Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Gli Indifferenti 2.0

La guerra tra Russia e Ucraina tra le altre cose è caratterizzata da un’intensa attività di propaganda, ora evidente, ora più raffinata. Sul campo di battaglia non si capisce mai chi sta vincendo o chi rompe l’accerchiamento, del resto il fronte sembra quello della prima Guerra Mondiale e la guerra non può essere descritta in modo chiaro, sia pure al netto della propaganda. Nei social invece è un pullulare di pagine e gruppi tipo “La Russia non è il mio nemico”, “Italiani in Bielorussia”, “Io sto con Putin”, che uno può liberamente seguire. Neanche è detto che siano finanziati dal Cremlino, viste le mille sfaccettature della sinistra e destra italiana. All’interno degli interventi il tasso di informazione è basso: tanti elogi al presidente Putin, insulti a Zelensky, a Ursula von der Leyen, alla Metsola, alla Kallas e all’Unione Europea dei burocratii, ma tutto sommato poche sono le analisi politiche e poche le informazioni sulle società in questione. Alcuni interventi sono più articolati, ne cito uno per tutti:

“Incredibile come certi italiani, immersi fino al collo nei problemi del loro paese, trovino sempre il tempo di criticare il presidente della Bielorussia. Forse dovrebbero prima guardarsi attorno: pensioni da fame che non permettono di vivere, sanità al collasso con liste d’attesa di mesi, ospedali sporchi e affollati. Donne che la sera hanno paura di camminare da sole, aggressioni, furti, degrado ovunque. I trasporti pubblici sono un disastro, i giovani scappano all’estero, chi resta sopravvive tra tasse insostenibili, stipendi miseri e burocrazia folle. E questo sarebbe il “mondo libero”? Eppure proprio chi vive in un sistema allo sbando si arroga il diritto di giudicare un paese ordinato, sicuro e rispettoso. Parlano di dittatura ma accettano il caos e la paura come normalità. Prima di dare lezioni alla Bielorussia, certi italiani dovrebbero guardare al disastro in casa loro”.

Rispondendo a tono: non confondete l’amministrazione con la politica, pur essendo interconnesse. In Austria o in Finlandia ho trovato stazioni pulite, servizi efficienti e sicurezza per strada, eppure sono due paesi democratici gestiti da politici regolarmente eletti, con una fisiologica alternanza fra forze politiche rispettose della Costituzione. Un potere cristallizzato da troppi mandati crea comunque una casta politica preoccupata di consolidare la propria presenza nelle istituzioni politiche e sociali. Quanto alla democrazia, non può essere vista soltanto come una forza eversiva di equilibri sclerotizzati. Sicuramente la democrazia non può essere esportata, nel senso che devono essere prima poste alcune basi elementari per farla funzionare. Non basta indire elezioni, creare liste, mandare le ragazze a scuola e non arrestare più i giornalisti; la partecipazione popolare matura nel tempo, altrimenti si ripropone un sistema di clan che si spartisce il potere dietro una facciata democratica. Quanto diceva Plutarco è ancora attuale, proprio perché vedeva nella democrazia un sistema instabile ma dinamico e capace di adattarsi alla realtà, pur con tutti i pericoli di oligarchia o disinteresse popolare. E qui chi ha scritto quelle righe sopra citate fa capire di non avere interesse per la politica, purché gli venga garantita la sicurezza economica e sociale. Sono gli Indifferenti del 2000.

E-ditoria gonfiata

Su Facebook ogni settimana vengo invitato a seguire corsi di russo, di lituano, di finanza, ma soprattutto di self-publishing. Che a proporli sia una ragazza o un manager senza giacca non importa, tutti seguono più o meno lo stesso schema, presentato in stile romanzato o aziendale: “avevo un lavoro che non mi soddisfaceva e ora faccio tanti soldi da casa con un impegno di poche ore al giorno”. Ovviamente devi avere un buon collegamento, ma chi legge questi annunci è già attrezzato per questo. Ma andiamo avanti: si dice che non basta scrivere e stampare un libro ma bisogna venderlo (vero) e che serve metodo. E qui propongono sempre corsi online a pagamento con titoli altisonanti come “Da zero a bestseller”, presentati con la promessa di “profittevoli guadagni”, “challenge con premi reali” e altri americanismi. Ma c’è chi va oltre, proponendo di scrivere con l’AI una serie di libri anche essendo digiuni della materia trattata. Uno addirittura si vanta di aver scritto e venduto su Amazon un manuale di sopravvivenza senza averne la minima competenza. Passi per un libro di giardinaggio, ma perché mai dovrei avventurarmi in un trekking con un manuale simile? L’autore stesso ammette la propria ignoranza su una delicata materia tecnica e pretende di essere credibile, il che è surreale. E qui arriviamo alla soluzione del mistero: si sfruttano gli algoritmi di Amazon per mettere in prima linea i libri e si gonfia la scheda di recensioni vere o fasulle. Cito testualmente:

È un sistema testato, che si basa su numeri, non su chiacchiere..

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Più altre migliorie: copertina ridisegnata, grafica accattivante, “titolo ottimizzato su keyword ad alta domanda” (leggi: appetibile e comprensibile), descrizione scritta con tecniche di conversione (framework AIDA), pricing dinamico per attivare l’algoritmo entro i primi 7 giorni (leggi: politica dei prezzi). Insomma, il libro si vende se sai promuoverlo nel mondo 2.0, indipendentemente dalla sua qualità, il che significa gonfiare il mercato di libri fisici o e-book privi di un vero controllo editoriale. E Amazon che fa? Intanto nel marzo 2024 vince una prima causa civile in Italia sulle recensioni false che hanno tentato di agevolare la pubblicazione di valutazioni a 5 stelle sul portale di e-commerce (Tribunale di Milano). Poi la guerra contro i broker di recensioni false continua (fonte: ZonWizard.com): nel 2024, la piattaforma ha bloccato preventivamente oltre 275 milioni di recensioni sospette (!). In più si continua a portare in tribunale chi gonfia il panorama dell’e-commerce globale. I broker di recensioni a peso si presentano come attività legittime, operando attraverso siti web dall’aspetto professionale, canali social media e servizi di messaggistica criptata. Promettono recensioni a cinque stelle “garantite al 100% sicure”, offrono sconti per ordini in blocco e assicurano persino sostituzioni gratuite se le recensioni vengono rimosse da Amazon. Strategica a questo punto è l’alleanza fra Amazon e aziende come Better Business Bureau in azioni legali congiunte contro operatori di siti fraudolenti. Nel luglio 2025, le due organizzazioni hanno promosso la loro seconda causa congiunta, stavolta contro gli operatori di Skitsolutionbd.com, un sito che vendeva recensioni false non solo per Amazon ma anche altrove. Oltre alle azioni legali, Amazon investe in tecnologia avanzata per combattere le recensioni false alla fonte, utilizzando sofisticati modelli di machine learning che analizzano migliaia di punti dati prima che una recensione venga pubblicata. Le recensioni false non sono solo un problema di Amazon, ma una minaccia per l’intero sistema della fiducia online. Il mercato non ha bisogno di brutti libri, ve n’è già in abbondanza.

Confini (2)

Uno stato palestinese? Va bene, ma con quali confini? E’ chiaro che un eventuale riconoscimento della Palestina resta un’enunciazione di principio, ma se divenisse realtà quali sarebbero i suoi confini, vista poi la continua, progressiva espansione di Isreale, i cui confini originari del 1948 furono definiti “uno schizzo di Picasso”? E allora che dire dei confini della Croazia nata dalla dissoluzione della Jugoslavia? Il suo baricentro è esterno, sta in Bosnia-Erzegovina. Questa strana conformazione della Croazia deriva chiaramente da confini stabiliti a tavolino, che non seguono né limitazioni geografiche (catene di monti, fiumi etc..), né a volte etnie culturali, linguistiche, storico sociali. Per la Croazia si fa confusione fra la geografia e la politica: Istria e Dalmazia geograficamente non fanno parte della Croazia, il cui centro è casomai Byelovar, a  est di Zagabria, L’Istria orograficamente chiude l’arco alpino, mentre la Dalmazia è isolata dall’interno da quel lungo muro costiero che sono le Alpi dinariche. Mi attengo al Profilo geografico della regione balcanica del geografo Elio Migliorini (1970), senza entrare in polemica con nazionalisti e irredentisti. Sorprende però che nell’indice CDD destinato alla catalogazione di biblioteca la Dalmazia venga classificata sub “Croazia – storia”, ricadendo nel corto circuito tra geografia e politica.

E a proposito di confini, ho sottomano due libri legati usciti ora e legati da un filo comune: il confine nordorientale dell’Italia: Il confine orientale, a cura di Alessio Anceschi, e Togliatti, Tito e la Venezia Giulia, di Marino Micich (1).  Il primo la prende alla lontana, iniziando dal medioevo, mentre il secondo ovviamente affronta il delicato periodo che inizia con l’8 settembre 1943 e termina con il Memorandum di Trieste del 1954, che restituiva all’Italia per l’appunto la città di Trieste. L’identità delle zone laterali è sempre viziata dall’ideologia e in più certe zone rientrano nell’area di espansione di nazioni diverse, per cui l’attrito è parte strutturale della storia di certi confini, spostati da guerre e migrazioni e sempre in equilibrio precario.

Infine una riflessione. Se dovessi distinguere la differenza fra Benedetto XVI e Papa Francesco, la risolverei con una parola sola: confine. Laddove  Ratzinger ha fissato i princìpi non negoziabili, Francesco li considerava divisivi e non ne ha mai parlato, come non ha mai parlato delle radici cristiane dell’Europa, priva per lui della centralità per noi scontata ma non per un sudamericano. Non parliamo poi dei confini nazionali, oltretutto chiusi ai migranti. Non che la Chiesa cattolica ami gli stati nazionali – in quello è coerente con il Socialismo, quasi fosse la stessa cosa – ma mai il principio era stato affermato con tanta coerenza da un pontefice. Vedremo ora che succederà con il più diplomatico Leone XIV.

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  1. Il confine orientale. Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, istria e Dalmazia / Alessio Anceschi. Torino, Edizioni del Capricorno, 2025. Pag. 159, prezzo 13 euro. L’altro è Togliatti, Tito e la venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954 / Marino Micich. Milano, Mursia, 2025. Pag. 185, prezzo 15 euro.

Siria da sempre senza pace

La rapida avanzata dei ribelli islamisti dal confine turco fino a Damasco nel dicembre 2024 ha sorpreso tutti, ma storicamente non è la prima volta che dal confine sud-occidentale della penisola anatolica parte un’operazione militare per la riconquista della ricca provincia siriana, ponte tra l’impero persiano (oggi Iran) e il Mediterraneo. In termini geopolitici, le dinamiche restano costanti: la Turchia, erede territoriale dell’Impero romano medievale d’Oriente (c.d. bizantino), penetra nelle province nord della Siria, mentre la Repubblica islamica dell’Iran perde la congiunzione con Siria e Libano. D’altro canto l’egemonia se la sono giocata per secoli le dinastie islamiche in Siria, Iraq e Iran, alternando Damasco, Baghdad e Teheran come centro di gravitazione politica ed economica. La Siria era stata conquistata dagli Arabi nel VII secolo d.C. in quella che non era più una serie di scorrerie ma l’obiettivo geopolitico di uno stato islamico organizzato. La sconfitta sul fiume Yarmuck (636) lungo l’attuale confine tra Siria e Giordania segna la data del ritiro dei “Romani” – così si definivano – dalla Siria, provincia romana dal 415. La Siria storica era molto più estesa dell’attuale stato, coprendo la parte mediana del bacino dell’Eufrate fino al Mediterraneo ed estendendosi per un ampio tratto di costa da Antiochia a Beirut fino a Gerusalemme. Copriva dunque anche Libano e Palestina, una posizione strategica di tutto rispetto lungo le direttrici est-ovest e nord-sud all’incrocio di tre continenti. Da lì gli Arabi riusciranno a minacciare direttamente quanto restava dell’Impero Romano d’Oriente e ad assediare più volte la capitale fra il 674 ed il 678, e nel 717 e 718. I Romani – li chiameremo così – grazie alla loro flotta, riuscirono sempre a respingere il nemico. Due quasi due secoli dopo, approfittando anche delle divisioni all’interno del mondo arabo, riparte una strategia di recupero delle ricche zone mediorientali. Stranamente questa vittoriosa operazione militare è poco citata, mentre le successive Crociate sono un continuo argomento di studi e polemiche ideologiche, pur essendo anch’esse una reazione di contrasto dinamico a un’occupazione militare. La spiegazione è nella diversità strutturale fra i due eventi: le Crociate sono classificabili come operazioni militari in area esterna gestite da attori geopolitici estranei. Costituiscono una Zeitbruch, una rottura temporale, laddove la riconquista bizantina della Siria rientra nella dinamica interna di un impero già radicato nel territorio. In sostanza, riprendersi quanto è stato sottratto da un’altra potenza è considerato normale, mentre intervenire dall’esterno in aree geopolitiche estranee alla propria area è imperialismo coloniale. Problema tuttora attuale.

Ma andiamo per ordine. L’offensiva romana e nel Mediterraneo si sviluppa dal 961 al 969 e comprende la conquista di Creta, di Cipro, di Antiochia e Aleppo. Dopo un periodo di guerre ai confini lente e non decisive, una serie di vittorie nel tardo X e all’inizio dell’XI secolo permisero a tre imperatori Bizantini, Niceforo II Foca, Giovanni I Tzimiskes e Basilio II Bulgaroctono di riconquistare parte dei territori perduti nel corso delle guerre contro gli Arabi del VII secolo sotto la declinante Dinastia Eracliana. All’inizio dell’XI secolo dunque le truppe bizantine sconfiggono gli arabi e riconquista tutta la Siria. L’esercito imperiale era di fatto l’unica forza armata permanente documentata nel medioevo. Sia pur trasformato nel corso del tempo per adattarsi alle nuove realtà, esso era l’erede delle legioni imperiali: manteneva un’organizzazione centrale, aveva un regolare corpo di ufficiali e sottufficiali, il reclutamento e l’addestramento erano gestiti da strutture collaudate da anni di guerre ai confini. L’uso di mercenari e irregolari ruotava attorno a un nucleo di tagmata, i reggimenti di cavalleria e fanteria metropolitani, integrati nelle campagne dalle truppe dei themata, i distretti militari di confine presidiati da soldati-contadini. Per il periodo che trattiamo vigeva questo sistema misto, frutto di evoluzioni successive. Non elevato l’organico: max 150.000 uomini, in linea con l’epoca. Grazie al comando di Niceforo Focas, le operazioni militari ebbero un’accelerazione col sacco di Aleppo e di Homs e la resa di Antiochia (969), che dopo ntre secoli di dominio musulmano ritorna in ambito romano. Lo stesso imperatore fece redigere un manuale di campagna, i Praecepta Militaria dove in effetti è superata la precedente impostazione difensiva a favore delle possibilità offensive di un esercito di campagna organizzato, equipaggiato ed addestrato con grande rigore. Al comando succederà Giovanni Tzimiskes, altro valente stratega. Alla sua morte (976) il comando viene preso da Basilio II Bulgaroctono, il quale però si troverà impegnato nei Balcani contro i Bulgari. Condurrà comunque nel 995 una campagna in soccorso di Aleppo contro gli arabi Fatimidi già stabili nel Maghrteb. Ma all’orizzonte avanza un nuovo invasore nomade più forte di Arabi e Persiani messi insieme. Nel 1045, solo Antiochia è ancora nelle mani dei Romani, ma cade sotto la pressione dei Turchi nel 1084, la futura potenza regionale musulmana. Come si vede, il dividendo strategico della riconquista della Siria dura poco più di un secolo, ma è importante sapere che nella sua millenaria storia la realtà dell’Impero Romano d’Oriente va ben oltre l’immagine di decadenza alla quale la storiografia europea l’ha relegata.

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Bibliografia:

La grande strategia dell’Impero bizantino / Edward Luttwack. Milano, Rizzoli, 2009. E anche Il Grande Medio Oriente: Viaggio al centro della storia tra impero e anarchia / Robert D. Kaplan, Marsilio, 2024

Zeitbruch, Frattura temporale

Siamo in piena Zeitbruch, frattura temporale e quindi non possiamo più ragionare coi parametri di tre anni fa: l’operazione speciale di Putin ha chiuso un’epoca di pace in Europa durata  quasi 80 anni. In realtà la guerra civile jugoslava degli anni ’90 e gli sviluppi successivi erano già un paradigma in scala minore, ma trascurato: anche lì dallo sfaldamento di uno stato federale emersero o riemersero singole nazioni con forti minoranze al loro interno e uno stato egemone – la Serbia – che voleva riavere un ruolo nella regione, anche a costo di brutali operazioni militari. Ma passiamo ora al presente: in questi giorni si parla tanto di riarmo e possiamo seguirne ogni giorno le discussioni politiche, l’entità dei programmi industriali dedicati e lo stanziamento finanziario necessario per ristrutturare e rafforzare la difesa europea. Come che vada, sarebbe il terzo riarmo tedesco nel corso di un secolo. Poco però si parla della componente umana, cioè i militari che quegli assetti dovranno usare sul campo. Non che non si parli anche di numeri, ma almeno nella stampa generalista si sorvola su alcuni problemi strutturali ben noti invece a chi si occupa da specialista del settore.

Inizio con un ricordo: qualche anno fa in caffetteria stavo accanto a un gruppo di giovani – uomini e donne – probabilmente sudafricani. Dal modo di fare si capiva che sapevano ancora combattere, lo vedevi dallo sguardo, dalla sicurezza delle movenze, le stesse che notai in un gruppo di giovani russi nei cui occhi si vedeva il retaggio di un duro addestramento militare. Per non parlare degli israeliani quando stanno in gruppo. Sia chiaro, parlo di impressioni personali, ma è tanto per dare un’idea del problema: alcune reazioni alla guerra in Ucraina dimostrano che vivere troppo a lungo in sicurezza può condurre a una certa perdita di realismo. Era il discorso che ci fece al liceo il prof di greco per spiegare la fine di Atene, che pur aveva vinto le guerre persiane qualche decennio prima: il benessere non ha mai prodotto soldati. Quasi 80 anni di pace assicurati dalla Nato hanno portato una parte della popolazione europea a scordare che la democrazia non è una conquista che valga per sempre, anzi si nota una certa simpatia per Putin e il suo governo autoritario. All’Ucraina si rimprovera la resistenza stessa a un’invasione militare, come se l’autodeterminazione dei popoli e la resistenza valgano solo altrove. Il rifiuto della guerra è dunque arrivato persino al rifiuto del diritto all’autodifesa e della ricerca di alleanze. Ma quando nemmeno Zelensky riesce a impostare la mobilitazione del proprio paese e i giovani scappano all’estero, difficile capire perché noi dovremmo essere più motivati di un soldato ucraino di leva. Se lui non vuole morire al fronte per difendere il proprio paese, a maggior ragione non vogliamo farlo noi che stiamo lontani, anche se neanche tanto. Se poi non bastano le brigate di volontari specializzati, difficilmente si può pensare a un esercito di coscritti mediamente addestrati ed equipaggiati, roba che andava bene al tempo della Guerra Fredda ma che ora non regge il passo della tecnologia e richiede un cambiamento di mentalità in chi pensa solo alla movida.

Ma torniamo al problema: servono i numeri. I sistemi d’arma, gli aerei e le navi degli eserciti europei sono affidati a capaci professionisti e i reparti sono ben addestrati ed equipaggiati, ma negli ultimi trent’anni si è puntato tutto sulle operazioni internazionali e in ogni caso la dottrina NATO prevede il massimo uso della forza per un breve periodo, decisivo. Il fronte ucraino vede invece una logorante guerra di posizione prolungata del tempo, un tipo di conflitto antiquato che la Russia può permettersi ma non certo l’Europa. Siamo di fronte a due scuole di guerra completamente diverse e solo la fine del conflitto chiarirà se nei tempi lunghi le conseguenze sull’economia e sulla società russa saranno peggiori del previsto. Per ora non è facile far previsioni: la guerra è in corso e le informazioni sono falsate dalla propaganda, ma prima o poi i nodi verranno al pettine: immense risorse sono state spostate verso un’economia di guerra, ma la riconversione industriale e lo storno del bilancio dalle spese sociali prima o poi si faranno sentire in tutta la loro gravità. Sui tempi lunghi, s’intende. La Russia sta percorrendo la strada dell’instabilità finanziaria e del collasso economico e non è in grado di sostenere la guerra in Ucraina oltre la metà del 2026,  l’economia è gravemente condizionata e acquistare armi e munizioni che non producono nulla non migliora la situazione a lungo termine, anzi peggiora le cose. Una facile profezia? Della debolezza russa ne approfitterà la Cina, un alleato che presenta sempre il conto. L’arte della guerra di Sun Tzu – testo canonico cinese – non prevede necessariamente la battaglia per ottenere la vittoria finale.