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Il Falerno: Il vino imperiale della Campania Felix

Le fonti letterarie e gli studi archeologici testimoniano la grande fortuna che la vite e il vino ebbero nel mondo antico attestando una profonda conoscenza sia di questa coltura che della vinificazione, ossia di quell’insieme di operazioni che prendendo il via dalla vendemmia, determinano la trasformazione dell’uva in vino. Fu sicuramente grazie al vino che la coltivazione della vite ebbe così grande successo e così grande espansione nel mondo, fin dai tempi più antichi questa pianta fu ritenuta un dono del cielo, ed il vino per le sue qualità straordinarie, per l’ebbrezza che procura, attribuito alle potenze superiori. Il vino divenne la bevanda collegata al culto degli dei ed alla celebrazione di eroi, poeti e artisti e gli uomini l’offrivano in omaggio alla divinità.

La vite fu consacrata a Dioniso o Bacco, dio della fertilità e della vegetazione, divinità che nei suoi culti più arcaici era il dio delle linfe “il sangue delle piante” che ad ogni primavera saliva dalla terra e resuscitava gli alberi. Anche il suo abituale colore rosso è stato associato al sangue e, di conseguenza, direttamente legato alla vita. E poiché la vita eterna era privilegio degli dei immortali, si è creduto che bere vino permettesse di diventare simili a loro.

In epoca romana e per lungo tempo i vini campani tra i quali l’insigne Falerno, furono lodati dai poeti e avidamente ricercati e consumati in tutte le regioni dell’Impero; da Ateneo a San Paolo si conveniva sulla necessità di bere moderatamente e sempre miscelato con acqua l’inebriante liquido che per i Cristiani poi divenne il sangue di Cristo nell’Eucarestia, assumendo un ruolo importantissimo nei banchetti cristiani.

Nei territori della Campania settentrionale in epoca romana si producevano molti vini pregiati ma il più celebre fu il vino Falerno, questo “frutto di Bacco” nasceva da una terra fertilissima da cui traeva il nome, l’ager Falernus, il campo Falerno, territorio al margine settentrionale della Campania antica, compreso tra il fiume Garigliano a nord e il fiume Volturno a sud, un territorio di grandissima importanza strategica per la posizione geografica di cerniera tra Lazio e Campania, caratterizzato da un litorale suggestivo e incantevole, con estese spiagge ricche di sabbia fine e dorata. Una terra straordinariamente fertile, con un clima favorevole e un terreno molto fecondo al punto che gli antichi la definirono Campania Felix, cioè felice, fortunata, ferace, per la produzione cerealicola e in particolar modo per la coltura delle famose viti, che secondo le fonti antiche furono introdotte dai popoli greci, gli Aminei della Tessaglia.

La pregevole qualità del vino Falerno era dovuta per di più alle particolari caratteristiche dei suoli di quest’area della Campania settentrionale, terreni asciutti e ben drenati, composti da calcari inframmezzati con terreni tufacei di origine vulcanica e alla esistenza di aree pedemontane il cui suolo è riscaldato dalla presenza di fanghi caldi e vene sotterranee di acque termominerali e solfuree dovute alla presenza del vicino complesso vulcanico di Roccamonfina.

L’agro Falerno si configurò come entità a sé nel 340 a.C. con la battaglia decisiva a Trifanum, località nella piana di Sessa Aurunca, vinta da Roma contro i Latini ed i Campani, diventando così ager publicus populi Romani e nella seconda metà del IV secolo se ne avviò il processo di romanizzazione con la deduzione di colonie e con la creazione delle tribù Oufentina e Falerna, la costruzione della via Appia nel 312 a.C. e in particolare con la fondazione della colonia marittima di Sinuessa nel 296 a.C.

Questo territorio in età romana fu celebrato per la produzione dei suoi vini ampiamente esportati con le navi sui mercati italici e mediterranei nei caratteristici contenitori anforici, le anfore Dressel, prodotte in grande quantità nelle fornaci ancora attestate nella zona, soprattutto tra la fine del I sec. a.C. ed il I sec. d.C. .

L’anfora, il contenitore a due anse, nel mondo antico è il recipiente più diffuso per il trasporto marittimo delle derrate liquide o semiliquide che venivano commercializzate, in particolare il vino, l’olio, il miele, la salsa da pesce: il celebrato garum.

La Campania negli scrittori antichi fu celebrata come la regione più fertile d’Italia, ad esempio da Cicerone (I sec. d.C.) acquisiamo: I campani sono sempre pieni di superbia per la fertilità dei campi e l’abbondanza dei prodotti, per la salubrità, la disposizione e la bellezza delle loro città. E’ da questa abbondanza, da questa profusione di beni d’ogni genere che deriva anzitutto quella presunzione che spinse Capua a chiedere ai nostri antenati che uno dei due consoli fosse campano (Cic. l. agr. 2,95).

In età romana i veri intenditori del vino Falerno erano in grado di distinguere ben tre varietà: la più rinomata era il Faustianun, prodotto sulla media collina; quello di alta collina, il Caucinum; mentre il vino di pianura aveva semplicemente l’appellativo generico di Falerno così come apprendiamo dallo storico e naturalista Plinio il Vecchio che ne identifica tre specie: austerum, dulce, tenue, lamentando pure che ai suoi tempi (I sec. d.C.) i coltivatori guardavano più alla quantità che alla qualità (Plin., N.H., XIV 6).

Al tempo di Plinio il Vecchio il mondo romano conosceva 185 tipologie diverse di vino, con prevalenza di vini rossi, ai quali di frequente venivano aggiunte anche sostanze aromatizzanti (resine ed erbe) o dolcificanti (miele); i più famosi erano quelli liquorosi ottenuti da uve sovra mature o appassite.

E’ molto probabile che i Greci abbiano introdotto nell’Italia meridionale tecniche specialistiche di coltivazione della vite, anche se con l’arrivo dei romani nel IV secolo a.C. ci furono le condizioni generali perché tale produzione, accompagnata da ottime infrastrutture, potesse essere commercializzata in Italia e in tutto l’Impero.

Come vino pregiato, il Falerno si è affermato nella tarda età repubblicana e sicuramente già agli inizi del I secolo a.C. era un ottimo vino se Plinio (N.H. XIV, 95) ci tiene a precisare che “ … i vini d’oltremare mantennero il proprio prestigio e questo fino al tempo dei nostri nonni, persino quando il Falerno era già stato scoperto …”. Marziale insiste sul colore nero e lo definisce immortale, il vino che invecchia, ma non muore mai; altri autori ne accentuano l’amarezza e l’asprezza del sapore.

Della qualità e della fama da esso raggiunta ne è prova anche il costo elevatissimo; la grande importanza economica del Falerno ben si coglie dalla viva testimonianza di alcuni graffiti pompeiani, su uno dei quali si legge:

Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno” (CIL IV 1679).

Il mondo romano conobbe un gran numero di forme vascolari destinate al vino: in terracotta, metallo e in vetro, legate alle varie operazioni come il contenere e l’attingere; questi contenitori furono esportati in tutto l’impero e spesso firmati dai bronzisti che li realizzavano per garantire la perizia tecnica delle officine romane, soprattutto italiche, tra le quali famose erano secondo Plinio quelle di Capua.

Il vasellame per il banchetto era spesso realizzato con materiali preziosi e veniva quindi ostentato come manifestazione di ricchezza del proprietario che li esponeva su credenze e tavoli.

Nei terreni collinari, asciutti e permeabili della provincia di Caserta nei moderni comuni di Cellole, Sessa Aurunca, Mondragone, Falciano del Massico e Carinola si produce ancora oggi questo vino dalle origini mitiche che è di grande interesse rievocare. Il mito racconta infatti che il dio Bacco proprio sulle falde del monte Massico, comparve sotto simulate spoglie ad un vecchio agricoltore di nome Falerno, il quale, nonostante la sua umile condizione lo accolse offrendogli tutto quanto aveva, latte, miele e frutta. Bacco, commosso, lo premiò trasformando quel latte in vino che Falerno bevve addormentandosi subito dopo. Fu allora che Bacco trasformò tutto il declivio del monte Massico in un florido vigneto.

In tempi recentissimi si è sviluppata tra i produttori vinicoli della zona una sensibilità rilevante nei confronti di questa memoria culturale che ha portato ad un deciso miglioramento qualitativo del vino, e poi al giusto ottenimento della Doc.

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L’edificio concepito da Cesare e realizzato da Augusto

I teatri romani, pur ricalcando nelle grandi linee i teatri greci, se ne distinsero per alcuni caratteri come l’ubicazione – principalmente nei centri urbani o immediatamente fuori le mura costituendo una funzione di raccordo nello spazio urbanizzato – ma anche per la necessità di essere progettati fin dall’inizio sia sotto l’aspetto architettonico sia tecnico-strutturale.

Il teatro romano si qualifica come un’architettura caratterizzata, dunque, sia da un’immagine di spazio interno spesso molto racchiuso in sé, sia da un’immagine esterna che è partecipe della scena urbana; la veste architettonica copre di conseguenza un ruolo di notevole importanza e la fastosità della decorazione diventa un modo per commisurarsi al prestigio della città. Si utilizzano marmi pregiati e graniti per i rivestimenti, si realizzano decine di statue per abbellire atri e deambulatori, si completano gli spazi esterni con giardini, fontane e portici; sulla scena si creano architetture bellissime, ricche di movimento e giochi di luce.

Per la ripartizione del pubblico si progettano una serie di percorsi, ambulacri e scale ricavati nello spazio sottostante la cavea e coordinati con la trama strutturale dell’edificio; questi percorsi fanno capo ai vomitoria (ingressi secondari) che davano accesso alla cavea stessa, oppure in alto a un portico anulare con colonne, costruito sulla sommità della cavea come elemento formale di conclusione dell’architettura.

Solitamente,per la distribuzione del pubblico, si realizzava anche un corridoio anulare a metà cavea unitamente a una serie di scale radiali che definivano i vari settori di posti.

La costruzione del Teatro di Marcello, iniziata nel 46 a.C. da Giulio Cesare, fu portata a termine dall’Imperatore Augusto che volle dedicare l’edificio al nipote Marco Claudio Marcello, figlio di Gaio Claudio Marcello e di Ottavia sorella di Augusto.

Nato nel 42 a.C. e sposo di Giulia figlia di Augusto nel 25 a.C., Marcello, che era nipote e genero dell’Imperatore e nel quale erano riposte le speranze della dinastia giulio-claudia, a soli 19 anni nel 21 a.C. muore in circostanze misteriose a Baia. Una statua d’oro fu posta nel teatro durante la fastosa cerimonia d’inaugurazione svoltasi secondo alcuni autori nel 13 a.C., secondo altri nell’11 a.C.. Restaurato sia da Vespasiano, sotto il quale fu completamente rifatta la scena che da Alessandro Severo, era probabilmente ancora in funzione nel V sec. d.C.

La ricostruzione planimetrica dell’edificio teatrale, del quale è ignoto il nome dell’architetto progettista, si completa con alcuni frammenti della Pianta Marmorea Severiana su uno dei quali – il frammento relativo al settore post scaenam – sono rappresentati 4 edifici di piccole dimensioni e d’incerta interpretazione per i quali si è proposta l’identificazione con il tempio della Pietà e il tempio di Diana, preceduti dalle rispettive are, che le fonti letterarie localizzano in questa zona, e che probabilmente furono demoliti da Giulio Cesare per recuperare lo spazio necessario alla costruzione del teatro.

La scelta del luogo non fu casuale perché l’edificio si eleva proprio nell’area che la tradizione secolare aveva consacrato alle rappresentazioni sceniche dove si trovava il Theatrum et proscenium ad Apollinem, la più antica cavea teatrale collocata in asse con il Tempio di Apollo Medico. Il Teatro di Marcello fu costruito nella zona che, secondo il riordinamento urbanistico di Roma operato dall’Imperatore Augusto, fu la regione IX, all’estremità orientale del Circo Flaminio tra il Campidoglio e il Tevere, oggi compreso tra Via del Teatro di Marcello, Piazza di Monte Savello, Via del Portico di Ottavia e Piazza Montanara. Sugli interventi edilizi che Augusto predispose nel settore meridionale del Campo Marzio siamo ampiamente documentati dalle fonti letterarie, le quali ricordano il restauro delle opere architettoniche esistenti e la costruzione di nuovi complessi monumentali. Va comunque rilevato che, durante il principato di Augusto (30 a.C. -14.C.), al di là dei programmi pianificati per la pianura tiberina,ci furono delle calamità naturali: si ricordano, di fatto, otto inondazioni del Tevere e nove incendi, nel periodo compreso tra il 31 a.C. e il 15 d.C., che resero necessario il finanziamento per vaste operazioni di restauro.

Nella programmazione topografica e urbanistica di quest’area si ritrovano i temi più diffusi della politica urbanistica augustea, le architetture per lo spettacolo: precisamente, nell’arco cronologico compreso tra il 29 a.C. e l’11 d.C., furono costruiti l’Anfiteatro di Statilio Tauro, il Teatro di Marcello e il Teatro di Balbo, monumenti con una forte incidenza sull’opinione delle masse cittadine, essendo promotori di vita sociale e urbana più controllabile in queste strutture accentrate.

Esempio grandioso di architettura romana per la perfezione delle forme e l’armonica composizione degli spazi, il Teatro di Marcello campeggia tra le moderne costruzioni dell’attuale situazione urbana circondata da un’area archeologica dove si possono osservare, in deposito sul prato, pregevoli gruppi lapidei che rievocano i fasti dell’epoca: sono resti di fregi che, a dispetto delle mutilazioni e dell’estraneità al contesto in cui sono collocati e dell’impossibilità a ricollocarli nella giusta posizione, si ammirano egualmente nella loro antica bellezza.

Dei tre teatri stabili del Campo Marzio meridionale, il Teatro di Marcello è il meglio conservato e l’unico ancora leggibile nella sua unità; innalzato su una grande platea di calcestruzzo sotto la quale una palificata di rovere comprimeva il terreno argilloso, fu costruito su tre ordini architettonici: dorico, ionico e corinzio.

Costituito da ambulacri semicircolari ai quali accedeva il pubblico attraverso gli ingressi, fu concepito come edificio a sé stante e realizzato secondo i dettami vitruviani con una cavea semicircolare divisa in settori, orchestra semicircolare, portico in alto a chiudere la cavea, la scena con le tre porte e fondali o trigoni. Si è calcolata una capienza di circa quattordicimila spettatori, un diametro di circa m. 150 e un’altezza probabile di m. 32.

La facciata esterna della cavea, realizzata in travertino, conserva parte del primo ordine dorico, con un ambulacro coperto da una volta a botte anulare, e parte del secondo ordine ionico con un ambulacro coperto da una serie di volte radiali.

Del terzo ordine non rimane nulla e incerta è la sua ricostruzione anche se, per il Fidenzoni, l’edificio teatrale doveva terminare con un attico chiuso decorato da paraste corinzie delle quali si sono ritrovate alcune parti. La scena era fiancheggiata da due sale, riconoscibili sulla planimetria Severiana: di quella disposta ad est sono ancora visibili un pilastro e una colonna.

Il deambulatorio interno e i muri radiali del teatro sono in opera quadrata di tufo per i primi dieci metri, mentre nella parte più interna fino all’unghia della cavea i muri radiali sono in opera cementizia con un rivestimento in reticolato di tufo; le parti interne degli ambulacri sono in laterizio e le volte sono realizzate in opera cementizia. Nel vano terminale del corridoio radiale di centro, l’intradosso della volta conserva ancora parte della decorazione figurata con stucchi bianchi ripartiti in tondi e ottagoni, inquadrabili cronologicamente all’età antonina; questa decorazione ha fatto pensare che potesse trattarsi o di un sacello dedicato ad una divinità fluviale o infera, oppure di un sacrario dedicato agli Dei Mani di Marcello.

Gli unici elementi decorativi della facciata erano delle maschere teatrali scolpite a tutto tondo  di enormi dimensioni, in marmo bianco prevalentemente lunense, recuperate in frammenti durante gli scavi degli anni Trenta. Esse riproducono in proporzioni molto maggiori del vero le maschere che gli attori indossavano durante le rappresentazioni sceniche, caratterizzate da tratti fortemente accentuati ed espressivi oltre che da una bocca smisurata che è il tratto più notevole della fisionomia della maschera antica.

Originariamente fissate alla chiave d’arco del primo e del secondo ordine dei fornici, mediante perni di ferro alcuni dei quali ancora in situ, dovevano essere ottantadue. L’esame e la ricomposizione dei frammenti consentono il riconoscimento di tre tipi scenici:

tragico, satiresco e comico; alcune di queste bellissime maschere monumentali dopo il restauro sono state collocate in esposizione permanente presso il secondo piano del Teatro Argentina, dove continuano a svolgere la loro funzione metaforica e decorativa, ma soprattutto ad affascinare.

Il significato simbolico e magico che la maschera comporta, allo stesso tempo agli occhi di chi l’indossa e di coloro che è destinata a impressionare, ne fa un oggetto essenzialmente adatto a tradurre (ma all’inizio a provocare) il sentimento di malessere e di commozione che risulta dalla manifestazione del soprannaturale e dall’ambiguità inerente a queste manifestazioni, tenuto conto che per gli Antichi il soprannaturale non è estraneo ed esteriore alla natura, ma la penetra intimamente” (Henri Jeanmaire).

La documentazione archeologica, i frammenti della Pianta Marmorea Severiana e alcuni disegni rinascimentali contribuiscono a ricostruire la pianta del Teatro di Marcello della quale vi sono due diverse ipotesi limitatamente al post scaenam: la maggior parte degli studiosi, sulla base di un frammento della planimetria Severiana ritiene che lo spazio posteriore alla scena fosse delimitato da un grande muro a esedra che proteggeva il retroscena dalle frequenti inondazioni del Tevere. Diversa  la ricostruzione planimetrica proposta dal Fidenzoni, per il quale il retroscena era chiuso a sud da un semplice muro.

Il Teatro di Marcello presenta una struttura chiara nella parte utilizzata fin dal X/XI secolo come fondamenta della roccaforte delle famiglie che si avvicendarono al dominio della zona circostante.

Secoli di abbandono sono quelli dell’età medievale: intorno all’anno 1000 la famiglia dei Pierleoni stabilì la propria dimora-castello sulle rovine del teatro e, nel XIV secolo, un esponente dei  Savelli subentrato ai Pierleoni eseguì i primi lavori di restauro che si concretizzarono, come ancora oggi si può vedere, con la trasformazione nel XVI secolo dell’antica dimora in palazzo residenziale a opera di Baldassarre Peruzzi che rispettò pienamente le strutture antiche.

Alla morte del principe Giulio Savelli, ultimo discendente della famiglia, il palazzo fu acquistato dalla famiglia Orsini che lo ampliò e restaurò. Negli anni Trenta il teatro, divenuto proprietà del Comune di Roma, che aveva acquistato dalla duchessa di Sermoneta la parte del piano terreno adibita a carbonaie e magazzini, fu liberato dalle costruzioni adiacenti e ne furono messe in luce le antiche strutture degli ambulacri, consentendo una buona lettura dell’edificio.

Contestualmente furono eseguiti il restauro ed il consolidamento delle strutture, risarcendo le murature antiche per lo più con lo stesso paramento in sottosquadro.

Le parti di stucco cadute furono ricollocate sulle volte, si ripristinarono i gradini dove erano conservate le impronte e le ricostruzioni di strutture di una certa mole con funzione portante furono eseguite in mattoni.

La Commissione Storia ed Arte Antica responsabile dei lavori di restauro e consolidamento del Teatro di Marcello aveva autorizzato la costruzione di tutte le murature necessarie, come le pareti, i pilastri e i sottarchi,approvando anche la realizzazione degli speroni, indispensabili per dare solidità al complesso del monumento e del Palazzo Orsini, ma il problema si pose per il grande contrafforte occidentale del teatro, composto di archi e pilastri e sul quale i componenti della Commissione di Storia ed Arte Antica erano in disaccordo. Fu approvato comunque il progetto dell’ingegnere Giovenale di utilizzare la pietra sperone di Montecompatri che rispondeva alle esigenze fondamentali  di stabilità più che al senso estetico, in quanto si utilizzava una pietra di colore scuro con sfumature giallo-verdastre del tutto estranea ai numerosi materiali utilizzati nel teatro e nei monumenti adiacenti.

 01 Teatro di Marcello Maschera decorativa 01 Teatro di Marcello