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Boicottare può essere più efficace di alzare i dazi

Boicottare i prodotti statunitensi – e non genericamente “americani” – è una scelta consapevole e mirata, capace di tradurre piccoli gesti quotidiani in una forma efficace di pressione contro una governance aggressiva e regressiva. Così come il boicottaggio contro le aziende inquinanti o che praticano la sperimentazione sugli animali ha indotto cambiamenti reali nel mondo farmaceutico e cosmetico, anche evitare prodotti USA può mandare un messaggio chiaro: il portafoglio è il vero punto debole del potere.

I consumatori non sono più spettatori passivi. In un’epoca di iper-consumo e sovrabbondanza, scegliere consapevolmente cosa acquistare – o decidere di non acquistare – è diventato un atto politico. La Coca-Cola può tranquillamente lasciare il posto al più autentico Chinotto. Gli hamburger, nati in Germania, si reinventano nella nostra piadina. Le Harley-Davidson trovano valide alternative nelle Triumph, come fece già Marlon Brando ne Il selvaggio (1953), salendo in sella a una Triumph Thunderbird 6T. Lo spirito britannico non ha mai smesso di affascinare le leggende del cinema, anche se fu la Harley-Davidson Chopper, in Easy Rider (1969), a diventare il simbolo per eccellenza della libertà.

Lo Scotch può rimpiazzare il bourbon, la birra europea ha poco da invidiare a quella americana, e i dolci casalinghi superano browning e cookie. Perfino la musica può fermarsi gloriosamente agli anni ’80-’90. Quanto ai fumetti, Linus ci ha già regalato il meglio dagli anni ’70.

Il vero scoglio? Amazon. La comodità di Prime è difficile da abbandonare, ma le alternative esistono e stanno crescendo. Anche nel cinema, l’eredità culturale trasmessa dal dopoguerra a oggi è così vasta da non rendere necessario il continuo apporto USA.

Un Boicottaggio che Parla alla Democrazia

Non si tratta solo di prodotti, ma di una linea politica che va respinta. Le recenti politiche dell’amministrazione Trump – come la proposta di smantellamento del Dipartimento dell’Educazione, la sospensione di Voice of America, il blocco dell’accesso alla biblioteca transfrontaliera Haskell, la vendita della cittadinanza statunitense – non sono episodi isolati. Sono tasselli di un disegno autoritario che colpisce cultura, istruzione e libertà d’informazione.

Trump affida la politica economica a Peter Navarro, economista noto anche per citarsi attraverso un curioso alter ego: “Ron Vara”, un nome fittizio ottenuto anagrammando il proprio cognome. Presentato spesso come un autorevole collega, questo personaggio immaginario diventa uno strumento utile a legittimare le sue stesse teorie.

I dazi, promossi come strumenti di difesa dell’economia nazionale, finiscono per destabilizzare interi mercati. Le Borse reagiscono con volatilità, l’economia globale si irrigidisce, mentre le élite vicine al potere continuano ad arricchirsi. Strategie economiche che si affidano persino a figure inventate, come il fantomatico Ron Vara, rivelano un uso tanto ingegnoso quanto rischioso della propaganda e della manipolazione finanziaria.

L’app Trumptax.eu, sviluppata da Alleanza Verdi e Sinistra, consente ai cittadini europei di distinguere i prodotti realmente statunitensi da quelli solo apparentemente “locali” ma prodotti da multinazionali USA. La delocalizzazione, infatti, consente a molti brand americani di mascherarsi dietro etichette italiane o europee. Boicottarli senza consapevolezza può persino danneggiare l’economia nazionale.

Solidarietà e Protezione: Il Ruolo dell’Europa

In Francia e nei Paesi nordici è già in atto un boicottaggio di massa contro Coca-Cola, McDonald’s, junk food e tecnologia made in USA. In Italia, invece, si fa ancora fatica a parlare apertamente di questi temi senza essere tacciati di anti-americanismo. Eppure la solidarietà verso le istituzioni culturali ed educative, oggi sotto tagli e minacce, passa anche dal rifiuto del modello economico statunitense, spesso impacchettato come inevitabile.

I fondi del PNRR non possono essere usati per supportare aziende soggette a dazi USA o per acquistare armamenti: una scelta che va rispettata e rafforzata, promuovendo invece un’economia europea più autonoma, solidale e sostenibile.

Conclusione: Boicottaggi 2.0

In un mondo iperconnesso, il boicottaggio non è più un atto solitario ma condiviso, intelligente, tecnologico. Dalle app che svelano l’origine dei prodotti, ai social network che amplificano la portata di ogni scelta, il consumatore del nuovo millennio può diventare protagonista del cambiamento. La democrazia si protegge anche attraverso il carrello della spesa.

Boicottare oggi non è solo rifiutare un prodotto, ma affermare un’idea: un’economia giusta, un’informazione libera, una cultura accessibile. In fondo, anche con una piadina al posto di un Big Mac, si può difendere il diritto di scegliere il proprio futuro.

Confini

Approfitto dell’uscita di un libro allegato al quotidiano di Trieste Il Piccolo, Il confine orientale, di Alessio Anceschi, per parlare di confini. Se ne è discusso anche in un recente convegno (1), l’argomento è attuale, visto che con la guerra in Ucraina per ora è andato a pezzi il principio – ribadito nel dopoguerra – dell’inviolabilità dei confini di stato. Confini ormai indeboliti dalla globalizzazione e dalle migrazioni, ma  ora ridiscussi sul terreno della guerra in Ucraina. I confini in realtà non sono mai totalmente impermeabili e si spostano continuamente, e sono in fondo una creazione dello stato moderno: in passato le frontiere tra un impero e l’altro non erano segnate né sempre controllate, lasciando ampie zone senza stato, percorse dalle vie carovaniere e abitate da allevatori nomadi. Il Limes romano era sì presidiato e pattugliato, ma in modo diverso dalla Cortina di Ferro. Ma ancora nelle carte geografiche stampate nel ‘700 i confini fra gli stati erano tracciati all’acquerello al momento della messa in commercio delle mappe, vista la frequenza con cui le varie guerre dinastiche li cambiavano. E si è visto che anche i confini nazionali più ragionevoli – come quelli dell’Italia, cinta per natura dalle Alpi e dal mare – non escludono sconfinamenti, minoranze, ibridazioni e annose rivendicazioni politiche. Figurarsi poi se parliamo delle ampie distese di pianura dove non sono le montagne ma piuttosto i grandi fiumi a indicare una linea di frontiera fra un popolo e l’altro, mai favorendo la stabilizzazione di entità statuali permanenti. Si guardi l’estesa landa che va dalla Germania fino alla Russia, o quella altrettanto ampia che traversa i bacini dal Baltico al Mar Nero: parlare di confini stabili non ha senso e infatti essi sono cambiati con le guerre. I Sovietici dopo la seconda Guerra mondiale si vantavano di aver regalato ai polacchi un pezzo di Germania, ma senza dire che a Est si erano annessi un pezzo di Polonia. Oppure al contrario i Balcani: lì ogni tentativo di separare le varie etnie e fissare confini finisce nella guerra civile e nell’espulsione dei diversi. E qui è opportuno ricordare la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che portò agli Accordi di Helsinki nel 1975 (2). Il riconoscimento dell’inviolabilità dei confini nazionali e il rispetto dell’integrità territoriale furono sottoscritti dall’Unione Sovietica, ferma sulle sue acquisizioni territoriali nell’Europa orientale dopo la fine della seconda GM.  Tuttavia l’atto finale ammetteva la possibilità di cambiamenti pacifici dei confini, non dando per scontata – su pressione USA e NATO – l’inclusione forzata di Lituania, Lettonia ed Estonia all’interno dell’URSS. D’altro canto il principio dell’autodeterminazione dei popoli lasciava in sospeso due punti che in futuro avrebbero procurato solo danni: i confini interni fra gli stati e il rispetto delle minoranze. Nelle entità statuali che si sono sfasciate dopo la Guerra Fredda – Jugoslavia, URSS – i confini amministrativi fra le province sono stati artificiosamente trasformati in confini di stato e le minoranze sono state oppresse come in Occidente negli anni 20 e 30, causando migliaia di morti e situazioni ancora critiche, Sicuramente in questo momento si sente il bisogno di un’altra Conferenza di Helsinki e chissà se ci arriveremo. Nel frattempo si spera che dopo tre anni il conflitto fra Russia e Ucraina si fermi.


  1. Il NordEst 11 marzo 2025, “Ritorno dei confini e fine del multilateralismo nell’anteprima del Treviso Città Impresa”
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Accordi_di_Helsinki

Europa armata di buon senso

Negli ultimi decenni, l’Europa si è trovata spesso a rincorrere gli eventi, senza una strategia chiara e univoca per affrontare le sfide globali. La soluzione non può essere una corsa individualistica agli armamenti, con ogni Stato che si muove in ordine sparso come una sorta di Armata Brancaleone. Al contrario, è fondamentale creare un’unica regia, un coordinamento efficace che consenta all’Unione Europea di agire con prontezza e lungimiranza.

Per troppi anni, i Paesi europei hanno evitato una reale integrazione della politica di difesa per paura di perdere prestigio e sovranità nazionale. Questo ha portato a un continuo inseguire le crisi, spesso spendendo in modo inefficace e frammentario. La mancanza di una visione comune ha indebolito la capacità dell’Europa di rispondere in modo deciso e autonomo alle sfide geopolitiche, relegandola a un ruolo di secondo piano rispetto ad altre potenze globali.

Non è la mancanza di risorse o competenze tecnologiche a frenare l’Europa: il continente vanta eccellenze industriali e scientifiche nel settore della difesa e della sicurezza. Ciò che manca è un utilizzo sinergico di queste capacità. Una vera strategia comune, fondata su un’industria della difesa europea integrata e su un comando centralizzato, permetterebbe di ottimizzare gli investimenti, sviluppare tecnologie avanzate e ridurre la dipendenza da attori esterni.

Una difesa efficace non si misura solo in armamenti, ma anche nella capacità di prevenire i conflitti attraverso la diplomazia e la stabilità economica e finanziaria. L’Europa deve essere un attore globale capace di garantire sicurezza non solo con la forza, ma anche con la promozione dei diritti, della cooperazione e dello sviluppo sostenibile.

Non si tratta di militarizzare l’Unione Europea, ma di renderla capace di proteggersi senza dover dipendere esclusivamente da alleanze esterne. Un’Europa unita nella difesa, nella strategia economica e nella politica estera può diventare un modello di sicurezza intelligente, capace di affrontare il futuro con decisione e coerenza. La sfida è abbandonare le logiche nazionalistiche del passato e costruire una visione comune che permetta di rispondere alle minacce con coordinazione, efficienza e, soprattutto, buon senso.

Quando in Libia entravamo come clandestini

Nelle mie ricerche di archivio nell’Ufficio Storico della Marina ho trovato alcuni documenti che riguardano le sorti della comunità italiana in Libia nel 1946 (1). In Libia era presente almeno lungo la costa una significativa comunità italiana formata soprattutto da agricoltori, artigiani, operai, pescatori e piccoli commercianti, più i militari e i funzionari dell’amministrazione coloniale. Erano circa 120.000, concentrati soprattutto intorno a Tripoli e Bengasi. Mussolini incoraggiò la creazione di grandi aziende agricole affidate a coloni veneti e meridionali e Balbo avrebbe voluto portare la colonia italiana – già il 13% della popolazione libica – a 500.000 unità, e forse ci sarebbe anche riuscito se non fosse finita come sappiamo: lui abbattuto dal fuoco amico (?), la Libia persa con la guerra. Gli Inglesi in un primo tempo lasciarono la situazione come era, visto che solo i coloni italiani potevano far funzionare quelle aziende agricole, ma gli sfollamenti di guerra e l’ostilità dei locali spinse molti a tornare in Italia. Così un altro rapporto riservato descrive la situazione a Roma (2) :

“La posizione dei profughi italiani d’Africa (ex colonie, Etiopia, Tunisia) è accuratamente seguita dal P.C.I.  – E’ da tener presente che questi profughi, malgrado la loro indigenza e la loro classe sociale (si tratta in genere di contadini, operai e piccoli artigiani, accolti nei campi profughi di Cinecittà a Roma e altrove nel Mezzogiorno) non sono in genere favorevoli alle ideologie dei partiti di sinistra, per l’atteggiamento anticolonialista di questi movimenti. Inoltre sono ancora troppo radicati in questi ex-coloni d’Africa i benefici ricevuti durante l’ex-regime fascista e il passato ricordo del prestigio degli italiani in Africa”.

Il documento prosegue descrivendo l’infiltrazione degli attivisti del P.C.I. tra quelli che, pur definiti “fascisti” e “colonialisti”, potevano comunque convertirsi alla causa. Nel documento si fa anche cenno al tentativo di togliere all’ex-Ministero delle Colonie l’assistenza ai profughi d’Africa per trasferirla al Ministero dell’Assistenza Post-bellica, diretto dal comunista Sereni, “onde eliminare dalla scena sociale una massa di individui, fatalmente portati a giustificare il colonialismo (o “imperialismo”) e a sostenere il ritorno italiano in Africa”. Analisi fredda ma storicamente corretta.

Ma molti italiani cercavano invece di ritornare in Libia per ricongiungersi con la loro comunità e tornare al lavoro nelle piccole industrie e nelle aziende agricole, che il rapporto definisce produttive:

“Alcune industrie si sono avvantaggiate della interruzione delle importazioni dato che, per compensare sul mercato la mancanza di merce di produzione italiana, lavorano a pieno ritmo. Nelle campagne, i cui raccolti delle ultime tre annate sono stati buoni, i coloni proseguono il loro lavoro malgrado la crisi dei prezzi dovuta a sovra produzione”.

Quello che oggi suona paradossale è l’ingresso clandestino dei nostri coloni:

“L’immigrazione degli italiani è un argomento che sta particolarmente a cuore alla nostra comunità, giacché molti sperano di riavere famigliari e parenti a suo tempo rimpatriati. L’ostilità degli arabi verso questi ritorni è alimentata dai partiti di ispirazione straniera, e3 specie dal Fronte di Unità Nazionale. L’Amministrazione ha largamente immesso nei reparti di polizia guardacoste personale arabo per controllare l’immigrazione clandestina. Secondo voci correnti, gli italiani che approdano clandestinamente, se sorpresi da arabi vengono anche derubati e malmenati. Il periodo di punta degli sbarchi clandestini in Tripolitania fu lo scorso agosto: in tal mese si calcola che siano entrati centinaia di italiani. Si ebbero proteste dei capi di partito arabi, ma non ci furono manifestazioni di ostilità da parte dell’opinione pubblica. Fino ad oggi gli immigrati clandestini sono stati circa 2.200, dei quali circa 300 rinviati in Italia. Le autorità hanno però dichiarato che in avvenire tutti quelli che tenteranno illegalmente lo sbarco saranno respinti”.

Situazione delicata: nel Trattato di Pace del 1947 l’Italia dovette lasciare libere dalla sua occupazione coloniale tutte le sue colonie, ma nel 1946 era stato un vano tentativo di mantenere la Tripolitania come colonia italiana assegnando la Cirenaica alla Gran Bretagna ed il Fezzan alla Francia; fino al 1951 la Gran Bretagna amministrò Tripolitania e Cirenaica, e la Francia il Fezzan, in gestione fiduciaria delle Nazioni Unite, mentre la Striscia di Aozou (ottenuta da Mussolini nel 1935) venne riconsegnata alla colonia francese del Ciad. Il finale della storia lo scrisse Gheddafi nel 1969, spodestando il vecchio re Idris, messo su nel 1951 dagli inglesi per via del petrolio, e fondando un regime durato fino al 2011. La colonia italiana – ormai circa 35.000 persone – fu cacciata nel 1970 e i loro beni confiscati.

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Note

  1. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, Notizie sulla situazione in Tripolitania, copia del promemoria C3/H n. 230 del 14 novembre 1946.
  2. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, La posizione dei profughi italiani d’Africa e il P.C.I., copia del promemoria C3/H n. 236 del 13 dicembre 1946.

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GUERRA… fino a quando?

Opera di Daniela Passi per la mostra “Bandiera per la Pace”

iamo a giugno e due guerre in corso sono tuttora senza una soluzione a breve termine. Parliamo ovviamente del conflitto in Ucraina e quello a Gaza. Il primo ormai dura da oltre due anni, l’altro “solo” da otto mesi. Si tratta di guerre diverse una dall’altra e diversamente sentite. Geograficamente è più vicina a noi quella che si combatte in Ucraina, ma stranamente la mobilitazione giovanile si concentra piuttosto sulla striscia di Gaza. Eppure se un giorno dovremo andare al fronte, non sarà certo al valico di Rafah. Era dalla Guerra Fredda che non si parlava più di deterrenza, riarmo, ripristino della leva, costose esercitazioni militari in grande scala. La NATO se non fosse stato per l’azzardo di Putin aveva da tempo perso la sua funzione originaria, che era appunto difendere l’Europa da un’invasione sovietica. Europa ambigua come al solito: tutti vogliono aiutare l’Ucraina, ma lo fanno in ordine sparso, senza un vero coordinamento. Forse l’immagine simbolica dell’Europa è proprio Nemo, il cantante che ha vinto l’Eurofestival, metafora del mutante in bilico. Questo mentre a Karkiv (Karchov per i russi) si combatte come nella seconda G.M. (storicamente sarebbe la quarta battaglia) e quasi con le stesse tattiche: droni e missili a parte, i russi hanno solo da poco scoperto l’infiltrazione e continuano a combattere come nelle due guerre mondiali, mandando avanti carri e fanteria su tutto il fronte dopo aver sparato migliaia di colpi di artiglieria. Difficile capire fin dove possono arrivare, i progressi sul campo sono molto lenti e probabilmente cercano di saldare i vuoti nello sparso schieramento tra il Donbass e Odessa. Come ho già scritto, in una guerra di logoramento conta più la capacità di rifornire il fronte di uomini e mezzi rispetto all’arte della guerra vera e propria, dove i russi hanno dimostrato di avere scarso coordinamento fra le armi e una scuola di guerra antiquata. Ma hanno dalla loro parte risorse demografiche e industriali quasi infinite e questo alla lunga conta. Le varie iniziative di alcuni stati europei di reintrodurre il servizio di leva o di potenziare la produzione di armamenti richiedono tempo e risorse. In più, c’è una generazione per motivi storici totalmente estranea all’idea stessa di guerra in casa, e se gli ucraini stessi faticano a convincere i loro giovani ad andare al fronte, figurarsi gli altri. Nel frattempo anche a Gaza si continua a morire e ci si chiede che fine abbia fatto l’ONU.

Resta inoltre un problema di non poco momento: come analizzare i dati di una guerra. E’ chiaro che ogni parte tira l’acqua al proprio mulino, la propaganda e la disinformazione sono sempre esistite e adesso sono amplificate dai social e dai nuovi mass media. In genere io capisco se la fonte è russa o ucraina dalla grafia con cui sono scritti i nomi delle città e dei villaggi e seguo in genere più fonti insieme cercando di avere anche mappe aggiornate del terreno di scontro, ma foto e documenti vanno sempre vagliati con attenzione. Molti giornalisti vengono cacciati o perseguitati, quindi è difficile avere un quadro realistico del fronte, sia quello ucraino che quello palestinese. L’importante è controllare le fonti e non credere mai troppo neanche alle foto o ai brevi video (commentati sempre con musica rock, ndr.): ormai con l’IA è possibile anche creare dei falsi perfetti. Il vecchio metodo della storiografia – raccogliere documenti originali e analizzarli – si deve aggiornare ai tempi nuovi. E propone nuove sfide agli analisti.