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Russia 2.0

Stavo consultando una tesi di dottorato: Pluralismo tra democrazia e autoritarismo: il caso russo, di Laura Petrone. Liberamente scaricabile dalla rete (1), risale al 2010 ma resta attuale per capire quello che in questi giorni di guerra ci chiediamo tutti: come mai la Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica non si è evoluta come tutti avremmo sperato, cioè sviluppando istituzioni democratiche che non fossero formali ma garantissero uno sviluppo ideologico ed economico adeguato alla modernità? Lo scrivo in un momento in cui ci chiediamo, esterrefatti e inorriditi, come mai c’è ancora in Europa chi è convinto che obiettivi politici di egemonia non possano essere conquistati con pressioni politiche, diplomatiche e strategie economiche piuttosto che con la guerra, visto che nei conflitti moderni il costo è maggiore dei risultati e che pratiche forse normali nelle guerre antiche sono ormai inaccettabili?
Sicuramente c’è stata da parte del “pensiero occidentale” la convinzione che i regimi totalitari prima o poi crollino per evolversi verso una democrazia, con traiettorie abbastanza ordinate e prevedibili verso regimi democratici nati da elezioni libere e regolari. Determinismo peraltro simmetrico del pensiero totalitario, che ritiene la democrazia un disordinato contrattempo prima dell’affermazione di una struttura di potere non condizionata dall’equilibrio obbligato dalle dinamiche sociali ed elettorali. E qui mi andrei a rileggere Miseria dello storicismo di Karl Popper: l’evoluzione politica non segue mai strade obbligate: “nessuna società può predire scientificamente il proprio futuro livello di conoscenza”.
Ma torniamo alla Russia. In sostanza, ai tempi dell’Unione Sovietica, Stato e Partito (PCUS) facevano tutt’uno e Michail Gorbačëv (amato più da noi che dai Russi) cercò a suo tempo di riformarne le strutture, dando più importanza a quelle economiche che a quelle democratiche, indebolendo di fatto lo Stato. Lo scioglimento del PCUS imposto nel 1991 da Boris Eltsin spezzò questo binomio, col risultato di far indebolire le strutture statali a vantaggio di una classe di capitalisti che nelle privatizzazioni dei grandi enti di Stato trovarono la miniera d’oro, creando in un paese socialista una distopica sperequazione di ricchezza fra oligarchi e gente comune, resa possibile dall’indebolimento delle strutture statali e da connivenze criminali, fino all’ascesa di Vladimir Putin, il quale ha perseguito un fine solo: la restaurazione dello Stato come supremo organizzatore della vita civile, dell’economia e della politica. In sostanza è comunque lo Stato il garante che permette lo sviluppo di un regime democratico, e non per niente le democrazie occidentali si sono sviluppate quando lo Stato moderno ha definito e consolidato le sue funzioni (economiche, fiscali, militari, assistenziali, etc.) e dalla lotta politica si è creato un equilibrio fra i soggetti sociali rappresentati in un Parlamento. Non per niente i paesi ex-socialisti che hanno saputo creare una democrazia parlamentare (Polonia, Ungheria, i Paesi Baltici, Cechia) si basavano su esperienze storiche consolidate, mentre la Russia e le repubbliche sovietiche asiatiche (Kazakistan, Tagikistan) ne mancavano totalmente. Ma in Russia, dopo la debolezza dell’esecutivo a fronte dei poteri costituzionali e l’intreccio tra la sfera pubblica e la sfera privata tipica del tempo di Eltsin, Putin si è posto come priorità la ricostruzione dello Stato, dando più potere al centro attraverso una serie di riforme federali, riallineando con le buone o le cattive maniere gli oligarchi alla politica presidenziale, e di fatto burocratizzando l’élite politica. Il livello di obbedienza all’interno dell’apparato statale è tuttora alto, in più c’è l’ autosufficienza economica e finanziaria, ovvero il controllo statale sui proventi garantiti dalla vendita di risorse naturali come il petrolio e il gas, come ben sappiamo. Burocrazia qui va intesa in senso lato, come logica dell’organizzazione politica su larga scala. Questo recupero della centralità dello Stato non ha però incoraggiato né lo sviluppo di quelli che chiamiamo corpi intermedi (classe media, partiti politici rappresentativi) né il pluralismo. E’ un regime che di fatto unisce caratteristiche sia democratiche che autoritarie e propone un proprio modello di sviluppo politico-istituzionale alternativo a quello delle democrazie liberali. Al suo interno i valori democratici non costituiscono una priorità, in quanto subordinati all’imperativo di uno Stato forte e centralizzato. In questa logica si collocano provvedimenti quali la limitazione dell’autonomia dei poteri regionali, l’eliminazione dei governatori eletti dal Consiglio Federale, l’allontanamento dalla politica dei partiti non legati al Cremlino e alcuni interventi tesi a preordinare e regolamentare i confini della c.d. “società civile” attraverso un controllo delle principali fonti della contestazione politica. Anziché imporre un unico sistema filosofico-spirituale alla società nel suo insieme, lo Stato mette a disposizione un ventaglio di orientamenti accettabili, tra i quali la popolazione è libera di scegliere. Nella prassi si nota però il ricorso a forme di controllo autoritario non coercitivo, che vanno dalla frode elettorale all’intimidazione (o peggio) e cooptazione dei principali avversari politici come base del consenso sociale e del proprio potere. Diversamente dalle forme classiche di autoritarismo, l’apparato ideologico è scarno, lo vediamo in questi giorni, basato su un forte richiamo all’identità nazionale e sulla mancanza di alternative credibili, alle quali però non è stata data ancora occasione di crescere.
In questa prospettiva, il quesito più urgente non è perché la Russia non è democratica e cosa debba fare per esserlo, ma un altro: in quanto autocrazia, può essa affrontare le sfide dello sviluppo economico e della modernizzazione? Può vincere una guerra più lunga del previsto senza sfaldare la base del consenso popolare, per non parlare dell’economia, visto che il PIL russo è inferiore a quello italiano?

Note

  1. file:///C:/Users/Utente/Documents/Documenti%20scaricati/Geopolitica/Petrone_Laura_Tesi_dottorato(1).pdf .
    Bologna, Facoltà di scienze politiche, 2010.

L’Europa in cerca di una nuova anima

La nuova Cortina di Ferro all’interno dell’Unione europea vede ampliarsi il Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) con lo spostamento a destra dell’Austria e che farà muro contro l’impennata d’orgoglio dell’Ue nell’attivazione delle procedure previste dall´Articolo 7 dei Trattati, quando si riscontrano delle violazioni gravi di uno Stato membro, la Polonia, dei valori fondamentali dell’Unione.

La Polonia rischia sanzioni che prevedono la riduzione degli aiuti e la sospensione dei diritti di voto, per aver approvato una riforma che mina l’indipendenza della giustizia polacca, mettendo in pericolo lo Stato di diritto.

Il vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, Frans Timmermans, ha affermato che la Polonia ha adottato, in questi ultimi anni, 13 leggi capaci di mettere in pericolo i valori fondamentali per uno stato democratico.

L’Europa solo ora si accorge di quanto la Democrazia sia in pericolo in Polonia, dopo aver lasciato da sole tutte quelle migliaia di persone che hanno manifestato per settimane contro il progetto legislativo per ingabbiare la Giustizia.

Per sospendere la Polonia dal diritto di voto in Consiglio, prevista dall’articolo 7 del Trattato, serve l’unanimità degli Stati membri che si prevede difficilmente raggiungibile, vista l’opposizione scontata dell’Ungheria di Viktor Orbán e degli altri del Gruppo di Visegrá.

Il Consiglio d’Europa potrebbe sospenderli tutti, dopo aver riscontrato non solo una deriva autoritaria nei singoli paesi, ma anche per la loro avversità a conformarsi alle scelte sulla ripartizione della ricollocazione dei richiedenti asilo all’interno della Ue.

Anche in occasione della risoluzione di condanna del riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale d’Israele, messa in votazione all’assemblea generale Onu, lo schieramento dei paesi dell’est europeo (Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania), si è differenziato dal resto della Ue, scegliendo di astenersi e non esprimere un voto contrario.

L’Europa, in occasione del caso Polonia, si sta muovendo non più per procedure di infrazione di ordine economico, ma per i valori fondanti dell’UE, e ciò potrebbe essere l’occasione di rifondare Unione sui principi originari e non solo sugli interessi economii.

Per l’Europa, ritrovare l’Anima del Manifesto di Ventotene, è un’opportunità per riscattarsi dai tanti anni di arido tecnocratismo e trovare un’unità nei valori etici piuttosto che sulla convenienza.

Una convenienza che i paesi di Visegrá sembrano aver ben messo a frutto e ora, dopo aver preso tutto il possibile dalla Ue, si apprestano rendere difficile la convivenza tra gli stati membri.

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Qualcosa di più:
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Migrazione | Conflitti e insicurezza alimentare
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Macron: la Libia e un’Europa in salsa bearnaise
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Europa: i nemici dell’Unione
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Tutti gli errori dell’Unione Europea
Un’altra primavera in Europa

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Catalogna, appunti per un nuovo (dis)ordine mondiale

Fatidico Ottobre 2017: cent’anni dopo la Rivoluzione Russa, a Barcellona si profila la Rivoluzione Catalana. Un nuovo modello rivoluzionario, non fondato sulle ideologie politiche conosciute nel XX secolo, ma su un nuovo nazionalismo che si potrebbe chiamare anti-sistema: avverso al sistema degli Stati nazionali che, definiti nella loro forma attuale generalmente nell’800, dopo le due grandi guerre mondiali hanno dato luogo agli organismi internazionali incentrati nell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Col voto del 27 ottobre 2017 il Parlamento catalano, una volta usciti per protesta tutti i partiti di opposizione (Ciudadanos, Partito Socialista di Catalogna e Partito Popolare) tranne Podemos, ha stabilito: “Oggi la Catalogna restaura la sua piena sovranità”. L’affermazione è priva di senso: la Catalogna non ha mai avuto sovranità — infatti prima della costituzione dello stato unitario spagnolo faceva parte della contea, poi regno di Aragona — quindi semmai il proclama avrebbe dovuto dire non “restaurare”, ma “conquistare” la sovranità. Comunque, sono stati settanta coloro che hanno detto “Sì” a tale risoluzione, tramite voto segreto: i membri del gruppo parlamentare Junta pel Sí e di Candidatura de Unidad Popular (CUP)-Llamada Costituyente. Il primo è erede del partito principe del movimento indipendentista catalano, Convergencia i Unió (CiU) del famigerato Jordi Pujol (che primeggia tra i grandi esportatori illegali di capitale dal territorio ispanico nonché tra i bustarellari taglieggiatori delle attività pubbliche) e di Esquerra Republicana de Catalunya (partito che ebbe tra i suoi leader storici Josep Tarradellas, fautore della rinascita della Generalitat catalana dopo la guerra civile spagnola, e Luis Companys, leader di Esquerra all’epoca della guerra civile, vittima del franchismo). Esquerra Republicana per tradizione era catalanista ma non necessariamente indipendentista: lo è divenuta in questi ultimi anni, in particolare sotto l’impulso del suo dirigente attuale, Oriol Junqueras, anche per via degli accordi da questi stabiliti col successore di Pujol al fronte di CiU, Artur Mas.

Dunque settanta parlamentari su un totale di 135 rappresentati nel Parlamento catalano, dei quali solo 92 hanno partecipato al voto. Una maggioranza non certo schiacciante, che tuttavia s’è arrogata il diritto di prendere una decisione di rilevanza tale da scuotere tutto il sistema politico istituzionale spagnolo.

Parlamento catalano, 27 ottobre 2017, i banchi dell’opposizione sono vuoti, dopo l’uscita dei parlamentari contrari alla dichiarazione di indipendenza.

Il voto è stato segreto come misura cautelativa, volta a cercare di evitare che i singoli parlamentari possano esser assoggettati ai rigori della legge: trattandosi di voto anticostituzionale possono essere accusati dalla magistratura di sedizione e ribellione. La segretezza è stata complementata da due voti in bianco e da dieci degli undici deputati di Catalunya Sí Que Es Pot (la sezione locale di Podemos) che hanno scelto di partecipare al voto, ma mostrando che votavano “No” alla risoluzione.

Subito dopo la votazione, il Presidente del governo spagnolo, Mariano Rajoy, sulla base dell’articolo 155 della Costituzione spagnola ha dichiarato decaduto il governo catalano avocandone le funzioni e ha contestualmente indetto nuove elezioni per il 21 dicembre 2017.

Intanto nelle strade antistanti alla Generalitat si son viste persone abbracciarsi in lacrime, felici che finalmente si fosse raggiunta l’agognata libertà. Anna Gabriel, portavoce del partito CUP (ritenuto l’erede del movimento anarchico catalano) ha annunciato che nel giorno stabilito da Rajoy per le elezioni, promuoveranno una grande “paellata” nelle città catalane, in ciò evidenziando la vocazione al paradosso della situazione generatasi. La Gabriel nei suoi discorsi pubblici usa solo il femminile: non vi sono deputati, ma solo deputate. A manifestare la sua rivolta contro quanto è stata usanza dominante sinora, generalizza il genere femminile di contro alla sinora dominante generalizzazione del genere grammaticale maschile: fa parte anche questo (lei direbbe questa) della marcia per la rivolta contro l’esistente.

Va evidenziato che quella del 27 ottobre non è stata una vera a propria dichiarazione di indipendenza, ma una dichiarazione di intendere dichiarare l’indipendenza, secondo la strategia seguita da Carles Puigdemont, il presidente della Generalitat (destituito da Rajoy): dire e non dire, fare e non fare, affermare e assieme negare.

Tali eventi potrebbero portare un osservatore esterno a perdersi nei meandri di questo neo bizantinismo catalano, e a ritenere i fatti che hanno commosso la Spagna nell’ottobre 2017 una specie di evento folklorico.

La questione è complicata in realtà, e ha dimensioni e potenzialità maggiori, nell’ambito dell’attuale mondo in subbuglio.

Si consideri ad esempio l’intervento svolto da Marta Rovira, segretaria generale di Esquerra Republicana, durante il dibattito al Parlament previo alla votazione della risoluzione indipendentista: tra l’altro la Rovira ha accusato la leader del principale partito di opposizione, Ines Arrimada (Ciudadanos), di mandare la polizia a minacciare mamme con bambini che si recavano a votare il 1 ottobre nel referendum anticostituzionale per l’indipendenza catalana: affermazione singolare che rivela la condizione psicologica entro la quale si muovono gli indipendentisti. Si sentono oppressi da una Spagna nella quale ravvisano la continuazione del franchismo, come se non vi fosse in realtà una democrazia parlamentare: loro ci credono davvero.

Tale atteggiamento paranoide alimenta e giustifica la pretesa di indipendenza come ideale ambizione a un nuovo Eden. Il circuito di televisioni, radio, organi di stampa, ambiti di discussione, siti Internet entro il quale il verbo indipendentista si è andato rafforzando negli anni mentre il resto della Spagna, a partire dal governo nazionale, sembrava non veder nulla, ha generato una vera e propria cultura che si è radicata nelle coscienze.

Per questo si son viste persone piangere di gioia per le strade di Barcellona dopo la dichiarazione di indipendenza; per questo i deputati indipendentisti dopo aver votato il 27 ottobre 2017 si son messi a cantare assieme con commossa devozione, a voce spiegata, l’inno catalano, Els Segadors, col sicuro fanatismo della massa che domina l’individuo. Sono sinceramente convinti di aver compiuto un gesto storico, e si preparano a portare avanti la loro battaglia.

La cosa non finirà nell’evento folklorico. Volontà dichiarata di tutte le parti in causa è di muoversi secondo i principi democratici, ma il fatto di sentirsi oppressi da potenze ostili – la condizione di paranoia autoindotta – rende gli indipendentisti disposti al sacrificio.

Per parte loro gli indipendentisti sono spaventati dall’invadenza dello stato spagnolo che sulla base della Costituzione del 1978 si muove per far rispettare la legge. Mentre invece gli spagnoli si sentono minacciati dall’indipendentismo e dal modo in cui questo si è mosso, imponendo il volere di una minoranza, per quanto cospicua, sulla maggioranza dei cittadini catalani (in virtù del sistema elettorale i partiti che formano la coalizione che ha governato la Generalitat sino alla sua destituzione hanno bensì vinto le elezioni, ma senza rappresentare la maggioranza). Anche a causa di questo, in molti in Spagna ritengono che la dichiarazione di indipendenza catalana sia assimilabile al tentativo di colpo di stato portato avanti nel 1981 dal generale Armada con il colonnello Tejero e il generale Milans del Bosch contro la democrazia parlamentare ancora giovane dopo la morte di Franco.

Vi sono altri fatti da considerare. Se il tentativo di colpo di stato del 1981, esauritosi nel giro di una giornata, fu un fatto eminentemente interno spagnolo, malgrado la Comunità Europea e una pluralità di Stati nel mondo abbiano reagito agli eventi dell’ottobre 2017 ritenendo anche questi un fatto interno spagnolo, in realtà si tratta di un fenomeno inquadrabile entro il più vasto contesto di imbarbarimento diffusosi in tutto il mondo occidentale e può avere conseguenze più ampie.

Innanzi tutto i secessionisti dispongono di un programma di lungo termine e da tempo hanno preso in considerazione che sarebbe potuto accadere quanto accaduto (che lo Stato spagnolo attivasse le misure volte a ristabilire la legalità costituzionale in Catalogna) e hanno preparato quel che la stampa spagnola ha presentato come una “hoja de ruta”, una tabella di marcia che prevede organismi in grado di funzionare in condizioni di illegalità e di segretezza cospirativa.

Da tempo esiste una rete internazionale non solo istituzionalizzata ma rappresentata nel Parlamento europeo, di partiti localisti, la Alianza Libre Euopea, o European Free Alliance, o
Alliance libre européenne o Partido Democrático de los Pueblos de Europa (PDPE) che, costituitasi nel 1981, raccoglie partiti da diversi paesi europei (Germania, Belgio, Bulgaria, Austria, Danimarca, Repubblica Ceca, Francia, Croazia, Finlandia, Grecia, Spagna, Italia, Estonia, Regno Unito, Slovacchia, Polonia, Paesi Bassi), in cui particolarmente forte è l’Alleanza Neo-flamenca che ambisce separare le Fiandre dal Belgio, e in Spagna conta su indipendentisti anche nei Paesi Baschi, in Aragona, nella Comunità Valenziana, nelle isole Baleari, nelle Canarie, in Navarra, in Galizia. Sono movimenti che spesso si rifanno a momenti storici di effettiva oppressione subita da minoranze a opera di Stati invadenti. Un movimento occitano ha offerto di ospitare in Francia, in rifugi protetti, i membri dell’ipotetico nuovo governo indipendentista catalano qualora questi dovessero andare in clandestinità.

Nel suo impegno a ricostruire l’impero russo ex sovietico, Vladimir Putin sostiene questi movimenti, soprattutto in funzione anti Unione Europea: si tratta di un supporto il cui valore in ambiente Internet è stato messo in rilievo da quanto accaduto con l’elezione di Trump negli USA.

L’ondata di rivolta anti globalizzazione, ben giustificata dal fatto che questa abbia assunto in gran parte il volto dei grandi potentati finanziari (i pochi ricchi contro i tanti, se non poveri, almeno impoveriti, ovvero le classi medie che più hanno subito le conseguenze della crisi del 2008) ovviamente gioca a favore di tali movimenti.

Ecco che la rivoluzione catalana del 2017 potrebbe benissimo finire come tutti gli altri momenti di fermento indipendentista catalano del passato, ma potrebbe, proprio grazie alla globalizzazione, divenire il germe di un nuovo fenomeno politico.

Un fenomeno “glocale”, in cui il rischio maggiore è dato dall’incontro tra la finanziarizzazione ingiusta da un lato e le condizioni paranoidi che, dall’altro, spingono gli indipendentisti verso la chiusura entro ristetti limiti locali, rifiutando il sistema di legalità internazionale che ha preso piede col movimento storico che portò alla costituzione delle Nazioni Unite.

Pubblicato il 28 ottobre 2017
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Europa: la minaccia del localismo

L’Europa così com’è ora concepita non ha futuro. Hanno avuto ragione i Britannici ad andarsene…”. L’ha detto Piero Bassetti parlando lunedì 30 ottobre 2017 al convegno “Europa… e domani?!” svoltosi a Milano sotto gli auspici della Regione Lombardia e dell’AICCRE, Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa.

Se due degli oratori hanno focalizzato il loro intervento sui problemi economici (Paolo Agnelli sui dolori delle industrie italiane, sempre più ridotte di numero e dimensioni per effetto della delocalizzazione e delle svendite dei bocconi più prelibati a investitori esteri, e Andrew Spannaus, sui problemi derivanti dal predominio di una finanza internazionale sempre più invasiva e libera di tiranneggiare e depredare le economie reali a detrimento delle classi medie e basse), rilevante è stato il ricorrere, negli interventi di altri relatori, del tema della crescente importanza delle autonomie locali intese come contrapposte agli Stati nazionali.

Su tale argomento si sono espressi, oltre a Bassetti, Raffaele Cattaneo, Presidente del Consiglio regionale, e Massimo Garavaglia, Assessore all’economia della Regione Lombardia. Questi relatori hanno profilata l’idea di un’Europa da unirsi sempre di più a fronte del crescere degli altri grandi blocchi politico-economici (Cina, India e Africa), ma secondo criteri – su questo ha insistito Bassetti nel suo intervento assai lucido e argomentato – nuovi, diversi da quelli che hanno informato il pensiero e l’azione dei Padri fondatori, da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni col loro Manifesto di Ventotene, agli statisti dell’era postbellica, per arrivare ai rivolgimenti dell’attuale Europa della moneta e del debito.

Secondo Bassetti, che è stato il primo Presidente della Regione Lombardia e si è sempre interessato del ruolo delle Amministrazioni locali intese quali paladine dei popoli a fronte dell’invadenza delle burocrazie statali, oggi occorrerebbe il coraggio di sognare un’Europa nuova, che sorga dal federarsi di Regioni, non più degli Stati nazionali.

Si tratta di un discorso ampio e complesso, che tiene in conto diversi sbilanciamenti che oggi affliggono l’Europa. A partire per esempio dal fatto che nel Consiglio Europeo, principale organo del governo continentale in cui si riuniscono i capi dei governi dei paesi membri, ogni esponente rappresenta un voto, talché Paesi relativamente piccoli hanno voce identica a quelli maggiori – a differenza del Parlamento Europeo, dove le rappresentanze nazionali sono ponderate in ragione del peso demografico di ciascun Paese.

Ma ovviamente oltre a queste distorsioni istituzionali, risulta da tempo evidente a chiunque come sia giunta ad avere un peso predominante la politica monetaria e finanziaria, nonché l’uso politico del debito che affligge alcuni Paesi come Grecia o Italia, a discapito dell’economia produttiva, fondata sulla produzione e distribuzione di merci.

Data tale situazione, da parte di alcuni si propone che siano gli Stati a farsi carico di cambiare le politiche economiche a vantaggio dei livelli di vita delle popolazioni (questo nel convegno in questione è stato un tema sotteso all’intervento di Spannaus). Ma da parte di altri (ed erano la maggioranza nel convegno di cui stiamo parlando) si propone che si smantellino gli Stati nazionali e si ristrutturi l’insieme istituzionale dando maggiore peso agli organismi locali, che sarebbero, nella visione prospettata da Bassetti, propensi a concepirsi come parte di un mondo più vasto: imperniato sulla dinamica in cui Asia e Africa hanno crescente importanza a discapito dei rapporti transatlantici. Nel contesto attuale, chi persegue questa linea di pensiero, ritiene che il nuovo localismo risolverebbe anche i macro squilibri in campo economico, monetario e finanziario. Ma in che modo, con quali strumenti? Questo non è chiarito da alcuno.

Bassetti ha con forza evidenziato come sarebbe urgente che sorgessero leader “capaci di proporre soluzioni e di convincere i votanti della loro giustezza” e non, viceversa, persone che si chiamano leader ma che non fanno che seguire l’opinione dominante, giusta o sbagliata che sia: “questi sono i demagoghi”.

Ma se guardiamo alla situazione attuale in Italia non vediamo proprio personaggi come un Salvini, leader della Lega Nord, che hanno imbastito tutta una carriera politica sul conformarsi secondo gli umori della platea di fronte alla quale si trovano?

E all’estero non è significativo che in Catalogna si assista, in particolare dall’ottobre 2017, proprio al dispiegarsi di questo genere di demagogia? I leader catalani – s’è visto con evidenza nel mese di ottobre 2017 – non fanno che solleticare le preoccupazioni delle persone che a fronte delle difficoltà economiche e strategiche tendono a rifugiarsi nella comunità locale e presentano questa come la panacea, e di contro a quella che è percepita come ingerenza dello Stato nazionale sventolano bandiere locali: ma insieme con quelle europee. Tuttavia quel che motiva la loro azione sembra radicato anzitutto nel desiderio egoistico di mantenere ricchezze che ritengono loro, e che ritengono esser loro sottratte dallo Stato centrale.

Non è questa pura demagogia, nel contesto dell’economia in cui i legami tra le diverse aree geografiche sono tali da rendere ogni processo un evento globale e non locale? Si tratta appunto della demagogia sottesa alle diverse proposte di indipendenza che emergono dalla Lombardia al Veneto, dalle Fiandre alla Sicilia.

Come sostiene Bassetti, ci vorrebbe una nuova grande idea, un nuovo grande sogno per una nuova Europa non più stretta nelle maglie della speculazione finanziaria e soffocata dal peso del debito: ma oggi l’unica idea che motiva la rivolta localista è quella dell’egoismo. Nulla a che vedere con grandi idee, nulla a che vedere con la proposta di soluzioni concrete. Secondo una visione che assume tinte magiche o comiche, il localismo è assunto quale panacea.

Il problema – lo notò Indro Montanelli quando sulla scena politica italiana irruppero Umberto Bossi e la sua Lega – è che i successi delle istanze politiche localiste sono il sintomo di un male; ma i localisti invece ritengono che il localismo sia la soluzione.

Per questo oggi sembra profilarsi il rischio di un nuovo tipo di involuzione, potenzialmente non molto dissimile da quella che attivò il nazismo negli anni ’30. Il movimento hitleriano infatti conquistò consensi (fu democraticamente votato al potere dittatoriale) in una Germania che aveva tutte le ragioni di sentirsi oppressa e vessata sul piano economico da potentati sovranazionali i cui diktat erano stato accettati dalla Repubblica di Weimar: ma propose come soluzione non di cambiare le ragioni dell’oppressione che la schiacciava, bensì seguì l’impulso a chiudersi nel nazionalismo, che implica automaticamente di guardare all’altro come esterno e nemico.

Oggi tale impulso è espresso nel modo più lucido, più che in Europa, negli USA: dall’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, che sta cercando di ristrutturare il partito Repubblicano a immagine di Trump, ovvero completando lo svuotamento degli ideali che furono alla base del pensiero antirazzista, democratico e universalista di un Lincoln, per proporre invece come obiettivo di medio e lungo termine lo scontro diretto con la Cina. Scontro al quale Trump si sta da tempo preparando con la scusa della Corea del Nord.

I problemi della Corea del Nord infatti potrebbero essere risolti con un accordo tra Cina, Russia e Usa. Ma, poiché Trump è programmato per funzionare secondo la logica dello scontro (come Bannon), non può che scegliere quest’ultima via. E il suo obiettivo ultimo non è la Corea del Nord, bensì la Cina, la cui concorrenza gli USA non sono più in grado di contrastare sul piano della strategia economica: perché gli USA sono indirizzati secondo una politica di pura finanziarizzazione, mentre la Cina prosegue la marcia trionfale sulla strada dello sviluppo dell’economia reale e dei grandi interventi infrastrutturali – grazie a cui tra l’altro sta “conquistando” l’Africa, che è il continente del futuro. Rifiutando gli strumenti di economia reale atti a concorrere con la Cina, imbevuti come sono di ideologia liberista, Trump e Bannon stanno muovendosi (è come se avessero un pilota automatico) verso lo scontro militare con cui si illudono di controllare la Cina: come se un miliardo e 300 milioni di persone dall’economia in forte crescita potesse essere controllato come si fa con una repubblica delle banane.

La logica che muove Trump (“America first”) è la stessa che anima il localismo al quale si accodano i tanti pseudo leader indipendentisti che si aggirano sempre più numerosi per l’Europa.

Alle difficoltà economiche causate dall’ingordigia degli apparati finanziari speculativi essi rispondono ricadendo nell’impulso a badare a quel che appare come il piccolo interesse locale. E inevitabilmente scelgono un nemico da additare quale capro espiatorio: anzitutto Roma ladrona (o Madrid ladrona), ma il rischio, come si diceva, è che questo sia solo il passo previo per arrivare a quel che un tempo furono gli Ebrei (e prima ancora per i Turchi lo furono gli Armeni…)… e del resto già lo sono i Messicani o altri popoli di cultura islamica che minacciano di immigrare nelle ricche regioni del Nordamerica; e per ora solo lo sono questi ultimi per le ricche regioni l’Europa.

Nel campo localistico, beninteso, vi sono forse anche coloro che, bene intenzionati, auspicano il costituirsi di una rete globale di comunità locali – Internet renderebbe possibile tale impresa – per concordare nella pluralità dei piccoli (e di fronte ai grandi apparati burocratici che hanno dominato sinora gli Stati Nazionali), una strategia per stabilire una politica economica fondata sulla giustizia.

Ma il problema è che costoro, se ci sono, non si vedono: si vedono solo coloro i quali guardano al localismo come vettore di egoismo e rivendicano privilegi di civiltà a fronte della potenziale invasione dell’inciviltà.

È proprio la logica che non può che condurre allo scontro.

Qui stanno dunque le linee sulle quali si definirà se avremo un mondo di pace e cooperazione o di confusione e di tensione e scontro. Da un lato sta la potenzialità che le aggregazioni internazionali (a partire dall’Unione Europea) si definiscano come conseguenza logica e pacifica evoluzione degli organismi esistenti, correggendo gli squilibri e le ingiustizie che sinora hanno accettati e incorporati.

Dall’altro sta la minaccia che le rivolte a sfondo demagogico continuino ad autoalimentarsi secondo pulsioni localistiche e disgregatrici.

C’è una “terza via”? C’è quella che già tracciarono negli anni ’60 personaggi come Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze: che si costituiscano reti internazionali di città per la pace, che uniscano all’idea della pace quella dello sviluppo, proponendo una cultura della tolleranza e della collaborazione, nel contesto della struttura statuale esistente, ma da far evolvere entro la logica della solidarietà tra popoli e Stati. Qualcosa di molto diverso dalla cultura della separazione e dello scontro che viene agitata dalle pulsioni localiste oggi predominanti.

Ma sta qui la speranza. E implica collaborazione a livello istituzionale, nazionale e internazionale: non rottura.

Pubblicato il 31 ottobre 2017
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La Valletta: migliaia in piazza contro la politica dell’omertà

Rispondendo agli allarmati quesiti della stampa internazionale, a ridosso dell’assassinio di Caruana Galizia, il premier maltese Muscat aveva promesso solennemente di far luce sull’efferato delitto. Quindi invitava i familiari ad aver fiducia nella giustizia. Sdegnata e ferma era giunta la risposta dei figli Mattew, Andrew e Paul. In un comunicato diffuso tramite i social media chiedevano le dimissioni del primo ministro e del suo staff, chiosando: “Chi per tanto tempo ha cercato il silenzio di nostra madre non può ora offrire giustizia”. E ancora: “Non siamo interessati a una giustizia senza cambiamenti. Il governo pensa solo a una cosa: la sua reputazione e ha bisogno di nascondere il buco dove son finite le istituzioni. Non è questo il nostro interesse, né era quello di nostra madre. Un governo e una polizia che hanno fallito nella difesa della vita di nostra madre, falliranno anche nell’indagare sulla sua morte”. Ieri una parte della società maltese ha ribadito il concetto manifestando in strada, come avevano già fatto venerdì scorso i colleghi di Daphne. Un corteo composto, ma determinatissimo s’è diretto sotto il quartier generale della polizia a La Valletta. Ha richiesto a gran voce e, poi leggendo un comunicato, le dimissioni dell’attuale capo della polizia, Lawrence Cutajar, e l’elezione di un nuovo rappresentante per dirigere le indagini assieme alla magistratura.

Fra la folla c’era anche la presidente maltese Marie-Louise Coleiro Preca, in carica dal 2014, anche lei, come il premier, aderente al partito laburista. In una dichiarazione aveva bollato l’omicidio della giornalista come un attacco codardo e osceno allo stesso Stato maltese. Ieri ha fatto richiamo a forza, coraggio e solidarietà popolari per rintuzzare un disegno che punta a impaurire le persone e a destabilizzare i rapporti civili. In realtà una parte della società locale è destabilizzata proprio dalla sequela di affari oscuri e criminali su cui Caruana Galizia indagava; su tali questioni le Istituzioni che vogliono difendere la propria credibilità e la solidità della storica nazione devono attuare quel cambiamento di rotta auspicato dai figli della giornalista. Il cui assassinio, come nella peggiore tradizione terroristica e mafiosa, rappresenta la risposta malavitosa a chi richiama legalità e rispetto delle leggi. Considerazioni fatte ieri anche dal segretario generale di Reporter senza frontiere Christophe Deloire che concordava con l’intervento d’un collega di Daphne, James Debono. Quest’ultimo, oltre a piangere la scomparsa d’una cronista d’indagine considerata una grave perdita per il Paese, ne rammentava anche il grande cuore: “Abbiamo bisogno di riflettere. Abbiamo bisogno di risposte politiche perché la questione morale strangola Malta”. Lo dice esplicitamente chi sa che una parte di quella società è avida e pensa solo agli affari.

E’ il risaputo comune: il piccolo Stato è assediato da traffici illeciti, corruzione, lavaggio di denaro sporco di tanta criminalità globale. Tutto è reso possibile dalla compiacenza che scivola nella collusione di alcuni uomini della politica presenti nelle Istituzioni, della polizia e finanche della magistratura. Una vera piovra mafiosa, con legami internazionali più vari. Per ora le piste potrebbero seguire gli affari legati alle tangenti versate dalla famiglia del presidente azero Aliyev sul conto della Pilatus Bank, aperto a nome della moglie del premier maltese, o la questione del contrabbando del petrolio libico che, tramite petroliere russe, giunge proprio in Italia. E ancora la miriade di società (ne sono state calcolate oltre cinquantamila) che per evadere il fisco nel proprio Paese s’iscrivono alla Camera di commercio dell’isola mediterranea, che ha funzione di paradiso fiscale dietro l’angolo, con buona pace del presidente Juncker e di tutta la prosopopea di rigore e regolamenti trasparenti del Parlamento di Bruxelles che ha voluto Malta, e non solo, nella grande famiglia. In un’Unione Europea per ora ben poco attenta alla vicenda, come del resto diverse sue nazioni cardine, a muoversi è proprio il Belpaese che con Rosi Bindi porta oggi la Commissione antimafia a discorrere con rappresentanti e magistrati della nazione assediata da criminali e dai metodi criminali che hanno tacitato la giornalista scomoda. Magari salta fuori anche una pista italiana.

Articolo originale
lunedì 23 ottobre 2017