di chi cerca di arrangiare un’agra realtà pur di non tornare negli inferni conosciuti. Di chi si fa fantasma sociale pur rientrando nella catena dell’uso e dello sfruttamento di mano d’opera. Un fenomeno discusso dalla gente per via, prima che dai politici nelle sedi istituzionali e nei salotti televisivi. Discusso spesso in assenza d’informazioni, lamentando le proprie contraddizioni crescenti, col sangue agli occhi per la contrapposizione dei diritti e lo scontro razziale e razzista che ne consegue. E l’Italia non è fra le piazze peggiori, visti i muri e le minacce sollevati in questi anni dal pensiero neonazista riagitato nell’Europa della tradizione e della conservazione. Indifferenti all’orgiastica competizione dell’assassinio di civili per accaparrarsi la leadership del terrore che è in atto da due anni fra talebani e Isis del Khorasan, i governi del nostro continente aumentano i rimpatri forzati di richiedenti asilo afghani.

Nel 2016 avevano respinto circa 10.000 individui, compresi molti minori, nell’anno che s’è chiuso la cifra è aumentata, nonostante siano cresciute le vittime nelle province dove gli afghani vengono rispediti. Ma a premier e ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione, anche quelle anime politiche che si fanno belle di sani princìpi di cristiana ospitalità poco interessa il contorno esterno. Premono ragioni di Stato e i risultati elettorali di un’Occidente ormai assillato da paure e chiusure, una società che si asfissia in una futile tecnologia della pace, trasferendo i prodotti della propria tecnologia della morte nel mondo posto sotto tutela. Cui s’aggiunge la sciagurata potestà delle alleanze economiche e geostrategiche che disegnano i disastri presenti nei luoghi di crisi. Con l’ultimo governo locale, frutto delle fallimentari alchimie sperimentate nei sedici anni di occhi e mani sull’Afghanistan, l’Occidente ha siglato il patto “Joint way foward”. Come nei tanti progetti sparsi dall’imperialismo  attorno alle sventure create, di condiviso in quella sigla non c’è nulla. Anzi, niente di più unilaterale si nasconde nella proposta rivolta al presidente Ghani. Se il Paese non accetterà di riprendere gli afghani che le nazioni rispediscono al mittente, Kabul, che già deve fare i conti coi serrati assalti jihadisti e talebani, vedrà tagliarsi i fondi  con cui l’Occidente lo mantiene in un comatoso stato di sopravvivenza. L’Afghanistan risponde a una tipologia di rentier-state. Utilizzato dalla Nato, e principalmente dagli Usa, quale avamposto militare strategico per l’Asia. Le basi aeree di: Kabul, Bagram, Parvan, Charikar, Kandahar, Khost, Paktia, Maza-e Sharif, Jalalabad garantiscono al Pentagono osservazioni, controllo e incursioni tramite F-16 e droni.

L’altra rendita proviene dallo sfruttamento del sottosuolo dove, nell’ultimo quindicennio, sono state scoperte vene minerarie cui è interessata l’industria bellica e l’high-tech. In realtà molti rilievi erano stati fatti a inizi anni Ottanta, durante l’occupazione sovietica. I russi, da sempre attenti a fonti energiche e materie prime, avevano compiuto scandagli, sapendo che per conformazione geologica gli urti fra subcontinente indiano e piattaforma asiatica aveva stratificato vari metalli. Dal 2004 l’Us Geological Survey, grazie all’occupazione dell’Enduring Freedom, ha formalizzato le ispezioni attorno a giacimenti di rame, ferro, cobalto, alluminio, mercurio, litio e le famose ‘terre rare’, stimando in mille miliardi di dollari il patrimonio di quelle viscere. A sfruttare talune riserve, il rame ad esempio, copioso in un punto dove c’è un’antichissima area archeologica (Mes Aynak) è il China Metallurgical Group. Il governo Karzai ne cedette l’estrazione trentennale all’azienda di Pechino in cambio di tre miliardi di dollari. Come per altre concessioni avvenute in questi decenni (terreni per le basi aeree, terreni per la coltivazione dell’oppio) non se ne è avvantaggiato il Pil del Paese; i capitali sono finiti nelle tasche di uomini di governo, clan familiari, clan tribali, Signori della guerra. Perché chi vuol sfruttare le risorse, dall’esterno e dall’interno, consente solo questa via. In quest’Afghanistan vengono rispediti, a morire o patire, i ragazzi che cercano un domani nella vecchia Europa.

Enrico Campofreda
Pubblicato 30 gennaio 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

Kabul, la corsa al primato del terrore

Prosegue la gara dell’attentato in una Kabul sfibrata più che blindata. Non c’è check-point, controllo, cinta muraria o ‘cittadella proibita’ che non possa risultare violata da attentati a ripetizione. Stamane la capitale afghana ne registra il terzo in dieci giorni, quand’è ancora mobilitata a tamponare la pesantissima strage di sabato presso l’ospedale Jamhuriat, in pieno centro città, dove le vittime sono salite a oltre un centinaio. All’alba un commando, in quest’occasione dell’Isis che ha rivendicato l’azione  (secondo alcune fonti compiuta di fatto da alleati tattici) ha assaltato l’edificio dell’Accademia militare d’élite ‘Marshal Fahim’, situato nella zona nord-ovest della capitale. L’attacco è durato ore, provocando l’uccisione di 11 militari e 4 assalitori, due dei quali kamikaze. Fra i motivi dell’azione attribuita alla rete di Haqqani, sempre riottosa verso il potere centrale talebano, ci sarebbero “sanzioni” americane verso il gruppo. L’unica sanzione che i comandi del ‘Resolute support’ riservano ai turbanti sono i missili per uccisioni mirate. E nel ‘mors tua vita mea’ tornata a essere unica legge vigente nella quotidianità afghana, talebani ortodossi, dissidenti, miliziani Isis autoctoni e venuti da fuori rivaleggiano a suon di assalti contro militari e civili del luogo. Alla popolazione che ha avuto la fortuna di raggiungere i trent’anni torna alla mente l’assedio di Kabul di inizio anni Novanta, quando a scontrarsi per il potere erano i Signori della guerra, divisi in bande che si cannoneggiavano dai crinali delle montagne attorno alla capitale.

Come allora, e con le diversità apportate dalla tecnologia, i kabulioti girano con dei foglietti infilati nel kurta-paijama. Ci son scritti: numero di cellulare, indirizzo di amici e parenti, gruppo sanguigno. Lo racconta un cittadino afghano a un inviato di Al Jazeera, ricordando come questo appunto potrebbe risultare inutile o essere solo scaramantico. La pesantissima aria che si respira negli ultimi mesi, proprio nel centro città, conduce all’incertezza e al pessimismo cronici. Ci son giovani che confessano di guardare più alla morte che alla vita e c’è chi pensa che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Si vive sospesi, fra esplosioni e un ossessivo riecheggiare di sirene. Dopo attentati devastanti, alcuni dei quali anche senza rivendicazione (quello del 31 maggio 2017 che fece 150 vittime), di certe persone si presume la morte perché non è stato possibile identificarle, in più taluni corpi dilaniati non riescono ad avere neppure una degna sepoltura secondo la ritualità islamica. Nello scenario della geostrategia terroristica, che s’interseca con la geostrategia dei Paesi che praticano il terrorismo di Stato attraverso interventi diretti e indiretti, l’attuale conflitto fra talebani e Isis vede sostegni e burattinai nient’affatto sconosciuti. Le intelligence statunitense e pakistana in primo luogo. Quest’ultima s’è trovata scavalcata in molte delle operazioni americane degli ultimi anni, dallo scontro con Qaeda per l’eliminazione di Osama bin Laden ad Abbottabad (2010), alla ripresa dei colloqui coi talebani da parte del governo Ghani, sempre su suggerimento di Washington (2016).

La trattativa è stata l’ultima pietra traballante posta dall’amministrazione Obama prima di lasciare la Casa Bianca. E non ha prodotto effetti. L’anno di Trump è stato, come per tante mosse della sua gestione, confuso, tranne vagheggiare ritorni di guerra massicci annunciati con la mega esplosione della Moab. Ma la partita afghana, in ballo da un quarantennio, calamita altri interessi. Oltre quelli delle basi militari statunitensi, il Paese è terreno di conquista fra contendenti regionali, e mentre Iran e Turchia rivaleggiano nel Piccolo Medio Oriente, il Pakistan è il gigante del Grande Medio Oriente. Da parte sua la megalomane monarchia Saud, protettissima dagli Usa, interviene su entrambi i fronti, in genere coi vari volti del jihadismo, Qaeda e ora Isis. Islamabad, l’alleato nucleare che impensierisce Washington, sta sicuramente lavorando con la sua Inter Services Intelligence sul fronte afghano. Lo scorso anno ha ricevuto 1.3 miliardi di dollari statunitensi, li usa anche per foraggiare la galassia talebana, la più difficilmente sradicabile dalla terra dell’Hindū Kūsh. E vuole la sua contropartita, fra l’altro difficilmente identificabile, viste le spinte centrifughe presenti nella più grande nazione islamica (200 milioni di abitanti, in gran parte sunniti, ma anche con tendenze fondamentaliste deobandi, e comunque 30 milioni di sciiti). Ad arricchire il panorama, la ‘protezione’ cinese del sistema pakistano, per gli effetti economici che Pechino conduce nella propria geopolitica, che la vede molto interessata alle miniere afghane, tanto da avere ottenuto da oltre un decennio il primato di ricerca e sfruttamento del sottosuolo, ricco delle cosiddette terre rare (scandio, ittrio, cadmio, ricercate nell’alta tecnologia) e non solo.

Enrico Campofreda

Pubblicato 29 gennaio 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo