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Allah, la Siria, Bashar e basta?

– di Christian Elia –
Vent’anni di vita custoditi in un racconto

Solo oggi, dopo più di sette anni, si iniziano a leggere testi che davvero riescono a riguardare ai fatti dell’insurrezione in Siria del 2011 contro il regime di Bashar al-Assad con la lente della complessità e della competenza.Non che prima non siano state scritte cose degne di nota, anzi, ma inizia a esserci la distanza naturale per uno sguardo complesso, profondo. Non è ancora un bilancio, perché se sul piano militare (eccezion fatta per la ridotta di Idlib e per alcune enclavi ribelli) gli alleati di Assad hanno vinto, su quello politico e delle conseguenze il caso Siria non ha per nulla finito di riguardare la regione.

Alberto Savioli, archeologo, è uno di quelli che le cose degne di nota le ha sempre scritte, ma la pubblicazione del suo libro Allah, la Siria, Bashar e basta?, edito da Biancaevolta, è una di quelle riflessioni importanti, che mette assieme gli anni di vita personale, professionale e della rivolta. Storie piccole e grandi, intrecci, che solo chi ha frequentato la Siria fin dalla fine degli anni Novanta può fare.

Perché uno dei prezzi salati che il racconto delle rivolte arabe ha pagato è quello di tanti, troppi, che solo dal 2011 hanno iniziato a occuparsi di Siria (quando non proprio di Medio Oriente in generale) e, anche ponendosi con le migliori intenzioni di fronte a questa catastrofe umanitaria senza precedenti, han finito per non avere gli strumenti per mettere i fatti in connessione.

Non c’è bisogno di pensare a coloro che, spesso in cattiva fede, ma anche in buona fede, hanno scelto di tifare per una parte o per l’altra; bastano coloro che hanno ritenuto di potersi fare un’opinione guardando alle conseguenze di un processo politico, culturale, economico, storico che ha le sue radici – per certi versi – nel collasso dell’Impero Ottomano.

A Savioli si deve riconoscere l’onestà intellettuale e la curiosità, di chi ha vissuto per anni la vita quiotidiana di quell’inganno per i visitatori che è stata la Siria per molti anni. Inganno al quale anche Savioli non finge di non aver creduto. Eppure di inganno si trattava. 

Solo chi ha frequentato la Siria poteva conoscere quella ‘repubblica della paura’ dove oltre quindici agenzie di intelligence si spartivano il mercato della morte, della tortura, della delazione. Il cui nume tutelare è il criminale di guerra nazista Alois Brunner, ospitato e protetto dal regime a Damasco fino alla sua morte.

Un viaggio che, da professionale e personale, diventa storico. Passando per le tappe chiave della storia recente del Medio Oriente. Da quelle globali, note a tutti, come l’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo, passando per l’invasione dell’Iraq del 2003 e l’omicidio di Rafik Hariri a Beirut nel 2005.

Ma passando anche per la grande siccità che dal 2005 al 2008 ha lasciato senza sostentamento masse contadine che si riversavano nelle grandi città, per le liberalizzazioni scellerate in economia dell’idolo dei rossobruni anticapitalisti: il dottor Assad.

Ad una narrazione ‘alta’, Savioli accompagna sempre un vissuto fatto di comunità beduine, piccoli villaggi, pastori e contadini. Un osservatorio privilegiato di quella crisi economica che, negli ultimi anni prima della rivolta, si è saldata alla violenza come sistema di governo di Assad padre prima e di Assad figlio dopo.

Della Siria non puoi capire nulla se non conosci le speranze della società civile al momento dell’elezione di Bashar al posto del defunto padre, che invece (il grande amico della Palestina) aveva massacrato 3mila profughi palestinesi in Libano, nel campo di Tall’Zatar in Libano – solo per stroncare l’influenza politica di Arafat – nel 1979, o che aveva massacrato non meno di 40mila civili a Homs, per punire la rivolta islamista, in un decennio che portò a scomparire nel nulla circa 17mila persone.

Il figlio, giovane, educato in Occidente, aveva rappresentato una speranza. Il Manifesto dei 99, che chiedeva solo la fine dello stato di emergenza e libertà civili e politiche, stroncato con arresti e botte. E il giovane Assad, campione del laicismo per molti sui ammiratori, è al timone mentre lo stato profondo siriano, nella persona di Alì Mamlouk, organizza i viaggi in Iraq dei combattenti.

Il campione degli anti-imperialisti che, nel 2005, dopo Hariri, fa assassinare l’intellettuale Samir Kassir a Beirut e molti altri, per non perdere l’influenza siriana sul Libano. O che arma nel 2007 Fath al-Islam, il gruppo di Shaker al-Absi, giordano palestinese detenuto in Siria fino al 2005 e poi mandato nel campo profughi di Nahr al-Barid per destabilizzare il Libano.

E non lo dice Savioli, o qualche think tank di Washington, ma Abd al-Halim Khaddam, ex vicepresidente siriano, o il generale Manaf Tlas, alto papavero militare del regime.

Una storia lunga, che ricorda quella di tanti attori regionali, che con il fondamentalismo hanno giocato a seconda dell’agenda politica, senza volutamente pensare alle conseguenze.

Savioli, con la precisione di chi è abituato a maneggiare nomi e date, mette assieme. Mette assieme la figura di Abu al-Qa’qa’, una di quelle figure di islamista radicale passato dalle carceri di Saydnaya, Tadmur (Palmira), Mazza, Adra, per poi essere ritirato fuori quando faceva comodo.

Perché questo regime, campione del laicismo, ha lasciato andare tra il 2011 e il 2012 tanti di quelli che poi sarebbero diventati i ‘tagliagole’ che l’Occidente ha accettato di combattere sulla pelle di persone che nessuno vi racconta.

Mazin Darwish, Michel Kilo, Riyad al-Turk, Mash al-Tammu, Burhan Ghalyun, Anwar al-Bunni, il dentista Ahmad Tu’mi, il fisico Fida’ al-Hurani, lo scultore Talal Abu Dan, Alì Ferzat, vignettista satirico, il cantante Ibrahim Qashush, Yahya Sharbaji ,Gghiyath Matar, Muhammed Dibu, Abu Maryam, Abdulla Yasin e i ragazzi di Raqqa is being Slaughtered Silently, come Raqayya Hasan, Razan Zaytuna.

Il regime aveva loro come veri nemici. Le anime disarmate della rivolta che, come lo stesso Assad ha ammesso più volte, più o meno fino alla fine del 2011 è rimasta non violenta e che anche dopo ha provato forme di autogoverno e di democrazia, ha provato a lottare contro Daesh e gli altri.

A Savioli va il merito di aver aggiunto, grazie al suo percorso, un’analisi attenta del fattore beduino nella storia di una frontiera che esiste solo nei disegni coloniali prima e nazionalisti poi. Di aver raccontato, da testimone diretto, gli effetti della siccità e della scriteriata politica economica di Assad, senza mai cadere in descrizioni edulcorate o innamorate dell’una o dell’altra parte.

Ma anche e soprattutto, a Savioli, va il merito di aver tenuto memoria delle storie di chi ha solo inseguito un sogno, per non dimenticarli e per non ucciderli di nuovo, per non lasciare al regime anche la possibilità di riscrivere la storia.

Pubblicato 26 luglio 2018
Articolo originale
dal Q Code Mag

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Allah, la Siria, Bashar e basta?
Alberto Savioli
Editore: Bianca e Volta, 2018, pp. 680
Prezzo: € 18,00

EAN: 9788896400395

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Marocco: tra opere faraoniche e rivolte berbere

Il paese di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici

di Ilaria De Bonis

Il Marocco di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici. Architetti di fama internazionale e finanziatori cinesi fanno a gara per attribuirsi la paternità delle Grandi opere. Mentre nel Rif berbero non si placa la rabbia del movimento Hiraq. Come convivono baraccopoli e parchi industriali? Pescatori poveri e super lusso? Questo è un ‘grande salto’ dalle bidonville di Casablanca ai villaggi del Rif, dal Mall più grande d’Africa alle coste berbere.

Morocco mall a Casablanca

Col suo perimetro elicoidale, tre piani di megastore su 250mila m² di superficie, palme vere e un gigantesco acquario (40 specie di pesci), il Morocco mall di Casablanca è il secondo centro commerciale più grande d’Africa.

Un transatlantico Dubai style in pieno deserto. Sale ristorante da mille e una notte, più di 600 brand di gran lusso. Cinema multisala. Camere d’hotel, hall per i ricevimenti.

L’architetto che l’ha ideato è italiano e si chiama Davide Padoa. Ha firmato anche altre opere faraoniche con la Design International: è suo il Cleopatra Mall de il Cairo per i turisti del Golfo.

“Il sito per il Mall di Casablanca presentava già una forma allungata – racconta Padoa, ricordando di come dal deserto delle corniche marocchine ha avuto per la prima volta ‘la visione’ a forma di otto – Così ho immaginato qualcosa di cui si potesse vedere l’inizio ma non la fine. Mi è venuta l’idea di disegnare una facciata curva e lunga, dove il centro della curva è lontano dal mare, e camminando lungo l’edificio non vedi la fine”.

Lui la chiama ‘idea filosofica dell’infinito’. Ma di infinito questo transatlantico su terra ferma possiede soprattutto l’impronta ecologica.

Tuttavia le trovate dell’architetto dal gusto ‘emirico’ sono perfettamente in linea con gli sfarzi architettonici di un Marocco che vuole stordire i sensi.

Modificando anche la skyline delle città imperiali. I nuovi materiali vanno dal cemento ai marmi alle plastiche. “Conobbi Re Mohammed VI ad un evento privato – ci racconta Padoa in una intervista – organizzato da Madam Selwa Akhannouch, durante la fase conclusiva del progetto. Per il gruppo Aksal abbiamo in seguito progettato altri tre mall, uno a Rabat, uno a Marrakech e uno a Tangeri. Ma Aksal è tuttora alla ricerca di finanziamenti per poterli sviluppare”.

Padoa insiste sull’estetica: “Sono stato profondamente colpito dalla ricerca del bello della signora Selwa, e dalla sua sete di design di qualità”.

A fargli compagnia, nel firmamento delle archistar amiche, c’è Rachid Andaloussi, che firma CasArt, il nuovo Teatro a Casablanca, il più grande del Marocco. Sorge su una superficie di 25mila m2 e lo spazio all’aperto può contenere 35mila persone.

Le sale interne sono tre e quella degli spettacoli teatrali ospita 1800 persone. Niente a che vedere col Mall: il teatro di Casablanca si ispira comunque ad altri criteri.

Predominano il bianco, il legno, le terre. Gli architetti parlano di «un dispositivo scenografico urbano trasformabile”.

Eppure la città è completamente trasformata rispetto agli anni Novanta. Distrutte alcune icone architettoniche (come la villa Mokri e il teatro municipale). Costruiti hotel, parchi industriali e torri. A ribadire la grandezza del regno.

“L’organizzazione delle nostre città racconta quello che siamo, come condividiamo il nostro spazio. E che tipo di cittadini saremo un domani – spiega la scrittrice marocchina Leila Slimani – E’ evidente che la cultura popolare ha abbondonato le città in Marocco. I soldi, il consumo, l’ostentazione sono diventati i principali svaghi”.

A goderne sono soprattutto i molto ricchi e le classi medio-alte. Mentre nelle bidonville di Casablanca e Rabat le famiglie vivono ancora in cubetti di muratura e lamiera.

Largo ai sino-marocchini

Ma chi finanzia tutto lo sfarzo delle grandi opere? Mohammed VI ha stretto già da qualche anno un sodalizio finanziario abbastanza solido con banche e mecenati cinesi.

Il sito istituzionale di Morocco World News non manca di segnare la cronaca di ogni stretta di mano con il partner asiatico.

Come quella che ha portato a progettare, per un miliardo di dollari, ad est di Tangeri, una nuova città imperiale completamente high tech: “Il progetto si estende su 2mila ettari di terreno, oltre all’area residenziale collegata alla ferrovia e ad una rete di autostrade. Tra i primi progetti industriali previsti ci sarà quello dei bus elettrici e delle componenti aeronautiche”.

La mania dei mega-parchi industriali (ancora sulla carta però) sembra contagiare l’intero Nord Africa che si ‘golfizza’.

Ed appare anche la risposta più immediata del Re di Rabat alla povertà di zone a lungo trascurate come quella del Rif berbero.

“La Tangier Tech City di Mohammed VI sarà realizzata tramite un accordo con la Regione di Tangeri -Tetouan Al Hoceima, e il gruppo cinese Haite e la Bmce bank», afferma il ministro dell’industria e del commercio Moulay Hafid Elalamy.

In realtà queste opere hanno un dubbio impatto ambientale e un incerto effetto moltiplicatore del reddito.

Dalla povertà estrema e dal disagio dell’isolamento – come denunciano i pescatori poveri di al-Hoceima dopo la morte di Muchine Fikri – non se ne esce con i finanziamenti miliardari diretti all’industria e al turismo elitario.

Ma con la pazienza certosina delle cose ‘piccole’. Degli investimenti in scuole, ospedali, elettricità e piccole attività artigianali. Col microcredito, la promozione dei mercati e delle attività locali. E soprattutto con la formazione e l’istruzione dirette ai più giovani.

La strategia cinese invece punta ad altro. Sta ridisegnando le città africane (e anche i villaggi) con lo stesso criterio che ha adottato in patria. Ossia: trasferire la gente dalle campagne alle periferie.

“Negli ultimi nove anni – scrive l’Herald – la Cina ha pubblicato due documenti che spiegano la sua strategia in Africa. Pechino fa chiaramente sapere che non è interessata ad interferire con la politica interna degli Stati africani ma ha due priorità: la modernizzazione agricola e lo sviluppo industriale”.

Le grandi opere e il turismo d’elite si inseriscono in questo quadro.

In Marocco le periferie povere, come Sidi Moumen a Casablanca, restano grosso modo dove erano. Però tutto attorno crescono strade, autostrade e infrastrutture.

Questa modernità che costa, stride con la semplicità della vita rurale o periferica.

“Nei quartieri svantaggiati assistiamo ad una crescita folle, ad una vera follia speculativa e immobiliare”, spiega ancora Leila Slimani. “Gli edifici venuti su dalla terra, arrivano fino all’Oceano (il riferimento è appunto al Morocco Mall ndr.), la pianificazione territoriale de la corniche, la ferrovia e la ristrutturazione dei parchi, la creazione di tunnel e la riabilitazione della medina, lo sviluppo di enormi centri commerciali: la città cambia faccia ad un ritmo folle”.

Trappole per topi in bidonville

Molti altri mondi, quelli delle periferie dolenti, sono lasciati a se stessi, nascosti e invisibili agli occhi; sono le bidonville appena fuori città o ai suoi margini.

Come Al Manzah, tra le 500 baraccopoli di Casablanca. “Sovrastate da palazzi alti cinque piani, le famiglie vivono schiacciate dentro quelle che sembrano delle gabbie di legno per conigli ricoperte da lastre di metallo all’altezza delle loro teste. Il percorso, a tratti, è così stretto che siamo costret¬ti a camminare in fila indiana mentre ci facciamo largo tra i rampicanti sparsi un po’ ovunque”, scrive Andrew Connelly per Cafè babel.

“Nonostante il governo affermi che ci sia stato un ‘significativo progresso’ nella bonifica dei bassifondi – scrive Connelly – si stima che, solo a Casablanca, ci siano ancora più di 111mila famiglie stipate in oltre 500 baraccopoli. Se un giorno una rivoluzione prendesse piede nel paese, i distretti come Sidi Moumen sarebbero il focolaio della rivolta”.

Il 16 maggio 2003 Casablanca venne mutilata da un attentato kamikaze multiplo ad opera di cinque ragazzi tra i 20 e i 25 anni. Che ne feriscono la terra, le coscienze e i sogni. I protagonisti di quest’atto terroristico che uccide 41 persone è rivolto contro i simboli dell’Occidente.

I kamikaze vengono tutti da Sidi Moumen, agglomerato di baracche in lamiera e legno o muratura, a ridosso di un’enorme discarica. Fetidi effluvi e immondizie disseminate ovunque. Puoi non vederli se sei in città. E della città puoi non accorgerti se sei dentro Sidi Moumen.

“Potevi passeggiare per il nostro quartiere senza nemmeno accorgerti che esisteva. Un alto muro merlato in terra battuta lo separa dal boulevard dove un flusso ininterrotto di macchine fa un rumore infernale. In quel muro avevamo cavato fessure simili a feritoie dalle quali potevamo contemplare a piacere l’altro mondo”.

Inizia così Il grande salto, bellissimo romanzo di Mahi Binebine, ambientato per l’appunto a Sidi Moumen. Lo scrittore immagina di penetrare nelle vite e nei sogni dei protagonisti di quell’azzardo verso la morte. Che distruggerà alcune vite, oltre alle proprie.

E così si dipana la storia – a tratti commovente, lucida, intima – di Yashin (che racconta in prima persona), Nabil, Hamid e gli altri.

Sono le stelle di Sidi Moumen, un giorno reclutate dagli emiri (fondamentalisti islamici che li seducono e li spingono alla morte).

L’autore tradisce una conoscenza non solo dei luoghi, ma delle dinamiche sociali e psichiche: un preziosissimo indizio per interpretare tutti ‘i grandi salti’. Anche quelli delle città europee, tra giovani radicalizzati e in cerca di Paradiso. Istruiti a distanza tramite internet e i social.

In ogni bidonville che sia vicina o lontana dall’Europa, si fa l’abitudine alla barbarie. Alla bruttezza fisica, estetica e morale. E’ un’abitudine anche alla morte e alla violenza. Perché porta con sé la normalità della mancanza di dignità.

Però è anche un’occasione di condivisione e amicizia. Di destini comuni. Per i ragazzini, i giovani senza famiglia e quelli che hanno famiglie spezzate, la baraccopoli è destino collettivo. Su questo fanno perno i progetti di sviluppo rivolti alle periferie marocchine.

E su questo fanno perno pure i seminatori di morte. Sono due forze educative in concorrenza che puntano allo stesso obiettivo: i piccoli.

“Il miracolo di Sidi Moumen – dice il protagonista de Il Grande Salto – è la strana facilità con la quale ci si adattano i nuovi arrivati. Provenienti da campagne inaridite e da metropoli voraci, cacciati da un potere cieco e dai benestanti sanguisughe, scivolano nel calco di una rassegnata disfatta, si abituano al lerciume, si spogliano della loro dignità, imparano a cavarsela, tirano a campare”. Ma anche: «nonostante la fame dispieghi i suoi tentacoli, serrandogli il collo fino a soffocarli, a Sidi Moumen non uccide, perchè la gente divide ciò che possiede. Perché le persone misurano a vicenda la loro comune disperazione”.

Parola ai ribelli del Rif

E la disperazione più grande, oltre alle baraccopoli del Marocco più centrale, sta nel nord berbero. Da sempre trascurato.

Lo scorso 24 ottobre il re ha licenziato tre ministri per via dei ‘ritardi’ nello sviluppo dell’area del Rif, che da un anno esatto è in protesta permanente. Si tratta evidentemente di un capro espiatorio per placare gli animi dei rivoltosi. Ma non basta a fermare il movimento Hirak.

Nawal Ben Aissa è diventata un po’ la portavoce ufficiale del movimento sociale spontaneo hirak, da quando l’altro leader carismatico Nasser Zefzafi è stato arrestato con l’accusa di sobillare il popolo e dividere la comunità islamica.

Trentasei anni e quattro figli, capelli biondi e lisci, niente velo, Nawal è l’eroina del Rif. Sulla sua maglietta bianca è ritratta l’immagine dell’eroe degli anni ’20: Abdelkarim e-Khattabi.

Le forze dell’ordine al soldo di re Mohammed VI, che con l’arresto di Nasser e di molti altri pensavano d’aver interrotto il crescendo di contestazioni, si ritrovano tra le mani un osso ancora più duro.

Gli attivisti di hirak (sostanzialmente gli abitanti berberi dei villaggi, dagli studenti ai pescatori; dalle donne con figli ai blogger ai disoccupati) dal 28 ottobre scorso (giorno della morte del pescatore Mouhcine Fikri) riempiono le piazze con le loro rivendicazioni.

Chiedono “sanità, scuola e acqua. Cibo e case”. Il movimento nasce spontaneamente subito dopo la morte di Mouhcine, rimasto rimane stritolato dai meccanismi del veicolo della nettezza urbana.

Da quel momento in poi è stata guerra aperta nel Rif. Gli altri pescatori e poi tutti gli abitanti del villaggio ogni giorno manifestano contro un governo che chiamano ‘corrotto’. E’ come se si fosse aperta una voragine e data la stura al risentimento popolare.

Il re è nudo. L’imam pure

Sono due le parole forti che stavolta accendono gli animi delle fazioni in Marocco. Una è la parola fitna (che sta per dissenso, litigio o anche scontro teologico). E’ l’accusa rivolta dal re a Nasser Zefzafi e agli altri ribelli di hirak.

Vuol dire molte cose questa parola e soprattutto colora la rabbia di una sfumatura religiosa. I rivoltosi di hirak non risparmiano infatti le critiche agli imam. Sono molto religiosi anche i ribelli. Basti pensare allo stesso Nasser che per certi versi è di un tradizionalismo quasi talebano.

Ma il loro integralismo li porta a contestare in moschea gli imam che pensano che le moschee “siano più di Dio che dei poveri”, come ha gridato Nasser Zefzafi alla folla poco prima d’essere arrestato.

Contestano un’autorità, quella del re, che per statuto sarebbe discendente di Maometto ma che, dicono loro, fa solo i propri interessi.

Per i berberi del Rif un re che non guarda al bene dei suoi sudditi e un’autorità religiosa che predica senza tener presente le reali richieste della gente povera, non sono “rispettabili” da un punto di vista coranico.

Ed ecco che si tirano addosso l’accusa di fitna. Nasser Zefzafi critica il makhzen, l’amministrazione reale, e fa da stimolo all’identità rifaine attraverso video postati su facebook.

Il governo marocchino lo accusa di mettere «a repentaglio l’integrità territoriale del Paese e di ricevere fondi dall’estero per i suoi scopi». Questa loro rivendicazione è molto azzardata, rischiosa. E nuova.

Ma è anche un’arma a doppio taglio. Perché consente al governo di metterli più facilmente sotto accusa.

“Quando i manifestanti reclamano ospedali e scuole e attaccano la corruzione governativa, le autorità marocchine difficilmente possono fermarli. – spiega Pierre Vermeren, ricercatore dell’université Paris-I-Panthéon-Sorbonne – Ma l’accusa di fitna invece può consentire allo Stato di intervenire. Dice implicitamente che i rifaine sono dei cattivi musulmani, corrotti da un islam rigorista”.

Non lascia indifferente un credente islamico questa onta di dividere e sostanzialmente creare malumori e rotture all’interno della comunità dei credenti.

Imzouren: città fantasma dopo il terremoto

Ma c’è quell’altra specialissima parola che è hogra. Umiliazione. E i ribelli la usano assai spesso.

E’ l’umiliazione subita storicamente dal Rif prima negli anni di rivolta anticoloniale e poi subito dopo, con una monarchia (quella di Hassan II) che ha sempre marginalizzato e non amato questa regione del nord berbero.

Hogra che è andata avanti fino al 2004, quando un terremoto ha distrutto parte della cittadina di Imzouren, e ucciso 600 persone e però non ha mai visto una seria ricostruzione.

Hogra del 2011 con la primavera marocchina, messa a tacere da un re riformista che ha prontamente prodotto una Costituzione per certi versi più garantista della precedente.

E infine la hogra dei pescatori poveri del 2016. Il ribelle ventiduenne Nasser dice: “Noi abbiamo tre cose sacre: dhamwath, dhamghath, dhasghath», ossia la nostra terra, le nostre donne e i nostri diritti.

E questi ultimi sembrano proprio messi da parte. Ma l’umiliazione non è solo quella di Al Hoceima. C’è anche Imzouren che fa appello alla sua Storia e non è più disposta a subire.

Cittadina piccola e arida, che sorge a quindici chilometri da Al Hoceima. Negli ultimi mesi le proteste si sono estese anche qui, sebbene la stampa ne abbia parlato meno.

La foto simbolo di questo villaggio-fantasma è lo scheletro di un ospedale. Quello che dal 2004 avrebbe dovuto essere portato a termine e invece è rimasto fermo. Come un segno indelebile. Ne parla la stampa locale, tra gli altri il Courrier Picard e Desk, che dedicano dei reportage ai moti di giugno.

I giovani manifestanti si fanno ritrarre davanti alla carcassa del grande ospedale mai terminato: «è così da tantissimi anni», dice Mohammed, poco più che ventenne. I lavori sembrano essersi arenati. Fermi ad un punto morto. Il bianco della facciata nel frattempo è diventato grigio.

Ricordando la toponomastica di questo villaggio di 40mila persone i giornali scrivono che “è un aggregato di costruzioni cubiche disperse all’interno di un paesaggio roccioso ai piedi delle montagne”.

Ed in effetti guardando i video postati su youtube e le foto, Imzouren somiglia davvero ai martoriati centri abitati di certi Paesi arabi bombardati.

Una città fantasma, un po’ per via del terremoto di 13 anni fa che l’ha rasa al suolo, per vedere ricostruita in fretta e furia solo la periferia trasformata in bidonville; un po’ perché i suoi abitanti in effetti sono emigrati in gran parte nei Paesi Bassi decenni fa.

“Qui noi rifiutiamo l’umiliazione”, dice il militante Nabil. “Il sangue di Moulay Mohand scorre ancora nelle nostre vene”.

Eccolo di nuovo evocato Moulay Mohand, ossia Abdelkarim e-Khattabi, a capo dell’armata insurrezionale del Rif che nel 1920 sconfisse l’invasore spagnolo. Quest’uomo è ancora l’eroe dei berberi. Le magliette indossate dall’alter ego donna di Nasser, lo dimostrano.

E’ vivo e vegeto nei loro discorsi e negli slogan di piazza. E’ l’uomo che sconfisse l’umiliazione e che riscattò un popolo. Anche se poi quel popolo subì un’atra sconfitta.

Vittoria ed eredità delle Primavere

Il timore numero uno di Mohammed VI è che questi moti siano manipolati dall’esterno.

L’ossessione dei re (e dei dittatori) infine è sempre la stessa: colpo di Stato, rivoluzione, e nel caso di quelli del Nord Africa, complotto internazionale. Deposizione. Sovvertimento dell’ordine. Cambio di regime.

Ma ci sono ragazzi accusati anche di altri reati come Ilyas Moutaoukil. La cui storia è raccontata da Liberation che intervista l’avvocato Rachid Belaali, 54 anni.

“L’avvocato punta il faldone rosa più voluminoso. E’ il dossier di Ilyas Moutaoukil. Perché lui? E’ un’artista di 32 anni, vicino a Zefzafi, fa teatro, si occupa di fotografia. Non ce ne sono molti come lui ad Al Hoceima”.

È perseguito per “incitamento a commettere crimini”. Tra gli arrestati infatti ci sono persone comuni. Ci sono blogger. Artisti. Semplici studenti. Disoccupati. E li si spaventa in ogni modo. Ma loro resistono e soprattutto non cedono alla tentazione della violenza. Questa è un’eredità delle Primavere.

Forse è anche la certezza che se reagissero a rimetterci sarebbero i primi.

La ribellione del Rif è anche la dimostrazione del salto di qualità compiuto da un popolo insoddisfatto: nel 2003 Sidi Moumen aveva reagito all’umiliazione producendo kamikaze. Nel 2016 e 2017 Al Hoceima reagisce alla hogra producendo ribellione. Senza violenza e senza esplosioni.

Certamente i giovani di Al Hoceima, pescatori poveri come Mouhcine Fikri, conducono vite meno disperate di quelle delle Stelle di Sidi Moumen.

Strette dentro confini angusti che non lasciano spazio alla redenzione. Però hanno anche fatto una scelta consapevole di civiltà. Coraggio che non può non essere messo in continuità con il significato epocale delle Primavere arabe.

Quei moti di piazza, con l’epilogo che sappiamo, sono tutt’ora uno spartiacque eccezionale. Dalla paura alla redenzione.

Dalla rabbia cieca alla richiesta lucida. Dalla visione di un futuro nero al coraggio di dire no per un futuro più sfumato. E di rivendicare con le parole.

I giovanissimi di Sidi Moumen non avevano alternative che gli emiri (i fondamentalisti che li iniziarono al suicidio terrorista) per uscire dalla fogna. Oggi, quelli delle regioni berbere e anche delle bidonville cittadine, hanno un orizzonte meno oscuro davanti.

E’ l’eredità più grande e vincente lasciata dai compagni tunisini, egiziani, yemeniti, siriani.

Oggi i ragazzi che hanno fatto quest’altro salto, assaggiando il gusto della sana rivolta di piazza, sanno che dall’altra parte non li aspetta il vuoto.

Spesso c’è la morte (non voluta e non ricercata però). Ma ancora più spesso li attende la visione del “re nudo”. Che toglie sacralità al monarca e rende tutta la bellezza del reclamare a pieno diritto la giustizia a lungo desiderata.

tratto da Q CODE Magazine
del 04/11/2017

Damasco, il viaggio che non si può più fare

Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.

di Costanza Pasquali Lasagni

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare

È un viaggio che inizia alla stazione degli autobus di Charles Helou, a Beirut, sotto un lurido cavalcavia in mezzo al traffico e alla polvere, all’altezza di Gemmayzeh.

I pulmini sono ordinati per destinazioni, e attendono scientemente di essere pieni per poter partire. Il nostro, destinazione Damasco, è lì che ci attende. Decidiamo un viaggio VIP, cioè in un pulmino nuovo, con l’aria condizionata, e al massimo una decina di posti, per una decina di dollari ben investiti. È il fine settimana di Pasqua del 2010, e in Medio Oriente il caldo già si fa sentire.

Alla frontiera siro-libanese, Masna’a, ci mettiamo in fila per fare il visto per la Siria, dieci dollari, e pochi minuti di attesa, perché siamo italiane. Un gruppo di backpackers americani attende da ore, e il loro visto costa molto di più. Ci scambiamo un’occhiata solidale e ringraziamo mentalmente di essere cittadine di uno stato la cui politica estera è senza spina dorsale. A volte, come in questi casi, può essere utile. Stessa fazza, stessa razza.

In tre-quattro ore siamo alle porte di Damasco, il pulmino ci lascia a Sulemanye, la vecchia stazione degli autobus, e prendiamo un taxi che per meno di un dollaro ci porta a Bab Touma, la porta orientale della città vecchia.

È un sogno che si avvera.

Nei vicoli del quartiere cristiano troviamo con fatica – queste bellissime porte sembrano tutte uguali – la nostra casa. C’è il cortile in stile omayyade, la fontana in mezzo, il cortile coperto. Come in un libro di Khaled Khalife. È una casa di studenti, in Siria prima della guerra ci si veniva a studiare l’arabo, da tutto il mondo, e i nostri compagni di casa sono inglesi, pakistani, indiani, oltre che siriani.

Una porta damascena

Le case damascene si sviluppano attorno al cortile centrale, e nei piani superiori ogni stanza è un microcosmo. Ci si ritrova poi nel cortile, nella parte coperta per proteggersi dal sole del giorno o dall’umido della notte, per le chiacchere serali, un bicchiere di arak, un tè zuccherato. Si parla di sogni, viaggi, lezioni di arabo.

Pochi anni dopo, tutto questo sarebbe finito, infranto, rotto, come uno specchio scagliato via con violenza.

La notte è viva a Damasco, specialmente a Bab Touma, il quartiere cristiano. Ma a Damasco si sta tutti insieme, cristiani con musulmani, l’aria è leggera, il gelsomino diffonde il suo profumo tra i vicoli, si respira l’odore dolciastro dei narghilè, e ci tuffiamo a Beit Jabri per assaggiare le mezze più buone del medio oriente, con i chicchi di melograno che colorano il babaghannouj, i camerieri di una gentilezza estrema, e il gruppo di oud che suona in sottofondo. Poco più avanti verso le mura, il ristorante Oxygène ha una terrazza vista città vecchia, ed è lì che si balla il giovedì sera, musica arab-pop sì, ma anche salsa e disco.

È un’iniezione di vita questa Damasco, ci perdiamo nel souq Hamidiye, quello coperto, dove trovi qualsiasi cosa, dai profumi ai merletti, dai chiodi ai broccati damasceni, ai vestiti da sposa. Quello del gelato Bakdash, crema di latte e scaglie di pistacchio, che ancora adesso è aperto e la fila si vede da fuori, anche se i pistacchi, che in tempo di crisi costano tanto, ora sono mischiati alle noccioline.

Nei negozi del souq Hamidiyeh si trovano vestiti per tutte le occasioni

Cercando cercando, scoviamo un hammam per donne, dietro il santuario sciita di Sayyda Rukayb. Bisogna seguire la strada, “doughry”, ci dicono i vecchietti a cui chiediamo aiuto, e poi ci sarà una tenda sulla sinistra. Bello nascosto da occhi indiscreti, non si sa mai. Scansiamo la tenda, scendiamo i pochi gradini, e si apre l’ennesimo universo magico. Il calore del vapore, i divani rialzati, la tazza di tè bollente che neanche sei entrata e già ti arriva in mano.

È il mondo delle donne, protetto da una tenda impenetrabile, che si ritrovano il sabato per fumare, bere il tè, chiacchierare, prendersi cura di sé.

Le signore dell’hammam, dalla pelle bianca e liscissima, ci guidano nelle stanze interne, tra i lavandini di pietra e le coppette di ottone, qui si fa lo scrub, qui invece il massaggio agli olii, lavanda, gelsomino, rosa damascena. C’è un’aria di festa, si canta e si balla, un gruppo di ragazze sta festeggiando una ragazza in procinto di sposarsi. Mai e poi mai avrei immaginato che anni dopo, nella stessa Damasco anestetizzata dalla guerra, le mie amiche avrebbero ritrovato quello stesso hammam, intatto, e organizzato per me la mia festa di addio al nubilato.

È finalmente la domenica di Pasqua, e Bab Touma è in festa. I bambini sono vestiti con il vestito buono, le chiese sono addobbate con festoni e palloncini, le bande di scout suonano le marce pasquali, i sacerdoti ortodossi e cattolici guidano le processioni tra le mura di pietra bianca e nera dei quartieri cristiani, i forni sfornano il pane di Pasqua, quello tondo con i semini di anice e il sapore dolciastro. A me la Pasqua è sempre piaciuta, si rinasce, ci si rinnova. Ci accodiamo alla processione, un corteo di persone che cantano e sorridono, salutiamo le persone che si affacciano dai balconi.

La moschea Omayyade vista dai tetti di Damasco

Per visitare la moschea Omayyade, dobbiamo seguire l’ingresso per le donne, dietro l’angolo, dove prendiamo in prestito un lungo e pesante abaya, nero o verde scuro, “coprite bene i capelli mi raccomando”, si premurano all’ingresso. Ora nel cortile della moschea non si può più sostare, né fare le abluzioni alla fontana centrale, per i famosi “motivi di sicurezza” che giustificano un po’ tutto in ogni parte del mondo.

Ma almeno la moschea c’è ancora, mentre ad Aleppo è solo un raggelante mucchio di sassi, guardati a vista da qualche soldato.

È lunedì mattina presto, il canto del muezzin ci accompagna mentre riprendiamo un taxi sgangherato che per il solito dollaro, ora il cambio è dieci-undici volte tanto, ci riporta alla polverosa stazione degli autobus, dove saliremo su un pulmino VIP che, una volta pieno, ci riporterà nella rumorosa Beirut.

La magia sembra finire, ma rimane addosso, come il profumo di gelsomino, e la speranza di un posto e una vita che ci auguriamo sopravviva, mentre già arrivano notizie infelici dai paesi vicini. È solo la primavera del 2010.

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare, ma che sogno di tornare a fare al più presto.

Per gentile concessione del magazine QCode
del 10/08/2017

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Chi è Costanza Pasquali Lasagni

Costanza, cervello da geopolitica e cuore da umanitaria, sta benissimo in mezzo ai conflitti, meglio se mediorientali. Per Q Code Magazine ha scritto I Diari Palestinesi.

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