Il Duce e la casta grigioverde

Il ruolo dei militari di alto grado nel Ventennio è stato spesso analizzato, ma senza che le loro biografie fossero strutturate in modo sistematico; ben venga quindi questo studio di un giovane storico militare, il quale inquadra le figure di ben 37 generali di Mussolini (di ogni tipo: politici, condottieri, burocrati, monarchici, fascisti) in una cornice complessiva che ne individua le diverse personalità, ma anche le costanti, alcune delle quali sono tuttora dure a morire. La guerra fu voluta dal Fascismo, ma avallata da generali in gran parte fedeli al Re. Perché di questo si tratta: la generazione degli ufficiali di S.M. che aveva vinto la prima G.M. si era chiusa in casta, mantenendo un esercito di caserma sovradimensionato, forgiando anche i nuovi quadri (alcuni dei quali provenienti realmente dalla gavetta) nella stessa mentalità, ostacolando le riforme e ben lieta di aderire al Fascismo – nato in fondo dalle trincee e ostile ai politici responsabili della Vittoria Tradita – ma profondamente fedele al Re, il quale riuscì a liquidare gli squadristi e a mantenere sempre ai vertici i generali piemontesi, come Badoglio e Cavallero, e figure carismatiche come Amedeo duca d’Aosta o il principe Umberto: eroe e diplomatico il primo, un complessato obbediente il secondo. Roatta e Bastico erano filofascisti, ma pur sempre ufficiali di carriera; che l’Esercito fosse del Re lo dimostra da solo l’8 settembre: i reparti che per tre anni avevano combattuto su cinque fronti si sfaldarono in poche ore perché la struttura era diventata acefala. Dal canto suo il Duce gestì bene l’immagine delle FF.AA., ma si guardò bene dal riformare la casta o modernizzare veramente lo strumento militare: i riformatori duravano poco; piuttosto, da un lato inserì ai vertici anche i suoi uomini (Balbo, Graziani, De Bono) e creò una serie di organi e comandi paralleli (vecchio vizio italico), in modo che la struttura di comando risultasse bilanciata e nessuno potesse realmente averne un controllo completo; è chiaramente un sistema figlio della politica e forse può anche andar bene in tempo di pace, ma è un suicidio in tempo di guerra. Guerra i cui obiettivi non furono mai strategici, ma politici, non ultima la concorrenza con la Germania di Hitler. Ma pure questa è una costante, visto che neanche oggi la politica estera italiana riesce a definire con precisione gli interessi nazionali. Lo storico inglese Denis Mack Smith ne Le guerre del Duce (1976) notava allibito che il Fascismo pensava solo alla guerra, ma non ha mai organizzato le risorse per farla bene. Tutti i generali e i gerarchi erano coscienti per primi delle carenze dello strumento militare e industriale, ma speravano in fondo di cavarsela a buon mercato e di mantenere comunque i loro previlegi economici e politici. Le divisioni binarie sono un esempio da manuale: passare da tre brigate a due per ogni divisione moltiplicò il numero dei reparti e dei comandi, aumentando le possibilità di carriera e mostrando un’immagine di potenza numerica, ma di fatto creando grandi unità deboli sul campo perché prive di riserve, malamente integrate dalle Camicie Nere. Ma se le guerre in Albania, Abissinia e Spagna erano conflitti limitati, dopo il 1940 il bluff non poteva più reggere, col risultato di diventare vassalli dei Tedeschi invece che comprimari, e di portare l’Italia a una rovina dalla quale non si è più rialzata, almeno come potenza regionale indipendente. Ma in questo disastro i generali italiani hanno avuto la loro responsabilità, accettando una guerra moderna ben sapendo di non essere preparati a combatterla in condizioni realistiche e su fronti troppo estesi. Quando poi la situazione è precipitata, hanno allegramente creduto di poter eliminare il Duce, fregare i Tedeschi e poter negoziare alla pari una pace separata con Alleati, come se Eisenhower fosse disposto a capire le doppiezze rinascimentali di Ambrosio e Badoglio o Kesselring fosse un cretino. Alcuni generali valevano sicuramente qualcosa sul campo – Messe, Gariboldi, Baldissera – come pure anche alcuni burocrati come Grazioli o Baistrocchi. L’insieme però è desolante: se Graziani e Balbo erano fascisti, gli altri non lo erano, ma nessuno di loro ha alzato la voce o ha sbattuto la porta davanti al Duce; se l’ha fatto, era tardi. Ma il prezzo l’hanno pagato i soldati, sia i caduti sul campo che i 600.000 internati in Germania. Quasi tutti i generali hanno poi riempito estesi memoriali per dichiararsi vittime del Fascismo o screditare i colleghi. Nessuno è stato mai estradato nei paesi dove aveva compiuto crimini di guerra. In più, l’8 settembre del ‘43 in troppi hanno abbandonato i soldati a se stessi. Quello che è peggio, per anni gli italiani avrebbero avuto scarsa stima dei propri militari, continuando il mito della Grande Guerra ma sorvolando sulla seconda o esaltandone le sconfitte (El Alamein p.es.). Purtroppo dopo la guerra gli Alleati si accontentarono di acquisire basi militari – ma questo lo dico io, non l’autore – senza incidere nella sostanza: mentre hanno riformato l’esercito tedesco, in Italia hanno ricostruito l’esercito che c’era prima, col risultato di modernizzarne la struttura materiale e la formazione dei giovani quadri, ma senza imporsi per cambiarne mentalità e abitudini. I partiti politici del dopoguerra dal canto loro non hanno mai espresso salvo rari casi gente competente in materia militare, quindi i vertici militari rimasero se non una casta, sicuramente un gruppo chiuso e autoreferente. L’industria continuò a condizionare le forniture militari e i sistemi d’arma; la burocrazia rimase sproporzionata, sottraendo risorse all’addestramento; la mentalità conservatrice dei quadri avrebbe cozzato più tardi con una società ben più avanti del suo esercito; le promozioni ai vertici di comando avrebbero risentito comunque degli equilibri di governo. In più, alcuni ex generali si lanciarono in carriere politiche di alterna fortuna e qualcuno ci prova ancora adesso. Ma in Italia i problemi vengono sempre da lontano.


I generali di Mussolini
Giovanni Cecini
Editore: Newton Compton Editori, 2019, pp. 538
Prezzo 12 euro

EAN: 9788822725844
ISBN: 8822725840


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