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Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi

La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.

Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche  all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.

Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.

L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.

Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.

Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.

Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti

Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.

L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Saper vedere Trieste

Una città si può descrivere attraverso pochi luoghi emblematici, magari non scontati. E’ quanto fa Pietro Spirito, scrittore e collaboratore del quotidiano triestino Il piccolo, il quale ben conosce la sua città di adozione e ci propone in meno di cento pagine una guida insolita di una città già diversa di suo. S’inizia dal Porto Vecchio e dai suoi monumentali magazzini oggi diruti, ma una volta collegamento tra la città e una frenetica attività commerciale. Oggi tutto si svolge nel Porto Nuovo, dove presto attraccheranno anche i cargo cinesi provenienti dalla nuova Via della Seta (1) . Ma chi arriva a Trieste in treno, da Miramare fino alla stazione centrale vede sulla destra solo un vasto, continuo demanio ferroviario assai degradato e una serie di enormi, spettrali docks, di cui uno (il numero 26) è oggi un enorme spazio espositivo per l’arte contemporanea, grazie all’iniziativa di Vittorio Sgarbi. L’autore descrive uno per uno gli impianti del Porto Vecchio, vero campionario di archeologia industriale, e lasciamo al lettore il piacere della visita guidata, con un occhio a Metropolis di Fritz Lang.

E passiamo al secondo frammento: la stazione di Rozzol-Montebello, a ridosso del costone carsico. Chiusa da anni, mantiene ancora gli arredi originali e addirittura le scritte bilingui austro-ungariche. Nel dopoguerra Trieste per quasi cinquant’anni non è più cresciuta; le zone periferiche essendo troppo vicine al confine militare, e molti tronchi ferroviari semplicemente non avevano più traffico. La Stazione Centrale di Trieste era il punto d’arrivo (dal 1858) delle Ferrovie meridionali (Sudbahn) che univano Vienna al suo porto, ma c’era anche (per l’Est) la stazione di Campo Marzio, oggi museo ferroviario. Ma ricordo ancora i binari della ferrovia della val Rosandra (oggi pista ciclabile), che univa la città al contado istriano sulla strada di Fiume. Per costruire le strade ferrate qui gli Austriaci hanno scavato nella roccia carsica trincee, superato pendenze e aggirato quote. E non solo a Trieste: la ferrovia istriana che parte da Divaccia (SLO), da Pisino fino a Pola è tutta una trincea scavata nella roccia. L’insieme è quindi ardito e tortuoso, ma all’epoca la gestione almeno era unica, mentre oggi è frazionata tra Austria, Slovenia ed Italia. E quella che chiamavamo all’epoca “la camionale” ora è la trafficata superstrada dei Tir tra est e ovest.

Il viaggio a Trieste continua in via Fabio Severo 79, non lontano dall’Università. Giuro che non sapevo che un austero condominio borghese ospitasse all’epoca La casa degli sposi, un’istituzione privata che offriva una dimora alle coppie sposate povere purché di provata onestà. Se nasceva un figlio, potevano abitarvi per tre anni. Tale pio istituto funzionò fino alla Grande Guerra. In sostanza, a Trieste l’assistenza sociale passa presto dalla Chiesa ai ricchi privati, i quali volevano anche attutire le differenze sociali create dallo sviluppo del porto. E al porto ritorniamo per parlare di Ursus, una gigantesca gru-pontone da duemila tonnellate ormai in disuso ma popolare simbolo del Porto Vecchio. Tornando a terra, passiamo ora all’ ex-Hotel Balkan, poi Narodni Dom (casa del popolo) slovena e oggi Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori dell’Università di Trieste. Ottima soluzione, visti i non sempre facili rapporti con la minoranza slovena: nel 1920 un primo assalto dei fascisti aprì la strada alla loro snazionalizzazione, pagata poi cara dopo il 1943. Ma dal dopoguerra la minoranza slovena è protetta, inizialmente grazie all’amministrazione alleata, nonostante essa potesse esser vista come quinta colonna comunista, pur divisa al suo interno tra “cominformisti” e titini. C’è sempre il tentativo di imporre lo sloveno come seconda lingua ufficiale, ma Trieste non è Bolzano, dove i germanofoni sono una maggioranza reale. Trieste è italiana e ha sempre avuto paura della demografia slava; direi persino che l’Irredentismo mirava più a escludere in futuro gli slavi dal potere che a sostituire la classe dirigente germanica, in fondo una stupenda sovrastruttura. Sloveno è sempre stato il contado dell’altopiano, sloveni sono molti operai portuali, e ho sempre avuto l’impressione che nell’atteggiamento triestino contasse molto la differenza di classe sociale. Oggi è diverso: gli sloveni sono più istruiti, le giovani coppie italiane comprano casa dalla parte slovena dell’altopiano perché i prezzi sono più bassi e addirittura mandano i figli alle scuole primarie slovene, rovesciando di fatto il trend. E le ragazze slovene in gita a Barcola o sul lungomare sono figlie del benessere, si vede. E se la tirano meno delle “mule”.

Torniamo ora al Porto Vecchio, nel Magazzino 18, per parlare dell’esilio istriano e dalmata: almeno 350.000 italiani “cacciati da un regime che non li amava e che loro non amavano”. Regime – aggiungo io – comunque in sintonia con i rancori e le aspirazioni dei nazionalisti sloveni e croati. Il Magazzino 18 è noto a noi anche grazie allo spettacolo di Simone Cristicchi: vi sono conservati tutti gli oggetti depositati dai profughi e mai ritirati; masserizie ora archiviate e valorizzate, ma per anni dimenticate come i loro proprietari. E che la materia sia ancora scottante, lo sappiamo anche a Roma, da quando nel 2004 è stato istituito il Giorno del Ricordo. Dal 10 febbraio 1947 , firma del Trattato di pace che assegnava a Tito l’Istria e gran parte della Venezia Giulia, sono passati 70 anni (2).

Il capitolo successivo potremmo intitolarlo “Le fortezze Bastiani”. Durante la Guerra Fredda la lunga frontiera del Carso triestino era una teoria ininterrotta ma discreta di fortificazioni: bunker, falsi fienili, false case cantoniere e torrette cannoniere, coordinate in una rete di gallerie e depositi. I reggimenti di Fanteria d’arresto erano reclutati in genere tra gli abitanti della zona, in modo da aver riserve pronte e addestrate. Ormai è tutto chiuso e sigillato: dopo la caduta del Muro e la fine della Jugoslavia tutto il dispositivo è stato smontato in pochi mesi per risparmiare soldi da dare ad altri. Eppure un Museo della Guerra Fredda dovrebbe partire proprio da lì, da quel lungo confine presidiato per cinquant’anni da migliaia di soldati di leva (3). Confine preso molto sul serio, vista la tortuosità della linea di frontiera, la vegetazione non curata e soprattutto la presenza dei graniciari, le guardie di confine jugo, reclutate fra duri guerrieri totalmente privi di humour. Era facile sconfinare per sbaglio e sentirsi urlare “Stoj” (fermo!) da una pattuglia armata, quasi sempre accompagnata da un grosso cane nero. Chi ne ha fatta esperienza se la ricorda bene, a partire dall’autore. Oggi si passa dall’altra parte liberamente, è ormai la gita fuori porta (4). Confine che si apriva però in alcuni giorni per permettere il commercio con i sciàvi. Ponte Rosso e la stazione delle autocorriere (oggi Sala Tripcovich) diventavano realmente la Fiera dell’Est, dove la merce più ambita erano le scarpe, l’abbigliamento, i pezzi di ricambio, le bambole e i cowbojka, cioè i jeans, e dove le donne si mettevano indosso dodici gonne per passarle alla frontiera. Oggi i negozi di “strazze” sono un ricordo e i cinesi hanno preso il posto dei triestini e napoletani, ma all’epoca Ponte Rosso era la valvola di compensazione tra capitalismo e socialismo (5). La merce comprata era poi ridistribuita per tutto l’Est; si dice che i jeans comprati a Trieste arrivassero fino in Siberia.

Il libro continua poi parlando del “Pedocin”, uno stabilimento balneare dopo le Rive, da sempre diviso in due settori riservati: uomini e donne. No, l’Islam non c’entra niente, è una vecchia tradizione triestina, voluta dalle donne per stare in pace a prendere il sole, fare il bagno e “ciacolàr” con le amiche. L’ultimo capitolo, come Gente di Dublino, è infine dedicato ai defunti. Andiamo dunque al Cimitero monumentale di Sant’Anna, alla ricerca dei triestini illustri: Svevo, Saba, i fratelli Stuparich, Anita Pittoni…

Così l’autore. Io invece parlo solo ora di Tetsutada Suzuki, un ricercatore di sociologia conosciuto nel capitolo sui confini. Come vede i triestini? Come “gente di confine”, e fin qui non bisogna venire dal Giappone per capirlo. Forte però della scrittura ideografica, scinde la parola “confine” in “con” e “fine”: stare insieme ma definire il punto di arrivo, di separazione. Nell’epoca in cui l’Italia ha rinunciato a difendere i propri confini – nazionali, militari, etici – la lezione dunque ce la dà chi viene da lontano. Solo chi ha vissuto a Trieste può capire cos’è un confine e perché va difeso, ma la novità viene sempre da fuori e quindi l’identità si rimette di nuovo in gioco…

Fin qui il libro di Antonio Salerno. Ma l’insolito viaggio potrebbe continuare, e qui propongo alcuni spunti: la targa che alla Stazione Centrale ricorda la partenza nel 1914 dell’Imperial-Regio 97° reggimento di fanteria per la Galizia. Oppure il cancello ormai chiuso della bella, enorme caserma Vittorio Emanuele in via Rossetti, dove ha fatto il militare mezza Italia, compreso il sottoscritto. Oppure l’elenco delle farmacie, sproporzionato per chi non sa che Trieste è anagraficamente vecchia. Infine, mi ha sempre affascinato la vita di Diego de Henriquez, strambo collezionista di militaria – treni corazzati compresi – morto nel 1974 in circostanze poco chiare (6)

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Trieste è un’altra
di Pietro Spirito
Editore: Mauro Pagliai Editore, 2011, pp. 96

Prezzo: € 9,00
EAN: 9788856401691

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NOTE

  • Ricordo bene i lunghi treni merci che ancora nel 1976 partivano la sera dalla stazione e sfilavano lentamente lungo piazza dell’Unità diretti al Porto Nuovo.
  • Per dovere di cronaca, va detto che mentre l’Istria è da sempre geograficamente definita, la Venezia Giulia è sempre stata una terra dai confini continuamente riformulati e non sempre coincidenti con una precisa identità etnica o linguistica.
  • Quando ho potuto visitare la Jugoslavia, una volta finita la naia, ho scoperto che dall’altra parte del fronte il dispositivo militare jugo era praticamente simmetrico al nostro.
  • A Gorizia mi hanno raccontato di uno scherzo di caserma che ha del surreale: hanno mandato un tenentino di prima nomina in pattuglia notturna, non prima di aver arretrato di trecento metri il confine di Stato, ovviamente d’accordo con il colonnello. Il malcapitato fu arrestato, interrogato e maltrattato da falsi granizzari per tutta la notte. Chi conosce Gorizia, all’epoca divisa come Berlino, sa che uno scherzo simile era possibile.
  • http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2016/12/28/news/trieste-yugoslavia-al-tempo-dei-jeans-1.14631376
  •  L’argomento comunque è stato già sfruttato, sia in biografie come Diego de Henriquez. Il testimone scomodo, di Vincenzo Cerceo e altri (2015), Le lunghe ombre della morte, del giallista Veit Heinichen (2007) e infine il romanzo Non luogo a procedere, di Claudio Magris (2015).

Damasco, il viaggio che non si può più fare

Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.

di Costanza Pasquali Lasagni

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare

È un viaggio che inizia alla stazione degli autobus di Charles Helou, a Beirut, sotto un lurido cavalcavia in mezzo al traffico e alla polvere, all’altezza di Gemmayzeh.

I pulmini sono ordinati per destinazioni, e attendono scientemente di essere pieni per poter partire. Il nostro, destinazione Damasco, è lì che ci attende. Decidiamo un viaggio VIP, cioè in un pulmino nuovo, con l’aria condizionata, e al massimo una decina di posti, per una decina di dollari ben investiti. È il fine settimana di Pasqua del 2010, e in Medio Oriente il caldo già si fa sentire.

Alla frontiera siro-libanese, Masna’a, ci mettiamo in fila per fare il visto per la Siria, dieci dollari, e pochi minuti di attesa, perché siamo italiane. Un gruppo di backpackers americani attende da ore, e il loro visto costa molto di più. Ci scambiamo un’occhiata solidale e ringraziamo mentalmente di essere cittadine di uno stato la cui politica estera è senza spina dorsale. A volte, come in questi casi, può essere utile. Stessa fazza, stessa razza.

In tre-quattro ore siamo alle porte di Damasco, il pulmino ci lascia a Sulemanye, la vecchia stazione degli autobus, e prendiamo un taxi che per meno di un dollaro ci porta a Bab Touma, la porta orientale della città vecchia.

È un sogno che si avvera.

Nei vicoli del quartiere cristiano troviamo con fatica – queste bellissime porte sembrano tutte uguali – la nostra casa. C’è il cortile in stile omayyade, la fontana in mezzo, il cortile coperto. Come in un libro di Khaled Khalife. È una casa di studenti, in Siria prima della guerra ci si veniva a studiare l’arabo, da tutto il mondo, e i nostri compagni di casa sono inglesi, pakistani, indiani, oltre che siriani.

Una porta damascena

Le case damascene si sviluppano attorno al cortile centrale, e nei piani superiori ogni stanza è un microcosmo. Ci si ritrova poi nel cortile, nella parte coperta per proteggersi dal sole del giorno o dall’umido della notte, per le chiacchere serali, un bicchiere di arak, un tè zuccherato. Si parla di sogni, viaggi, lezioni di arabo.

Pochi anni dopo, tutto questo sarebbe finito, infranto, rotto, come uno specchio scagliato via con violenza.

La notte è viva a Damasco, specialmente a Bab Touma, il quartiere cristiano. Ma a Damasco si sta tutti insieme, cristiani con musulmani, l’aria è leggera, il gelsomino diffonde il suo profumo tra i vicoli, si respira l’odore dolciastro dei narghilè, e ci tuffiamo a Beit Jabri per assaggiare le mezze più buone del medio oriente, con i chicchi di melograno che colorano il babaghannouj, i camerieri di una gentilezza estrema, e il gruppo di oud che suona in sottofondo. Poco più avanti verso le mura, il ristorante Oxygène ha una terrazza vista città vecchia, ed è lì che si balla il giovedì sera, musica arab-pop sì, ma anche salsa e disco.

È un’iniezione di vita questa Damasco, ci perdiamo nel souq Hamidiye, quello coperto, dove trovi qualsiasi cosa, dai profumi ai merletti, dai chiodi ai broccati damasceni, ai vestiti da sposa. Quello del gelato Bakdash, crema di latte e scaglie di pistacchio, che ancora adesso è aperto e la fila si vede da fuori, anche se i pistacchi, che in tempo di crisi costano tanto, ora sono mischiati alle noccioline.

Nei negozi del souq Hamidiyeh si trovano vestiti per tutte le occasioni

Cercando cercando, scoviamo un hammam per donne, dietro il santuario sciita di Sayyda Rukayb. Bisogna seguire la strada, “doughry”, ci dicono i vecchietti a cui chiediamo aiuto, e poi ci sarà una tenda sulla sinistra. Bello nascosto da occhi indiscreti, non si sa mai. Scansiamo la tenda, scendiamo i pochi gradini, e si apre l’ennesimo universo magico. Il calore del vapore, i divani rialzati, la tazza di tè bollente che neanche sei entrata e già ti arriva in mano.

È il mondo delle donne, protetto da una tenda impenetrabile, che si ritrovano il sabato per fumare, bere il tè, chiacchierare, prendersi cura di sé.

Le signore dell’hammam, dalla pelle bianca e liscissima, ci guidano nelle stanze interne, tra i lavandini di pietra e le coppette di ottone, qui si fa lo scrub, qui invece il massaggio agli olii, lavanda, gelsomino, rosa damascena. C’è un’aria di festa, si canta e si balla, un gruppo di ragazze sta festeggiando una ragazza in procinto di sposarsi. Mai e poi mai avrei immaginato che anni dopo, nella stessa Damasco anestetizzata dalla guerra, le mie amiche avrebbero ritrovato quello stesso hammam, intatto, e organizzato per me la mia festa di addio al nubilato.

È finalmente la domenica di Pasqua, e Bab Touma è in festa. I bambini sono vestiti con il vestito buono, le chiese sono addobbate con festoni e palloncini, le bande di scout suonano le marce pasquali, i sacerdoti ortodossi e cattolici guidano le processioni tra le mura di pietra bianca e nera dei quartieri cristiani, i forni sfornano il pane di Pasqua, quello tondo con i semini di anice e il sapore dolciastro. A me la Pasqua è sempre piaciuta, si rinasce, ci si rinnova. Ci accodiamo alla processione, un corteo di persone che cantano e sorridono, salutiamo le persone che si affacciano dai balconi.

La moschea Omayyade vista dai tetti di Damasco

Per visitare la moschea Omayyade, dobbiamo seguire l’ingresso per le donne, dietro l’angolo, dove prendiamo in prestito un lungo e pesante abaya, nero o verde scuro, “coprite bene i capelli mi raccomando”, si premurano all’ingresso. Ora nel cortile della moschea non si può più sostare, né fare le abluzioni alla fontana centrale, per i famosi “motivi di sicurezza” che giustificano un po’ tutto in ogni parte del mondo.

Ma almeno la moschea c’è ancora, mentre ad Aleppo è solo un raggelante mucchio di sassi, guardati a vista da qualche soldato.

È lunedì mattina presto, il canto del muezzin ci accompagna mentre riprendiamo un taxi sgangherato che per il solito dollaro, ora il cambio è dieci-undici volte tanto, ci riporta alla polverosa stazione degli autobus, dove saliremo su un pulmino VIP che, una volta pieno, ci riporterà nella rumorosa Beirut.

La magia sembra finire, ma rimane addosso, come il profumo di gelsomino, e la speranza di un posto e una vita che ci auguriamo sopravviva, mentre già arrivano notizie infelici dai paesi vicini. È solo la primavera del 2010.

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare, ma che sogno di tornare a fare al più presto.

Per gentile concessione del magazine QCode
del 10/08/2017

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Chi è Costanza Pasquali Lasagni

Costanza, cervello da geopolitica e cuore da umanitaria, sta benissimo in mezzo ai conflitti, meglio se mediorientali. Per Q Code Magazine ha scritto I Diari Palestinesi.

Tutti gli articoli di Costanza Pasquali Lasagni

Binario 2 Est

Siamo alla stazione Termini e dobbiamo andare a Chiusi. E’ la vecchia linea Roma-Firenze, quando s’impiegavano tre ore invece di una, prima della Direttissima.  Il treno ci aspetta al binario 2 est. Purtroppo ben presto scopriamo est non è il contrario di ovest, ma significa “esterno”, il che significa percorrere 500 m. di marciapiede, naturalmente con i bagagli, fino a ritrovarsi all’altezza di piazza San Lorenzo in una sorta di stazione di campagna. Il che non è piacevole, visto che siam ad agosto e a Termini facchini e carrelli non esistono. Ma la sorpresa è stata sapere che il convoglio non era stato mandato in quello sperduto binario “una tantum”, ma vi è normalmente assegnato, come da sempre le Laziali partono dal binario 28. L’ho saputo da chi prende quel treno abitualmente – in genere pendolari da Orte. Per quale motivo una linea oggi secondaria ma comunque parte della dorsale italiana venga sbattuta in quel lontano binario non si sa.

Divieti romani

Sul lato del bancomat del mio ufficio c’è affisso un adesivo, con la seguente scritta stampata: “vietato introdurre gas”. Ma, dico io, a chi mai verrebbe in mente di introdurre gas in un bancomat? La risposta l’ho avuta da un articolo di cronaca: una banda di romeni usava “gonfiare” gli sportelli bancomat per poi farli esplodere e scappare con il malloppo. Ma a questo punto uno dovrebbe scrivere pure “vietato avvicinarsi con grimaldelli, piedi di porco e altri attrezzi atti allo scasso”. O ancora più semplicemente, meglio scrivere a chiare lettere: SETTIMO COMANDAMENTO: NON RUBARE”.

Cito questo esempio perché il burocrate tende ogni volta ad aggiungere un pezzo in più alle formulazioni semplici – basta vedere le leggi italiane, inzeppate di glosse “e successive modificazioni”, al punto di risultare se non incomprensibili, almeno di difficile interpretazione. Tutto questo ricorda un po’ le nostre mogli quando si parte in viaggio: uno ha scientificamente messo tutto il necessario in una sola borsa o zaino e loro ogni volta aggiungono un oggetto o un vestito di cui non si può assolutamente fare a meno, col risultato di andare alla stazione con borse, pacchi e altri carichi squilibrati, più naturalmente la valigia o il trolley iniziale. Oppure pensate agli aeroporti: per andare da Roma a Milano la gente ormai prende il treno pur di non farsi rompere le scatole per tutto quello che è vietato portare. E’ una lista lunga, non sempre ovvia, e ogni volta c’è un nuovo articolo passibile di sequestro: le forbicine per le unghie, o i liquidi in bottiglia, visto che corre voce che i terroristi usino esplosivi liquidi (finora non se n’è trovata neanche una goccia, ndr.). Ed è così che si perde tempo tutti, noi e loro, mentre sarebbe più ovvio controllare chi viaggia senza bagaglio o si muove in modo strano, anche se ormai bisogna dire che chi deve sorvegliare è abbastanza sveglio. Ma l’albero lo vedi solo se non cominci a contare le foglie.