Il film è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice finlandese Rosa Liksom, nota in Italia anche per altri suoi libri (1). Chi li ha letti ha imparato ad amare i suoi personaggi usciti dal nulla, poco comunicativi, spesso in viaggio e frequentatori dei non-luoghi tipici del road movie. Qui siamo immersi piuttosto in un “rail movie”: i protagonisti viaggiano nello stesso scompartimento ferroviario e sono fin troppo diversi: una giovane, taciturna ricercatrice finlandese di archeologia e un giovane operaio russo, bullo e mezzo delinquente. Il libro è ambientato nell’Unione Sovietica di fine anni ’80 – ma davvero la Russia è cambiata una volta usciti dalle grandi città? – e si dipana per la Transiberiana. Qui però il film per esigenze narrative si concentra sul tratto San Pietroburgo – Mosca per poi puntare a nord verso Murmansk (mare Artico). La ragazza deve vedere alcune pitture rupestri, lui è stato assunto come operaio da una compagnia mineraria. Ogni volta che scendono dal treno di decente c’è solo la vodka, ma la vita a bordo non è facile: spazi stretti, convivenza difficile e lunghe soste in stazioni inospitali di città chiuse (2). Lui è brusco, ma si rivela generoso: ospita lei da una ciarliera vecchietta mezza parente, le rimedia una macchina (rubata?) e l’aiuta a cavarsela con russi disposti a tutto purché pagati: d’inverno il luogo dove si trova la zona archeologica è impraticabile e il meteo è proibitivo. Lei ha alle spalle una dolorosa storia d’amore (sembra; in realtà il suo malessere è più profondo) e in fondo si affeziona a questo simpatico mascalzone (diciamolo: è un classico) sfuggente quanto lei, ma più onesto di quanto sembra, mentre è proprio un connazionale della ragazza a rubarle la videocamera dove c’è anche il suo archivio personale. Ma è in fondo quando perde la memoria (digitale) che la ragazza si concentra su questo scontroso e solitario giovane russo, fin troppo caratterizzato (robusto, testa rasata, una cicatrice in fronte e l’aria spavalda; sembra uscito di peso da Educazione siberiana). Lo spazio claustrofobico dello scompartimento – a una stazione sale pure una famiglia con bambini – si alterna al lusso del vagone ristorante, dove a fine viaggio però servono solo panini (3). Inospitale è invece l’esterno: quando arriveremo a Murmansk e infine all’isolotto dove si trova questa famosa zona archeologica, ci ritroviamo in capo al mondo fra relitti di navi e inquinamento industriale. Lei vorrebbe in fondo legarsi a quest’uomo, ma lui non si fa mai prendere. Alla fine inevitabilmente si separano, ma ormai sono tutti e due cambiati interiormente e la convivenza in fondo non è stata così drammatica come si pensava all’inizio. Merito del film è infatti una ripresa fatta esclusivamente con camera a mano (molto realistica) e una sceneggiatura che riesce sempre a tenere sospesa l’attenzione dello spettatore. L’idea della convivenza forzata di caratteri diversi e di incontri improbabili durante un viaggio in un piccolo spazio chiuso non è nuova: è introdotta per la prima volta in un racconto di Balzac, Palla di sego (4) e ripresa da decine di film, persino in Ombre Rosse di John Ford. Qui il regista finlandese Juho Kuosmanen sfrutta al massimo le differenze culturali e caratteriali dei due protagonisti, con effetti anche divertenti. Il film è stato presentato al Festival di Cannes quest’anno e ha conquistato il Premio Grand Prix Speciale della Giuria.
Note:
Stazioni di transito (1985, ed. it. 2012) e Memorie perdute (1986, ed. it. 2003) sono raccolte di racconti, mentre sono romanzi La moglie del colonnello (2019, ed. it. 2020) e Scompartimento n. 6 (2011, ed. it. 2014). La traduttrice è Delfina Sessa.
Alcune città russe sono chiuse agli stranieri o a chi non ci lavora. Vi sono concentrate le industrie militari o comunque strategiche e sono del tutto prive di interesse per un turista. Vedi: https://www.iltascabile.com/societa/citta-chiuse/
In Transiberiana , di Marco Pellegrino (1992) testimonia che in molte stazioni sovietiche cuochi e i ferrovieri si rivendevano i viveri pregiati, traffico che avveniva alla luce del sole.
Scompartimento n.6 (Hytti nro 6) Regista: Juho Kuosmanen Con: Seidi Haarla e Yuriy Borisov Genere: Drammatico Anno: 2021 Paese: Finlandia, Russia, Estonia, Germania Durata: 107 min Data di uscita: 02 dicembre 2021 Distribuzione: BIM Distribuzione
In
questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus,
ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo
le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non
interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le
enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e
scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti
(1971) o ancora de L’amore ai tempi del
colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una
rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di
fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri
sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha visto ben tre
adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard
Matheson col titolo Io sono leggenda
(1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli
umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è
Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima
versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato
George Romero: La città verrà distrutta
all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è
stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti
diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo
sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang
Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce
gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la
caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così
produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam
(1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la
pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a
pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel
film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni
dopo esce Il Quinto Elemento di Luc
Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di
salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico.
Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al
genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli
umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle,
dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su
scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a
farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh,
vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema
respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di
peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con
la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo
meno schematico. In Orfeo negro (1959)
di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto
dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più
stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria
due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era
avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre
nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la
difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari
husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento
al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del
dopoguerra: Una lettera per Tezuò.
Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora
mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è
cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa
convincermi a cambiare idea sui vaccini.
Mi
piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di
epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982,
ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa
significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico
evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine
della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
Ieri
è morto Max von Sydow, l’indimenticabile cavaliere che nel Settimo Sigillo di
Ingmar Bergman (1957), proprio durante un’epidemia di peste, gioca una lunga
partita a scacchi con la Morte. Parlare della peste finora mi ricordava solo
certi temi di liceo (la peste in Tucidide, in Lucrezio, nel Decamerone e nei
Promessi Sposi, col primato manzoniano nell’umanità delle descrizioni), ma di
mio ci metto anche letture meno scolastiche, non tanto The Journal of Plague
Year di Daniel Defoe (1722) o La Peste di Camus (1947), quanto piuttosto
L’amore ai tempi del colera di Jorge Amado (1985), dove l’epidemia ostacola ma
non scoraggia affatto chi ama la vita. Già, perché l’epidemia scatena
l’angoscia di massa (basta vedere i supermercati presi d’assalto come in guerra
o la diffidenza sui mezzi pubblici), ma anche frenetiche reazioni vitali: ogni
giorno su whatsapp mi arrivano scherzi e barzellette sul coronavirus, che
subito ritrasmetto in modo virale (!) agli amici. Questo almeno compensa il
clima di coprifuoco e i quotidiani consigli: lavarsi spesso le mani, non
tossire in faccia agli altri, sanificare water e lavandini, cioè quello che una
persona civile dovrebbe comunque fare ogni giorno senza aspettare un’infezione.
L’epidemia diventa sempre una metafora: ora castigo divino, ora segno di
malessere o degenerazione politica, ora prova del complotto internazionale o
dei cambiamenti climatici. Una letteratura che va dalla Bibbia a Manzoni, da
Thomas Mann ad Albert Camus fino a Saramago, ma non disdegna inverosimili
rivelazioni del Mossad (che non rilascia mai dichiarazioni, ndr.) o profezie
apocalittiche. Ma gli antichi erano in parte giustificati: privi di microscopio
e di antibiotici, non avevano idee migliori che relegare in isole lazzaretto le
navi provenienti dall’Oriente o le carovane con cui viaggiavano insieme uomini,
merci, animali, virus e batteri. Soprattutto gli intellettuali francesi – penso
ai Nouveaux Philosophes degli anni ’70 del secolo scorso – hanno scritto colti
volumi sulla strategia dell’isolamento e della reclusione ed esclusione del
malato infetto, sia esso appestato o psichiatrico, ma i pragmatici Veneziani di
cinque secoli fa certi problemi non se li ponevano proprio e quindi
provvedevano a isolare – esattamente – gli infetti. Ricordo anni fa di aver
trovato un teschio scavando in un campeggio nell’isola di Osljak (in veneziano:
Calugerà) davanti Zara, in Dalmazia. L’isola naturalmente si chiamava anche
Lazaret. Le navi di un tempo viaggiavano comunque lente e così le carovane,
quindi le epidemie non si spargevano rapidamente come ora, dove bastano un
aereo o una nave da crociera per creare il panico mondiale. Ne La morte a
Venezia di Thomas Mann l’impiegato inglese dell’agenzia di viaggio spiega al
prof. Aschenbach il lento itinerario del colera di cui nessuno deve parlare:
alla fine dalla Turchia è arrivato a Venezia, dopo aver fatto per anni il giro
di altri porti. Quell’epidemia non se l’era inventata Thomas Mann, ma si è
saputo dopo: la censura sull’informazione era stretta, tant’è vero che pochi
sanno che l’epidemia di febbre spagnola del 1918 fu introdotta in Europa dai
soldati americani inviati in Francia contro i Tedeschi. La chiamiamo
universalmente “spagnola” perché la Spagna era un paese neutrale e quindi solo
i giornali iberici ne parlavano senza censura militare. In realtà il focolaio
si era sviluppato tra le reclute del Kansas che lavoravano negli allevamenti
dei maiali e si sparse in Francia fra la truppa ammassata nelle retrovie del
fronte occidentale. Il tentativo di dar la colpa agli operai cinesi non regge:
erano stanziati lontano, sulla costa californiana (1). Ma come sempre, il Male
lo porta sempre lo Straniero. L’epidemia fece 100 milioni di morti, di cui 20
solo in Europa, più dei 17 milioni di soldati caduti al fronte, anche se
bisogna mettere in conto una popolazione indebolita da quattro anni di guerra e
dalla mancanza di antibiotici, inventati e diffusi vent’anni più tardi. Ma la
memoria della spagnola si è spenta con i nostri nonni, i veri sopravvissuti a
tutto quanto può essere accaduto nel Secolo Breve.
Naturalmente
nel momento della disgrazia collettiva saltano fuori il meglio e il peggio del
Genius Loci. I Cinesi hanno dimostrato ancora una volta una grande
organizzazione collettiva, ma anche la differenza tra un ordine che parte
dall’alto e una comunicazione che parte dalla periferia per il centro. Noi
italiani abbiamo finora scoperto che la frettolosa e sgangherata riforma del
Titolo quinto della Costituzione ha portato allo scoordinamento totale tra
Stato e poteri locali. Voluta qualche anno fa per contrastare il federalismo e
il pericolo della secessione, ha precluso al Ministero della Salute la
possibilità di imporre standard sanitari coerenti su tutto il territorio
nazionale. Il balletto dei decreti ufficiali sembra poi allineato allo stile di
Badoglio. Ma neanche l’Europa brilla per capacità organizzativa: non si è
stabilito subito un protocollo comune per stabilire il grado di contagio; si
permette ai singoli stati di decidere chi entra e chi esce, senza neanche
avvertire i viaggiatori e le ambasciate. E se abbiamo scoperto tanti casi, è
anche perché abbiamo fatto un controllo con 25.000 tamponi, dieci volte più che
in Germania o Francia. Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ancora
non ha deciso se è pandemia o no. Nel frattempo è sparita l’Amuchina, insieme
ai partiti politici in continua lite fra di loro. Forse per senso civico, ma
anche perché il Coronavirus ha – come direbbero i pubblicitari – vampirizzato
la comunicazione, complice anche una tv che mobilita un esercito di esperti –
virologi, ospedalieri, volontari, ricercatori a tempo pieno. Momenti di Gloria.
Nel frattempo finalmente anche in Italia si scopre lo smart working, lavoro
agile, quello che anni fa si chiamava telelavoro ma non poteva ancora valersi
delle linee veloci, di whatsapp e della logistica in stile Amazon. Ma ci voleva
la Peste Nera per modernizzare l’Italia?
E
sempre a proposito della Peste, mi piace essere originale e di parlare di un
libro tradotto solo nel 1940 da Elio Vittorini e di cui ho fatto cenno
all’inizio: A Journal of the Plague Year (Diario dell’anno della peste o La
peste di Londra ) pubblicato nel 1722 anonimo, ma riferito all’epidemia che
falciò la popolazione di Londra nel 1665. Presentato come cronaca autografa di
un testimone oculare dell’epidemia e integrato da documenti originali, era
stato in realtà scritto da Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe,
pubblicato anch’esso come reale autobiografia. Fake news? No, il nostro autore
sapeva far bene il suo mestiere di scrittore e pioniere del giornalismo. La
critica italiana preferisce naturalmente Manzoni: «Nel libro di Defoe c’è meno
arte, meno maestria, meno meditazione e più peste» , scrive Vittorini. Io
invece provo una profonda ammirazione per i grandi falsari, e Daniel Defoe lo
era (2). Alieno da sentimentalismi e sovrastrutture morali, ha confezionato una
vivida e accurata cronaca fingendosi testimone oculare.
Tutti
gli altri scrittori hanno esteso invece la descrizione dell’epidemia
proiettandola in una dimensione morale, metafisica. Lucrezio nel sesto e ultimo
libro del De rerum natura descrive la peste di Atene del 430 a.C. sulla scia di
Tucidide (3), il quale notava la destrutturazione morale della società colpita
dal morbo, il che non sfugge neanche a Boccaccio nel Decamerone. Se gli dèi non
ti proteggono, l’etica non paga. Ma è proprio Lucrezio a suggerire che
l’epidemia è un fenomeno naturale e gli dèi poco c’entrano: proprio i santuari
sono pieni di cadaveri e la malattia non distingue tra buoni e cattivi. Sarà
piuttosto Manzoni ad affidare alla peste il compito di punire Don Rodrigo e il
Griso, anche se sapremo solo dopo anche della morte di Fra’ Cristoforo nel
Lazzaretto, dove prestava aiuto agli altri. Epidemia invece tutta laica,
decadente e tardo romantica ne La Morte a Venezia di Thomas Mann (1912), libro
noto anche per l’interpretazione cinematografica di Luchino Visconti (1971).
Peste che Albert Camus interpreta invece come metafora del Nazismo, anche se la
dinamica resta la stessa: all’inizio si sottovaluta il contagio, poi non si
deve creare allarmismo e in questo modo la situazione peggiora; quindi si
ordina un rigido cordone sanitario attorno alla città e si studia il vaccino.
Qui siamo a Orano, in Algeria, forse nel 1940 o comunque sotto il governo di
Vichy (1940-44), e a descrivere tutto è un medico. La trama è abbastanza nota,
quindi non la riassumo, come nota è la morale: bisogna vigilare perché solo la
prevenzione può evitare il ritorno del flagello. Ma che si parli di Nazismo è
solo sottinteso, visto che i topi neri che hanno invaso Orano non portano
incisa la svastica. In fondo, il romanzo di Camus potrebbe essere
reinterpretato di continuo, come certe opere di Brecht.
Mi
piace però terminare questo primo excursus con Cecità di José Saramago (1995).
Questa improvvisa cecità che si espande a macchia d’olio fra gli abitanti di
una città non definita è inspiegabile, come non si capisce il motivo per cui
nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio
come all’inizio della vicenda era sopraggiunta improvvisa l’epidemia. Nel libro
non manca niente: la sofferenza collettiva, i morti per le strade, una
protagonista immune dal contagio, la strategia della reclusione dei malati, il
crollo della morale e l’affermarsi della legge del più forte. E’ un romanzo
complesso e va letto per intero, ma ha una precisa chiave di lettura, espressa
da uno dei personaggi, più precisamente la moglie del medico: «Secondo me non
siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non
vedono». E’ quindi un j’accuse all’indifferenza, il nuovo male del secolo.
E
passiamo al cinema. In questo momento le sale cinematografiche sono vuote per
paura del contagio, ma di film con epidemie è piena la storia del cinema.
Scarto però in anticipo le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso
illustrano, non interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in
scena, sfruttando le enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel
ricostruire ambienti e scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie
edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino
Visconti (1971) o ancora de L’amore ai tempi del colera (2007). I soggetti
originali per una rassegna di cinema “epidemico” sono infatti per la maggior
parte film di fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove
virus e batteri sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. Con l’aiuto di
Google, ecco un breve elenco: L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha
visto ben tre adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954
da Richard Matheson col titolo Io sono leggenda (1954), narra di un’epidemia
causata da un batterio che trasforma tutti gli umani in vampiri. Il solito
meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è Robert Neville, che si barrica e
si difende a modo suo. Una curiosità: la prima versione fu girata all’EUR. Ma
parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato George Romero: La città verrà
distrutta all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in
questione, è stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli
abitanti diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in
attesa che lo sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus
Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang Petersen. Il virus nasce in
Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce gli Stati Uniti si finanzia la
ricerca (più chiaro di così..) e parte la caccia per rintracciare la “scimmia
zero” da cui è partita l’infezione e così produrre il vaccino. Cugini primati
che rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry
Gilliam (1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe
dopo la pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willys) nel
1995, a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga il danno.
Nel film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due
anni dopo esce Il Quinto Elemento di Luc Besson e ricompare proprio il nostro
Bruce Willys, stavolta nell’impresa di salvare il mondo dal Male Supremo,
evocato da uno sconsiderato scavo archeologico. Il film è intricato e mischia
anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al genere catastrofico, dove
l’elemento di base è che la minaccia letale per gli umani proviene sempre da
fuori.
Andiamo
avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28
giorni dopo (2003), di Danny Boyle, dove stavolta il virus è stato creato in
laboratorio e sperimentato su aggressivi scimpanzé che scappano in giro (ancora
scimmie, ma che fantasia!). Manco a farlo apposta, in quell’anno scoppiò
l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh, vero
uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema respiratorio
e si trasmette velocemente con una stretta di mano. Ma giusto ieri sera in tv
c’era Weaponized (2016), di Timothy Woodward jr. , dove il virus è robotico,
creato in laboratorio dal padre vendicativo di una vittima per terrorismo.
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, ho citato
all’inizio Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman, dove siamo in piena epidemia di peste nera, e il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo meno schematico. In Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria due film che ci proiettarono alle elementari, quando esisteva ancora una figura professionale chiamata vigilatrice scolastica. Il primo era avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il siero contro la difterite. Non ricordo il titolo, ma ricordo questi treni di slitte che avanzano nella tormenta polare e ieri ho scoperto (con Google, lo ammetto) che Balto, uno dei leggendari husky siberiani della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento in bronzo al Central Park di New York, a perenne riconoscenza dei bambini. L’altro era un tetro film giapponese del dopoguerra: Una lettera per Tezuò. Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e ogni volta che penso a quel film giuro che ancora mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa convincermi a cambiare idea sui vaccini. Ricordo anche di quel padre che nella Budapest del dopoguerra è alla spasmodica ricerca della penicillina per salvare il figlio (El Dorado o A peso d’oro, 1989, regia di Géza Bereményi ). E visto che parliamo di cinema ungherese, mi piace concludere in modo indiretto con un film che di epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982, ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa significa il rallentamento della vita sociale dovuto a un traumatico evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
****************************
NOTE
1)
Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo.
Trad. di
2)
Defoe è considerato il padre del moderno romanzo, ma è stato anche un
giornalista, e il suo stile realistico lo dimostra. Tutte le sue opere
narrative (Robinson Crusoe, Capitan Singleton, Memorie di un Cavaliere, Moll
Flanders, Lady Roxana) si presentano come autobiografiche e lasciano poco
spazio al sentimentalismo che avrebbe imperato dopo.
3)
Dai sintomi, gli specialisti hanno ipotizzato che si trattasse in realtà di
tifo esantematico. Vedi: Manolis J.
Papagrigorakis, Christos Yapijakis, Philippos N. Synodinos e Effie
Baziotopoulou-Valavani, DNA examination of ancient dental pulp incriminates
typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens, in International
Journal of Infectious Diseases, vol. 10, nº 3, 2006, pp. 206–214
Prima guerra mondiale, siamo sul fronte occidentale nel momento in cui i Tedeschi decidono di arretrare per fortificarsi sulla linea Hindemburg, dove rimarranno attestati sino alla fine del conflitto. Un reparto inglese convinto di poter attaccare in profondità deve essere fermato per tempo. L’incarico viene assegnato a un caporale e a un altro graduato, il cui fratello presta servizio nel reparto di fanteria che rischia l’annientamento se l’attacco partisse. È una guerra contro il tempo, e così inizia così la missione dei nostri due portaordini nella Terra di Nessuno, qui eccezionalmente ampia ma non priva di insidie: cecchini, trappole esplosive e crateri pieni d’acqua piovana e cadaveri. Alla fine si riuscirà a raggiungere il reparto indicato, ma la missione rimane fino all’ultimo un azzardo, con ritmi da cardiopalma. Il film si chiude con una panoramica su un enorme, isolato ciliegio dove uno dei nostri eroi esausto si riposa. Questa la trama, persino semplice e simile a quella di Salvate il soldato Ryan: film di pattuglia, dove bisogna lottare contro il nemico e contro il tempo. L’originalità del film, perfetto nelle ricostruzioni d’ambiente, consiste soprattutto nell’uso totale del c.d. piano sequenza, una tecnica di ripresa cinematografica che non stacca mai la macchina da presa dalla scena, non ha montaggio a posteriori e crea un continuum narrativo insuperato. E’ stata usata da Alfred Hitchcock e dal regista ungherese Miklòs Jancsò e presuppone un controllo completo dei movimenti di macchina e della struttura sequenziale delle scene. Qui la tecnica viene portata alle sue estreme conseguenze, seguendo di continuo gli attori, senza neanche una scena di stacco. Altra caratteristica del film, lo slittamento continuo dal reale al simbolico, a spese della verosimiglianza: i due soldati avanzano da soli in una terra desolata per chilometri, dove i centri abitati somigliano a Pompei e fiumi, fuochi e gorghi ricordano l’Inferno di Dante. Non manca la poesia: l’incontro casuale con una giovane madre che accudisce una neonata non sua, la presenza quasi giapponese dei fiori di ciliegio e altri dettagli contribuiscono a proiettare la vicenda su un piano che va ben oltre il genere del film di guerra. Peccato che 1917 sia stato prodotto solo ora: due o tre anni fa, nel centenario della Grande Guerra, almeno in Italia avrebbe avuto un successo maggiore.
1917
di Sam Mendes
Con George MacKay, Dean-Charles Chapman, Mark Strong, Andrew Scott, Richard Madden
Il racconto dell’assedio di Khartoum da
parte del Mahdi e della resistenza operata da Charles Gordon. Una delle
pellicole più celebri del cinema inglese, incentrata sulla più grande
rivolta mai operata in Sudan.
Khartoum
1884: ad el Obeid, in Sudan, un esercito
di 10’000 soldati anglo-egiziani vengono uccisi dai ribelli fedeli a
Muhammad Ahmad, il neo proclamato Mahdi. La presenza di 15’000 cittadini
britannici a Khartoum, spingerà allora il governo britannico ad inviare
in Sudan il generale Gordon, eroe dell’Impero che già si era occupato
del paese. La sua missione appare però fin da subito disperata e
l’inglese si darà un gran da fare per potenziare al meglio le difese,
riuscendo a far circondare completamente la città dal Nilo.
Un colloquio con il Mahdi risulterà pieno
di stima ma privo di sostanza, rendendo chiaro a Gordon che la fine è
ormai vicina. A questo punto il condottiero britannico non potrà far
altro che sperare in un aiuto in extremis, mentre tenta di far risalire
ai suoi concittadini il corso del fiume.
Eroe britannico
Il film, uscito nelle sale nel 1966, narra
la caduta di uno dei più celebri eroi dell’Impero britannico, Charles
Gordon, caduto infine proprio durante tale assedio. La celebrazione a
tale personaggio sarà la chiave portante di tutto il film, trasponendo
esattamente l’idea che avevano gli inglesi sia di questa battaglia che
del loro ruolo nel mondo. Il “buono” è l’europeo venuto a “civilizzare”
in Africa, non l’africano a cui la terra è stata sottratta.
Gordon e il Mahdi
Va detto che la figura del Mahdi, per
quanto non compresa, viene comunque rispettata durante tutto il film.
Tuttavia, anche se a vincere saranno poi i locali, il focus non sarà mai
sugli indigeni e sulle loro motivazioni continuando ad essere una
celebrazione di Gordon e dell’Impero.
L’ultima vittoria del Mahdi
La pellicola resta però estremamente interessante per la presenza di questo personaggio, simile, sotto moltissimi aspetti, a Lalla Fatma n’Soumer.
Con la condottiera algerina, infatti, condividette sia la presunta
vicinanza a Dio, sia un’incredibile abilità militare. Il Mahdi, in arabo
“il ben guidato/il messia”, fu anche in grado di concludere da
vincitore la propria campagna. A differenza della magrebina non venne
mai sconfitto, cadendo, probabilmente per tifo, pochi giorni dopo la
vittoria di Khartoum.
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