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Eppure si vive anche così – storia di un’esperienza missionaria

Selene Pera è una simpatica volontaria lucchese poco più che trentenne, che dal 2012 svolge attività con la Congregazione delle suore di santa Gemma Galgani e in dieci anni ha lavorato nelle missioni nella Repubblica Democratica del Congo e a Betlemme. Questo libro è il diario degli ultimi tre mesi passati nel 2023 in Africa, nella zona est attigua a Ruanda e Burundi, separata dal lago Tanganica. Un’area povera e politicamente instabile da sempre, dove le Ong e le missioni cristiane fanno quello che possono dove lo Stato non può arrivare.

Selene torna in Africa dopo dieci anni ma ha già un bagaglio di esperienze e contatti nel volontariato, lo fa con gioia e sa bene che l’aspetta una vita scomoda, ma è serena e preparata (è laureata in scienze sociali). Le prime pagine parlano di saluti ad amici, parenti e suore, più le vaccinazioni e l’elenco di cosa portare con sé: in Africa mancano sempre le cose più cretine. Il volo la porta a Bujumbura (Burundi) e si prosegue con un pick-up carico verso la regione di Uvira (R. Dem. Congo), dove si trova la comunità. Sono solo 30 km, ma alla frontiera i controlli vanno per le lunghe e quando vedono un bianco (Muzungu in svahili) cercano sempre di farsi dare soldi, cosa che avverrà spesso in quei tre mesi. La zona dove Selene e le suore operano è turbolenta: la parte orientale del Congo ex-belga poi Zaire ed ora Repubblica Democratica del Congo è campo di battaglia per più formazioni armate (Movimento M23, Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda o FLDR), guerriglieri, bande tribali o comuni briganti. Chi scrive si ricorda ancora dei Katanga, di Bob Denard, di Jean Schramme e dei suoi duri mercenari al servizio dell’Union Minière che resero il Congo degli anni ’60 un inferno sulla terra. Sia le forze armate regolari (FARDC) che  le forze di pace dell’ONU (MONUSCO) portano avanti operazioni militari, ma la posta in gioco resta sempre la stessa – lo sfruttamento delle risorse minerarie – e i risultati modesti: la zona di Kivu è pericolosa e nel 2023 a Goma è stato ucciso il nostro ambasciatore Ugo Attanasio (1). In sostanza il conflitto è endemico e farne le spese è sempre la popolazione dei villaggi, regolarmente vessata da regolari e ribelli.

Detto questo, torniamo alla nostra Selene. E’ accolta dalle suore con gioia, alcune le conosceva già (suor Adacieuse, nomen omen), e sempre con gioia svolge il suo lavoro di apostolato laico: assistenza nel dispensario alle giovani madri con bambini, visita agli ospedali, distribuzione di viveri. La sanità congolese è a pagamento e non passa i pasti, per cui chi non ha parenti deve affidarsi alla carità o appunto a organizzazioni missionarie autorizzate dal governo centrale. Selene resta sbalordita dalle cifre per noi irrisorie (ma non per loro) che uno deve spendere per una lungo degenza o per una protesi, al che interviene di tasca sua con una somma donatagli dall’amico Fiorenzo. E qui la classica riflessione di chi ha operato in Africa: basta poco per assicurare alle famiglie cibo e assistenza; per noi sono realmente cifre accessibili se non ridicole, ma non per la poverissima gente dei villaggi e delle periferie urbane. Ma una volta che uno vede certe scene di miseria e malnutrizione non sarà mai più lo stesso. Un bambino – Emmanuel – all’inizio pesa tre kg e mezzo! Selene e le sue compagne hanno una serenità e una resistenza fisica fuori del comune, si adattano ai tempi lunghi, ma anche gli africani hanno una vitalità e un’allegria che rimane impressa: in ogni luogo dove vanno, o a messa, sempre danze e tamburi (anche nella liturgia) e gente gioiosa per l’arrivo di queste donne che non chiedono niente. C’è una socialità diffusa a tutti i livelli e compensa dalle fatiche: difficile fare progetti quando sei impegnato ogni giorno in una routine ben organizzata dalle suore, le uniche che sanno anche cavarsela ai posti di blocco dei malpagati doganieri, le sole che sanno districarsi tra fango e baracche. I nomi dei luoghi citati sono tanti ma li ho voluti esaminare uno per uno con Google Maps e immagini di corredo. Alla fine dalla terra rossa e dal verde della vegetazione esce sempre fuori l’esteso agglomerato di case basse e di baracche privo di un centro e di un’organizzazione razionale dello spazio. Ho visitato la chiesa cattolica di Kavimira, ma ho anche esplorato il santuario di Kibeho (Ruanda), la cattedrale di Butare (id.), Bukavu (Congo), dove oltre la chiesa c’è un centro di orientamento e istruzione per ragazzi e ragazze di strada (CTEO). Ho anche visto l’esterno della Prison Centrale de Bukavu (una muraglia di mattoni con una scritta a caratteri cubitali), dove le nostre cercano di assistere alcune ragazze ma non riescono a contattare Emanuel, un ragazzo che aveva seguito una brutta strada. Inutile descrivere le condizioni di vita delle patrie galere del Congo o delle bidonvilles, sono state descritte più volte. A rimanere impressi sono i ritratti delle persone: Maombi, la moglie del soldato, la Petite, suor Esperance, suor Agnes e le altre – e soprattutto l’atteggiamento positivo e pratico di Selene e delle sue colleghe, il suo inguaribile ottimismo e le descrizioni di luoghi e persone senza retorica. Spesso sono persone che non rivedrà più – la discontinuità delle relazioni è parte dell’intenso volontariato, mentre rimane la rete delle amicizie con le suore e altri volontari. E rimane fermo l’appello che papa Francesco fece nel 2015: Se tu vuoi trovare Dio, cercalo nell’umiltà, cercalo nella povertà, cercalo dove Lui è nascosto: nei bisognosi, nei più bisognosi, nei malati, negli affamati, nei carcerati”.

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NOTE:

  1. https://www.ilriformista.it/cose-la-guerra-mondiale-africana-il-conflitto-nel-quale-e-maturato-lattacco-allambasciatore-luca-attanasio-198403/amp/

Eppure si vive anche così. Viaggio missionario nella Repubblica Democratica del Congo / Selene Pera. Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 2024. 119 pag., 12 euro. Quanto ricavato dalla vendita del libro sarà devoluto alla missione di Kavimvira.


Bangkok

Lawrence Osborne l’ho già apprezzato come autore de Il turista nudo, ma qui l’intero libro parla di una sola città. Nato forse come materiale per un romanzo, il libro si regge da solo perché la protagonista è proprio la città stessa di Bangkok, descritta nei suoi angoli più segreti o comunque ignoti al turista che prosegue per le spiagge di Pattaya o Phuket: centinaia di luoghi e strade dai nomi più strani, locali, alberghi e club che possiamo anche esplorare con Google Maps, solo per accorgerci che noi di Bangkok non sappiamo niente e che la città descritta da Osborne sembra il Satyricon di Fellini mixato con Blade Runner. Il mio paragone col film di Ridley Scott ho scoperto che non è originale, ma evidentemente ha la sua ragione d’essere, anche se chi risiede a Bangkok – penso al giornalista italiano Marino Morello (1) – assicura che la città somiglia molto meno al Naraka (o Narok, l’inferno buddista) di come la descrive Osborne, al quale piacciono i toni drammatici e i cui personaggi – molto British – sembrano piuttosto usciti da Il nostro agente all’Avana di Graham Greene: tutti adulti navigati e disillusi, singoli, forse lavorano ma di sicuro bevono Gin tonic e amano le donne thai e disprezzano gli italiani repressi e assatanati che affollano i bar e i bordelli di Patpong. I residenti europei qui descritti si vantano sempre di conoscere un posto segreto ed esclusivo – in genere un locale notturno o un club riservato – e curano l’iniziazione del compagno di avventure. Di giorno fa troppo caldo – 40° gradi, umido, monsone a parte – e per raggiungere i luoghi si passa sempre di notte attraverso strade trafficate brulicanti di vita, botteghe di ogni tipo, street food a base di pesce o insetti, canali interrati, giardini segreti e tempietti buddisti, autentici luoghi di pace in mezzo a una bolgia di gente in una città brulicante di vita, ma la cui urbanistica non ha nulla di razionale e asfalta i canali che prima ne facevano una Venezia d’Asia. Ogni tanto piccole oasi di pace dello spirito: giardinetti buddisti, il santuario della Sposa Fantasma (un mito visto anche nel cinema), il tempietto di Mae Nap, piccoli angoli residui fra i canali e le vie affollate, che contrastano colle bizzarre architetture del mercato del pesce (sembra una chiesa, come a Trieste) o con le scenografiche prospettive greco-romane dei vecchi alberghi. Bangkok ha 11 milioni di abitanti ma forse anche 16, sempre che se ne traccino chiari i confini. Ma al di là dell’immagine che ne abbiamo e soprattutto vogliamo averne noi europei, la Thailandia è un anche paese proteso verso il futuro, avanti con l’elettronica e le tecnologie. E’ una metropoli in continua trasformazione e l’autore nota la rapidità con cui certe zone vengono buttate giù e ricostruite senza ripensamenti. Speculazione edilizia e sviluppo urbanistico a parte, questo scarso amore per il passato e le sue vestigia a noi pare strano, ma lo sviluppo asiatico è notoriamente frenetico e il disvalore per l’antico è sicuramente influenzato dal buddismo, la religione maggioritaria, per il quale tutto è transeunte e decade in fretta, complice il clima caldo umido che deteriora tutto ciò che l’uomo costruisce. D’altro canto la tronfia edilizia paracoloniale o saray roman con la quale le classi alte siamesi esibivano ricchezza e prestigio ha qualcosa di kitsch, di decadente. Il Siam non è mai stata colonia e ha tuttora un Re di supposta ascendenza divina. Osborne descrive questi edifici: ambasciate, grandi hotel vintage, ospedali, residenze private ora alberghi e club esclusivi incastonati in un parco. Si gioca molto sul contrasto drammatico fra asiatico ed europeo, fra tradizione e futuro. Il libro è stato scritto nel 2006 e tornando nel 2011 tante cose erano cambiate (2). Ma amiamo perderci anche noi nelle vie dai nomi esotici (magari lo sono meno per chi ci vive).  Bangkok sembra essere un agglomerato di centri autonomi ma non conflittuali e Osborne va a infilarsi anche al Roong Mun, il mattatoio cittadino dove operai strafatti di ya-ba (una droga locale piena di metanfetamina e caffeina) macellano i maiali a colpi di mazza. La zona del porto è separata da un muro e oltre c’è Thong Lor, malmesso quartiere di servizio dove vivono i lavoratori poveri in mezzo a condizioni igieniche da paura. Ancora oltre ci viene presentato Joe Maier, un missionario cattolico irlandese che ha un bel daffare in quelle zone, ma è allegro e felice. Disincantati e scrocconi invece i nomadi notturni amici del nostro scrittore: McGinnis, Lionel, Brian capiscono poco il thai e la sua strana scrittura, non è chiaro che lavoro fanno (se ne hanno uno), disprezzano i turisti inglesi proletari in bermuda e T-shirt, per non parlare dei tedeschi crucchi. Il padrone di un locale è francese e questo gli dà un tocco di ambiguità: anche nei film il francese d’Indocina è sempre ambiguo. Ma si direbbe che tutti questi nomadi “farang” (3) vivono a Bangkok per morirci. In effetti anche un nostro pensionato può viverci bene ed avere anche buone cure mediche, anzi la Thailandia è famosa per il turismo sanitario oltre che sessuale. Su questo è stato scritto molto, ma qui è diverso: i nostri si dividono PornTit, una ragazza che deve finire gli studi e integra il mensile in questo modo, il che da quelle parti sembra una pratica comune. Lionel ha invece una giovane moglie, la quale dice senza remore che pur di uscire dalla povertà sposerebbe chiunque. Bisogna capirla: è Asan (etnia del nord molto bella quanto povera) e si vuole sistemare: non compagnia in cambio di soldi, ma di ascesa sociale. La descrizione di alcuni locali poi è curiosa: c’è il ristorante dove una ragazza ti imbocca, oppure un locale dove le ragazze sono vestite da poliziotte con tanto di manette, per non parlare dei LadyBoys, i femminielli, altra specialità di un mercato iniziato durante la guerra del Vietnam (1965-1973), quando Bangkok era il luna park dei soldati americani in turno di riposo. Del resto la cultura asiatica ha sul sesso idee abbastanza aperte, senza quei sensi di colpa che i nostri sgangherati eroi si portano ancora dietro. Divertente casomai è la descrizione dei locali che frequentano, dove architetture improbabili nascondono interni dove c’è posto per tutto e il contrario di tutto: affreschi enormi (Helix il pittore spagnolo lavora per i grandi alberghi), atmosfere ora coloniali (come all’esclusivo English Club vittoriano) ora futuristiche, con ragazze che prima di spogliarsi girano vestite nei modi più assurdi. Edonismo puro, dove thai e farang almeno su certe cose si capiscono benissimo, con la benedizione del buddismo Theravada, che i suoi amici britannici ignorano e di cui Osborne cerca ogni tanto di spiegare i principi, ma senza troppa convinzione né competenza. Pur vivendo in mezzo alla gente thai, Osborne e i suoi amici restano pur sempre dei farang.

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NOTE:

  1. https://ogzero.org/autore/massimo-morello/
  2. https://www.newsweek.com/after-bangkoks-floods-lawrence-osborne-revisits-his-old-haunts-66325  nel 2011
  3. Farang in Asia indica l’occidentale. La parola deriva da “Franchi”, come gli arabi in Terra Santa chiamavano i Crociati. Da lì il termine si è esteso in tutta l’Asia e non è sempre spregiativo.

Bangkok / Lawrence Osborne. Milano, Adelphi, 2009. Prezzo 22 euro


Turismofobia

Il lessico estivo si è arricchito quest’anno di un’altra parola: turismofobia, discutibile quanto altre simili (omofobia, islamofobia): perché mai associare alla psicologia clinica una motivata avversione per un fenomeno sociale o politico? Manifestare contro il sovraturismo, il degrado delle città d’arte e l’invasione dei B&B non è un disturbo della personalità ma la reazione a un fenomeno gestito unicamente dal mercato e trascurato dalla politica. Basta scorrere i titoli dei giornali: rivolta dei residenti di Barcellona e delle isole Canarie, centri storici svuotati degli abitanti, parcellizzazione degli spazi immobiliari, negozi e servizi orientati solo al turismo di massa, solo affitti brevi, traffico intasato, affitti alle stelle, carenza di alloggi per studenti, famiglie espulse verso le periferie, bassa delinquenza parassita. Ma anche senza leggere i giornali basta farsi un giro per Roma per giudicare qualità e quantità del turismo attuale, esploso dopo il Covid e risorsa indispensabile per i comuni in deficit. In realtà il turismo di massa non è una novità: fino a pochi anni fa abitavo al centro e la mia famiglia aveva una bottega storica a Fontana di Trevi, dove comunque passavano carovane di turisti con scarso potere di acquisto, poco tempo per vedere tutto e una basica cultura generale. C’erano i negozi di souvenir, ma non al punto di saturare e snaturare le vie e le pareti degli edifici, né i turisti fotografavano le cartoline invece di comprarle. Mio padre – pittoresco antiquario – è stato ritratto tanto di quelle volte da entrare alla fine nel personaggio, ma senza che le vendite aaumentassero. In compenso, con i cellulari e i gps in mano, nessuno mi chiedeva più dove era Fontana di Trevi, peraltro sommersa non certo da ieri da masse di turisti. La differenza è che oggi si è arrivati quasi alla saturazione e alla rivolta dei cittadini residenti. Come calcolare il punto di rottura? Applicando un parametro caro all’ecologia: il concetto di carico massimo o capacità portante dell’ambiente, ovvero quanto stress un ambiente può assorbire prima di collassare per il degrado o la mancata riproduzione degli elementi che ne rendono possibile un equilibrio armonico (1). Analizzando in modo sistematico il fenomeno, è impressionante la rapidità con cui si è passati dai B&B familiari ai grandi gruppi immobiliari stranieri (come il tedesco Limehome) che comprano interi palazzi per farne quello che sappiamo. Quello che doveva essere una risorsa aggiuntiva per le famiglie con un appartamento ben collocato si è presto trasformato in un’industria pesante che ha espulso tutti gli altri. L’obbligo di abitare nello stesso immobile affittato a breve termine è stato presto superato e ormai le trattative si fanno solo per via telematica, compresi i codici di accesso per le serrature. Si è detto che il turismo porta i soldi, anche quello povero (perché gioca sulla quantità), ma a chi vanno in tasca? Un turista che prenoti con Airbnb e paghi in anticipo anche altri servizi (collegamenti, etc.) quei soldi non li spenderà a Roma o Firenze, ma andranno a finire in un conto estero. Per non parlare degli affitti in nero, a Roma forse anche il 30% del totale. Diciamolo, la politica ha lasciato fare il mercato, sperando in facili entrate per riempire le casse vuote, ma non ha capito che se un’attività occasionale diventa un’impresa, come impresa va inquadrata e tassata, obbligando a quel punto l’imprenditore ad attenersi alla normativa prevista per le imprese alberghiere, da quella igienica a quella fiscale, ed evitando poi che i colossi tipo Airbnb (in stile Microsoft) facciano profitti miliardari senza dare una lira al paese dove si trovano realmente le stanze in affitto.

Non so però quanti sanno che il turismo di massa è se non il figlio almeno il nipote del Gran Tour, l’esperienza quasi obbligatoria riservata dall’inizio del sec. XVII ai giovani nobili europei – inglesi e francesi, ma anche tedeschi e olandesi – per dar loro occasione di perfezionare i loro studi visitando le città d’arte italiane (sempre le solite: Venezia, Firenze, Roma, Napoli, magari con una estensione via nave in Sicilia) e godendo delle bellezze e delle opere d’arte del nostro paese. Nelle loro descrizioni – diari, lettere – abbondano i luoghi comuni: la grandezza di Roma antica ridotta a un deserto di ruderi, l’elenco più o meno freddo ei quadri degli Uffizi, l’emozione davanti a Michelangelo, il falso moralismo verso la prostituzione d’alto bordo di Venezia e quella miserabile di Napoli. E soprattutto, l’idea che l’Italia è stupenda per quanto sono arretrati gli italiani, come se ne potesse fare a meno, e si direbbe che la von der Leyen la pensi ancora in questo modo. Nascono proprio ai tempi del Tour le guide per viaggiatori che più o meno si sono aggiornate col tempo. Ma se confrontate una guida del Settecento con un moderno Baedeker o una guida blu Michelin noterete che alla fine le guide del TCI hanno semplicemente aggiornato l’idea iniziale, come invece il pellegrinaggio a Roma si basava sui Mirabilia Urbis Romae più volte ristampati nei secoli ma pur sempre basati su un progetto editoriale nato nel 1300 con l’Anno Santo. Ma mentre il turismo religioso è sempre stato popolare, quello laico si è democratizzato partendo da un’iniziativa d’élite. Turismo deriva da Tour, ma diventa qualcosa di diverso con Thomas Cook, l’imprenditore inglese che nel 1841 iniziò a portare gruppi di pellegrini in treno (lui era un pastore protestante) ed ebbe l’idea di organizzare i viaggi delle comitive borghesi, fondando un’agenzia che ha chiuso i battenti nel 2019. Thomas Cook ha trasformato l’esperienza di pochi in un progetto accessibile, inventando anche gli assegni per viaggiatori e le carrozze pullman, per non parlare dell’esclusiva delle crociere sul Nilo, all’epoca un protettorato britannico. Il suo modello è stato anche ironizzato da Mark Twain ne “Gli innocenti all’estero” (1869), dove l’autore segue il tour Cook di un gruppo di americani che si lamentano perché Venezia è allagata e poco s’interessano di storia dell’arte “perché negli Stati Uniti non è insegnata”. Rispetto al Mississipi l’Arno è un ruscello e così via: i suoi compagni di viaggio non riescono ad apprezzare una terra di morti quale è per loro l’Italia, sono anzi orgogliosi del loro essere appunto “innocenti” rispetto ai pregiudizi della vecchia Europa. Sono luoghi comuni che vedremo ripetuti all’infinito (un signore inglese mi disse che invece della cucina italiana preferiva i Fish & Chips) ma che mostrano l’anima del turista di massa: un consapevole, orgoglioso ignorante, superficiale ed estraneo alla cultura con cui viene a contatto senzaa comprenderla e tutto sommato alla ricerca di un parco a tema in cui i nativi – non importa se italiani, spagnoli o asiatici – fanno parte della scenografia. E molti stanno al gioco: si deve pur mangiare per vivere.

Ma intendiamoci: per conoscere una cultura bisogna stringere relazioni continue e profonde con l’ambiente e troppo spesso il tempo è poco. Ma poter viaggiare in aereo nei pochi giorni di ferie è democrazia, estensione dei previlegi prima riservati a una minoranza. Ancora negli anni ’50 il viaggio era un’esperienza costosa e chi scrive ricorda bene i prezzi degli aerei di linea. Appartengo infatti alla prima generazione che ha sentito la necessità di imparare le lingue e di viaggiare in Europa e lo ha fatto grazie alla scuola e all’Interrail. Chi ha fatto il militare si ricorda che moltissimi giovani non erano mai usciti dal paese o dalla propria regione. Ma se l’esperienza del viaggio o del turismo ora è più accessibile, non significa che sia per forza volgare. Una cultura di massa non è necessariamente un sottoprodotto: americani e sovietici lo hanno a suo tempo ampiamente dimostrato. Il problema è che quello che vediamo è una cultura per le masse, non differente da quella proposta dalle televisioni commerciali, dove non c’è nessuno sforzo per educare la gente. Se vogliamo, è pornografia. Che un certo turismo sia in stretto contatto con lo spettacolo si è visto a Ragusa di Dalmazia (Dubrovnik), ormai sempre sovraffollata da quando vi sono state girate alcune puntate di “Trono di Spade”. Ma persino un modesto pontile del lago svizzero di Brienz è stato saturato dal turismo asiatico: questo perché il luogo è stato utilizzato per una scena della serie coreana di successo “Crash Landing on You“, in cui una ricca donna coreana si schianta con il parapendio in Corea del Nord e incontra e si innamora di un ufficiale dell’esercito. La scena mostra lo stesso ufficiale che suona il pianoforte su quel pontone di legno. Da allora, i turisti appassionati della serie Netflix fanno la fila, a volte per ore, per farsi fotografare sul ponte dove è stata girata la scena del pianoforte (2). Il finale? Ora gli svizzeri fanno pagare 5 franchi l’accesso e il gabinetto. Noi italiani al massimo vorremmo dormire nella casa dove abitava il commissario Montalbano, ma già le masserie pugliesi sono diventate famose per l’accorta politica della Regione Puglie verso le produzioni cinetelevisive. Sarebbe anzi un’idea vincente lanciare sul mercato zone secondarie, non-luoghi, destinazioni poco sfruttate o semplici “dupe destinations”, destinazioni-clone (3) simili ma meno gettonate. La tendenza, nata su TikTok e legata inizialmente all’industria della bellezza, si sta diffondendo anche nel mondo dei viaggi, come svela un’analisi di Expedia Group da cui è emerso che i vacanzieri nel 2024 sono pronti a partire per luoghi più inaspettati e, spesso, più convenienti: Paros invece di Santorini, Sheffield o Liverpool invece di Londra. E qui le comunità locali o regionali dovrebbero elaborare precise strategie per valorizzare magari anche tesori nascosti o zone depresse. Il capitale ha bisogno continuo di espandersi e di investire risorse. L’importante è che si agisca con criterio, anche se per ora non c’è da farsi grandi illusioni: quando ti dicono che l’isola è incontaminata vuol dire che l’hanno già attrezzata per lo sbarco dei crocieristi, le cui navi tendono attualmente al gigantismo. Ma ancora trenta o quarant’anni fa quante persone potevano permettersi una crociera? Le vedevamo nei film brillanti, ma erano piene solo di gentlemen, avventurieri e belle signore. Ora a Trieste ne sbarcano anche due a settimana e più che navi sembrano blocchi di case popolari galleggianti e forse in fondo metaforicamente lo sono pure.

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Note:

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Capacit%C3%A0_portante_dell%27ambiente
  2. https://www.cdt.ch/news/vuoi-farti-un-selfie-allora-pagami-cinque-franchi-315688
  3. https://siviaggia.it/notizie/video/viaggio-scoperta-dupe-destination/426546/

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Il Turista nudo di Osborne

Gli anglosassoni hanno un tipo di scrittori da noi raro: il viaggiatore. Penso agli statunitensi Bill Bryson, Paul Theroux, William Least Heat-Moon, al gallese Jan Morris, agli inglesi Bruce Chatwin, Eric Newby, Wilfred Thesiger, Lawrence Osborne e Colin Thubron. Favoriti dalla loro indole di esploratori e protetti dall’espansione stessa delle loro nazioni, hanno sviluppato una letteratura unica nel suo genere, alla quale noi italiani – ben più provinciali – possiamo affiancare solo Tiziano Terzani. Fra questi autori scelgo oggi Lawrence Osborne, proponendo Il Turista nudo (2006), dissacrante panoramica del mondo attuale. Lui è un nomade, ma “il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare”: ormai il pianeta è un grande parco a tema o un’installazione turistica spacciata per natura incontaminata ma ormai priva dell’esotismo portato avanti dalle conquiste coloniali, quando il viaggiatore poteva scoprire il favoloso Oriente o l’Africa misteriosa senza rischiare di essere rapito o ucciso dai talebani o da qualche oscura banda locale, purché viaggiasse con la Thomas Cook e alloggiasse in quei monumentali alberghi con enormi viali e giardini curati da centinaia di lavoratori-schiavi. Tuttora si trovano al Cairo o a Bombay o Calcutta (pardon: Mumbay e Calkata), veri fortilizi di lusso dove godere di tutti i servizi necessari per un europeo ed evitare di essere infastidito e inseguito dalla folla dei poveri non appena girato l’angolo, cosa che è normale anche adesso: l’autore cita l’antropologo Claude Levy-Strauss ma si trova pure lui nella stessa situazione. D’altro canto la popolazione locale viene sempre incontro al turista e gli vende tutto, magari pure le figlie. Il viaggiatore e/o turista vorrebbe che se non tutto, almeno qualcosa fosse autentico, ma quando l’autore descrive Bali come una capitale del vero artigianato balinese ad uso del turismo e non ne può più della musica “barong”, che dire? Bali è un museo vivente, ma d’altro canto il mercato non sa che farsene del resto dell’Indonesia, musulmana e magari anche fondamentalista. Nelle isole Andamane (arcipelago indiano), già battute dalla Mead, alcune popolazioni sono ghettizzate (oppure ostili di suo) ma in un certo senso protette dal turismo. A Dubai l’opposto: è un vero luna park costruito dal nulla, tutto è nuovo (e kitsch), avveniristico, un miracolo strappato al deserto grazie al petrolio. Ma vale davvero la pena di andarci? Tutto è futuro, ma la classe dirigente è rimasta medievale. Altrove poi l’architettura non è così avveniristica: i simboli dell’antica Roma e Atene il colonialismo li ha usati per dare uno stile imperiale al dominio sugli altri (almeno fino alo 1950), ma di quei simboli si sono riappropriati i parvenu dell’indipendenza per dare vigore al progetto sociale e politico da loro giustamente proposto. Alla fine ne viene fuori un insieme di decadenza e consumismo, di generose aspirazioni politiche e sociali unite alla dipendenza dal denaro esterno. Il turismo mondiale muove 500 miliardi di dollari, quindi è la più grande industria del pianeta. Ma pochi sanno che le Maldive sono state letteralmente inventate nel 1972 da un gruppo di imprenditori italiani ed ora sono quello che sono. Osborne lo fa notare ed è abbastanza grande (1958) da ricordare molti luoghi prima che arrivassero le cavallette. In sostanza, nel mondo metà della società lavora per intrattenere l’altra metà, relegando la cultura e la reale esperienza del viaggio a settore residuale: l’importante è divertirsi e ci sono città come Bangkok che lui ribattezza “Edonopoli”, la città del piacere. Eppure la Thailandia (già Siam) non è mai stata colonia di nessuno. Osborne descrive ogni volta questi resort dove si può avere e fare di tutto, anche cambiare sesso o pagar poco un bravo dentista (noi italiani invece andiamo in Croazia). Tutto è artificiale ma inserito nella natura allo stesso tempo, così vuole lo standard del luogo incontaminato ma “comodo”, a meno di non scegliere Avventure nel Mondo e altre agenzie che comunque sorvegliano e proteggono il viaggiatore. Turista e viaggiatore ovviamente non sono la stessa cosa: il primo consuma ma resta un frettoloso estraneo, il secondo si suppone abbia interessi e curiosità più produttive. E’ il fascino di visitare i posti dove nono sono stati (ancora) gli altri, di interagire con il diverso. Eppure anche Osborne fatica a trovare i reali parametri della sua esperienza conoscitiva: inizialmente l’altro si pone sempre in modo di soddisfare le aspettative del nuovo venuto, vuoi per servilismo opportunista (chi ha viaggiato in certi paesi lo sa), vuoi per non essere invaso e mantenere il suo mondo religioso e parentale lontano  da occhi indiscreti. Osborne cita spesso Claude Levy-Strauss e Margaret Mead, grandi antropologi (la Mead tra l’altro è stata la prima a iniziare gli studi di genere oggi tanto popolari) e anche pessimisti sulla possibilità che trenta anni dopo le popolazioni di livello etnico visitate a suo tempo non fossero state corrotte dalla civiltà moderna (si cita spesso Tristi tropici di Levy-Strauss). Ma parlando strettamente di industria del turismo, avviene paradossalmente quanto diceva Walther Theodor Adorno a proposito delle avanguardie: l’avanguardia (qui: il turismo) deve continuamente andare avanti cercando nuove mete “vergini” da presentare come nuove, esotiche, incontaminate, altrimenti dopo pochi anni si cade nel già visto, nella ripetizione, nella colata di cemento e nel kitsch dei negozi di souvenir. Nessuno oggi definirebbe le Hawaii esotiche, lo erano duecento anni fa prima di diventare un’americanata. Nessuno crede oggi nell’originalità dell’artigianato veneziano (prodotto in Cina), ma ancora crede in quello balinese, non fosse perché gli artigiani sono veri e lavorano in modo tradizionale (parliamo di stile, non di tecniche e utensili). Un capitolo del libro s’intitola “un paradiso artificioso”, l’altro “La spa”. Già, perché l’ossessione per il corpo e per i centri di salute e benessere crea un indotto enorme e anche piacevole, diciamolo, almeno per chi se lo può permettere. Ai ricchi piacciono i resort fortificati e ho sottomano l’immagine di Rondoni (Mamula in slavo), una fortezza costruita su un’isola a protezione dell’accesso alle Bocche di Cattaro (Montenegro): ora è un resort esclusivo e costosissimo, ma da lontano sembra un penitenziario. Ben diverso dagli alberghi indiani che Osborne descrive senza sconti: gestiti dallo Stato, servono solo a dar lavoro ai giovani ma non garantiscono nemmeno sapone e lenzuola, articoli per i quali l’autore litiga e mercanteggia ogni volta. Sorprendente anzi la disinvoltura con cui sa passare daagli alberghi a cinque stelle (pagati dall’editore?) alle stamberghe dove meglio è mettere il tappo al lavandino per evitare la ronda dei bacarozzi (da me sperimentata in Turchia, ndr.). E da buon inglese, sorseggia sempre e ovunque un buon whisky, come Il nostro agente all’Avana di Graham Greene

L’ultimo capitolo però è diverso dagli altri: l’autore, dopo un’opportuna preparazione, decide di vivere per qualche tempo in Papua Nuova Guinea, uno dei posti meno turistici del mondo, privo com’è di strade. Eppure vi si parlano più di 800 lingue diverse e c’è una varietà di colture e culture sorprendente. L’autore si appoggia a una vecchia missione evangelica per addentrarsi nell’interno, con il necessario supporto di guide locali. Gli indigeni vivono nella foresta da millenni e la sanno lunga, al punto di studiare loro il “diverso” che hanno davanti. Ed ecco le osservazioni finali:

Tornando a Tambunam ho capito in modo molto chiaro che la vita e la cultura di un popolo si possono cogliere solo vivendo fino in fondo tutta una serie di intensi rapporti personali. Solo attraverso l’intreccio delle vite possiamo sperare di capire bisogni profondi , quali la continuità, la ripetizione delle esperienze e l’intimità”.


Il turista nudo
Autore: Lawrence Osborne
Traduttore: M. Codignola
Editore: Adelphi, 2006, pp. 272
Pezzo: 22,90 €

EAN:9788845920677


Quando in Libia entravamo come clandestini

Nelle mie ricerche di archivio nell’Ufficio Storico della Marina ho trovato alcuni documenti che riguardano le sorti della comunità italiana in Libia nel 1946 (1). In Libia era presente almeno lungo la costa una significativa comunità italiana formata soprattutto da agricoltori, artigiani, operai, pescatori e piccoli commercianti, più i militari e i funzionari dell’amministrazione coloniale. Erano circa 120.000, concentrati soprattutto intorno a Tripoli e Bengasi. Mussolini incoraggiò la creazione di grandi aziende agricole affidate a coloni veneti e meridionali e Balbo avrebbe voluto portare la colonia italiana – già il 13% della popolazione libica – a 500.000 unità, e forse ci sarebbe anche riuscito se non fosse finita come sappiamo: lui abbattuto dal fuoco amico (?), la Libia persa con la guerra. Gli Inglesi in un primo tempo lasciarono la situazione come era, visto che solo i coloni italiani potevano far funzionare quelle aziende agricole, ma gli sfollamenti di guerra e l’ostilità dei locali spinse molti a tornare in Italia. Così un altro rapporto riservato descrive la situazione a Roma (2) :

“La posizione dei profughi italiani d’Africa (ex colonie, Etiopia, Tunisia) è accuratamente seguita dal P.C.I.  – E’ da tener presente che questi profughi, malgrado la loro indigenza e la loro classe sociale (si tratta in genere di contadini, operai e piccoli artigiani, accolti nei campi profughi di Cinecittà a Roma e altrove nel Mezzogiorno) non sono in genere favorevoli alle ideologie dei partiti di sinistra, per l’atteggiamento anticolonialista di questi movimenti. Inoltre sono ancora troppo radicati in questi ex-coloni d’Africa i benefici ricevuti durante l’ex-regime fascista e il passato ricordo del prestigio degli italiani in Africa”.

Il documento prosegue descrivendo l’infiltrazione degli attivisti del P.C.I. tra quelli che, pur definiti “fascisti” e “colonialisti”, potevano comunque convertirsi alla causa. Nel documento si fa anche cenno al tentativo di togliere all’ex-Ministero delle Colonie l’assistenza ai profughi d’Africa per trasferirla al Ministero dell’Assistenza Post-bellica, diretto dal comunista Sereni, “onde eliminare dalla scena sociale una massa di individui, fatalmente portati a giustificare il colonialismo (o “imperialismo”) e a sostenere il ritorno italiano in Africa”. Analisi fredda ma storicamente corretta.

Ma molti italiani cercavano invece di ritornare in Libia per ricongiungersi con la loro comunità e tornare al lavoro nelle piccole industrie e nelle aziende agricole, che il rapporto definisce produttive:

“Alcune industrie si sono avvantaggiate della interruzione delle importazioni dato che, per compensare sul mercato la mancanza di merce di produzione italiana, lavorano a pieno ritmo. Nelle campagne, i cui raccolti delle ultime tre annate sono stati buoni, i coloni proseguono il loro lavoro malgrado la crisi dei prezzi dovuta a sovra produzione”.

Quello che oggi suona paradossale è l’ingresso clandestino dei nostri coloni:

“L’immigrazione degli italiani è un argomento che sta particolarmente a cuore alla nostra comunità, giacché molti sperano di riavere famigliari e parenti a suo tempo rimpatriati. L’ostilità degli arabi verso questi ritorni è alimentata dai partiti di ispirazione straniera, e3 specie dal Fronte di Unità Nazionale. L’Amministrazione ha largamente immesso nei reparti di polizia guardacoste personale arabo per controllare l’immigrazione clandestina. Secondo voci correnti, gli italiani che approdano clandestinamente, se sorpresi da arabi vengono anche derubati e malmenati. Il periodo di punta degli sbarchi clandestini in Tripolitania fu lo scorso agosto: in tal mese si calcola che siano entrati centinaia di italiani. Si ebbero proteste dei capi di partito arabi, ma non ci furono manifestazioni di ostilità da parte dell’opinione pubblica. Fino ad oggi gli immigrati clandestini sono stati circa 2.200, dei quali circa 300 rinviati in Italia. Le autorità hanno però dichiarato che in avvenire tutti quelli che tenteranno illegalmente lo sbarco saranno respinti”.

Situazione delicata: nel Trattato di Pace del 1947 l’Italia dovette lasciare libere dalla sua occupazione coloniale tutte le sue colonie, ma nel 1946 era stato un vano tentativo di mantenere la Tripolitania come colonia italiana assegnando la Cirenaica alla Gran Bretagna ed il Fezzan alla Francia; fino al 1951 la Gran Bretagna amministrò Tripolitania e Cirenaica, e la Francia il Fezzan, in gestione fiduciaria delle Nazioni Unite, mentre la Striscia di Aozou (ottenuta da Mussolini nel 1935) venne riconsegnata alla colonia francese del Ciad. Il finale della storia lo scrisse Gheddafi nel 1969, spodestando il vecchio re Idris, messo su nel 1951 dagli inglesi per via del petrolio, e fondando un regime durato fino al 2011. La colonia italiana – ormai circa 35.000 persone – fu cacciata nel 1970 e i loro beni confiscati.

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Note

  1. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, Notizie sulla situazione in Tripolitania, copia del promemoria C3/H n. 230 del 14 novembre 1946.
  2. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, La posizione dei profughi italiani d’Africa e il P.C.I., copia del promemoria C3/H n. 236 del 13 dicembre 1946.

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