Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Quando in Libia entravamo come clandestini

Nelle mie ricerche di archivio nell’Ufficio Storico della Marina ho trovato alcuni documenti che riguardano le sorti della comunità italiana in Libia nel 1946 (1). In Libia era presente almeno lungo la costa una significativa comunità italiana formata soprattutto da agricoltori, artigiani, operai, pescatori e piccoli commercianti, più i militari e i funzionari dell’amministrazione coloniale. Erano circa 120.000, concentrati soprattutto intorno a Tripoli e Bengasi. Mussolini incoraggiò la creazione di grandi aziende agricole affidate a coloni veneti e meridionali e Balbo avrebbe voluto portare la colonia italiana – già il 13% della popolazione libica – a 500.000 unità, e forse ci sarebbe anche riuscito se non fosse finita come sappiamo: lui abbattuto dal fuoco amico (?), la Libia persa con la guerra. Gli Inglesi in un primo tempo lasciarono la situazione come era, visto che solo i coloni italiani potevano far funzionare quelle aziende agricole, ma gli sfollamenti di guerra e l’ostilità dei locali spinse molti a tornare in Italia. Così un altro rapporto riservato descrive la situazione a Roma (2) :

“La posizione dei profughi italiani d’Africa (ex colonie, Etiopia, Tunisia) è accuratamente seguita dal P.C.I.  – E’ da tener presente che questi profughi, malgrado la loro indigenza e la loro classe sociale (si tratta in genere di contadini, operai e piccoli artigiani, accolti nei campi profughi di Cinecittà a Roma e altrove nel Mezzogiorno) non sono in genere favorevoli alle ideologie dei partiti di sinistra, per l’atteggiamento anticolonialista di questi movimenti. Inoltre sono ancora troppo radicati in questi ex-coloni d’Africa i benefici ricevuti durante l’ex-regime fascista e il passato ricordo del prestigio degli italiani in Africa”.

Il documento prosegue descrivendo l’infiltrazione degli attivisti del P.C.I. tra quelli che, pur definiti “fascisti” e “colonialisti”, potevano comunque convertirsi alla causa. Nel documento si fa anche cenno al tentativo di togliere all’ex-Ministero delle Colonie l’assistenza ai profughi d’Africa per trasferirla al Ministero dell’Assistenza Post-bellica, diretto dal comunista Sereni, “onde eliminare dalla scena sociale una massa di individui, fatalmente portati a giustificare il colonialismo (o “imperialismo”) e a sostenere il ritorno italiano in Africa”. Analisi fredda ma storicamente corretta.

Ma molti italiani cercavano invece di ritornare in Libia per ricongiungersi con la loro comunità e tornare al lavoro nelle piccole industrie e nelle aziende agricole, che il rapporto definisce produttive:

“Alcune industrie si sono avvantaggiate della interruzione delle importazioni dato che, per compensare sul mercato la mancanza di merce di produzione italiana, lavorano a pieno ritmo. Nelle campagne, i cui raccolti delle ultime tre annate sono stati buoni, i coloni proseguono il loro lavoro malgrado la crisi dei prezzi dovuta a sovra produzione”.

Quello che oggi suona paradossale è l’ingresso clandestino dei nostri coloni:

“L’immigrazione degli italiani è un argomento che sta particolarmente a cuore alla nostra comunità, giacché molti sperano di riavere famigliari e parenti a suo tempo rimpatriati. L’ostilità degli arabi verso questi ritorni è alimentata dai partiti di ispirazione straniera, e3 specie dal Fronte di Unità Nazionale. L’Amministrazione ha largamente immesso nei reparti di polizia guardacoste personale arabo per controllare l’immigrazione clandestina. Secondo voci correnti, gli italiani che approdano clandestinamente, se sorpresi da arabi vengono anche derubati e malmenati. Il periodo di punta degli sbarchi clandestini in Tripolitania fu lo scorso agosto: in tal mese si calcola che siano entrati centinaia di italiani. Si ebbero proteste dei capi di partito arabi, ma non ci furono manifestazioni di ostilità da parte dell’opinione pubblica. Fino ad oggi gli immigrati clandestini sono stati circa 2.200, dei quali circa 300 rinviati in Italia. Le autorità hanno però dichiarato che in avvenire tutti quelli che tenteranno illegalmente lo sbarco saranno respinti”.

Situazione delicata: nel Trattato di Pace del 1947 l’Italia dovette lasciare libere dalla sua occupazione coloniale tutte le sue colonie, ma nel 1946 era stato un vano tentativo di mantenere la Tripolitania come colonia italiana assegnando la Cirenaica alla Gran Bretagna ed il Fezzan alla Francia; fino al 1951 la Gran Bretagna amministrò Tripolitania e Cirenaica, e la Francia il Fezzan, in gestione fiduciaria delle Nazioni Unite, mentre la Striscia di Aozou (ottenuta da Mussolini nel 1935) venne riconsegnata alla colonia francese del Ciad. Il finale della storia lo scrisse Gheddafi nel 1969, spodestando il vecchio re Idris, messo su nel 1951 dagli inglesi per via del petrolio, e fondando un regime durato fino al 2011. La colonia italiana – ormai circa 35.000 persone – fu cacciata nel 1970 e i loro beni confiscati.

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Note

  1. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, Notizie sulla situazione in Tripolitania, copia del promemoria C3/H n. 230 del 14 novembre 1946.
  2. Fondo Santoni, Ufficio Trattati, La posizione dei profughi italiani d’Africa e il P.C.I., copia del promemoria C3/H n. 236 del 13 dicembre 1946.

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GUERRA… fino a quando?

Opera di Daniela Passi per la mostra “Bandiera per la Pace”

iamo a giugno e due guerre in corso sono tuttora senza una soluzione a breve termine. Parliamo ovviamente del conflitto in Ucraina e quello a Gaza. Il primo ormai dura da oltre due anni, l’altro “solo” da otto mesi. Si tratta di guerre diverse una dall’altra e diversamente sentite. Geograficamente è più vicina a noi quella che si combatte in Ucraina, ma stranamente la mobilitazione giovanile si concentra piuttosto sulla striscia di Gaza. Eppure se un giorno dovremo andare al fronte, non sarà certo al valico di Rafah. Era dalla Guerra Fredda che non si parlava più di deterrenza, riarmo, ripristino della leva, costose esercitazioni militari in grande scala. La NATO se non fosse stato per l’azzardo di Putin aveva da tempo perso la sua funzione originaria, che era appunto difendere l’Europa da un’invasione sovietica. Europa ambigua come al solito: tutti vogliono aiutare l’Ucraina, ma lo fanno in ordine sparso, senza un vero coordinamento. Forse l’immagine simbolica dell’Europa è proprio Nemo, il cantante che ha vinto l’Eurofestival, metafora del mutante in bilico. Questo mentre a Karkiv (Karchov per i russi) si combatte come nella seconda G.M. (storicamente sarebbe la quarta battaglia) e quasi con le stesse tattiche: droni e missili a parte, i russi hanno solo da poco scoperto l’infiltrazione e continuano a combattere come nelle due guerre mondiali, mandando avanti carri e fanteria su tutto il fronte dopo aver sparato migliaia di colpi di artiglieria. Difficile capire fin dove possono arrivare, i progressi sul campo sono molto lenti e probabilmente cercano di saldare i vuoti nello sparso schieramento tra il Donbass e Odessa. Come ho già scritto, in una guerra di logoramento conta più la capacità di rifornire il fronte di uomini e mezzi rispetto all’arte della guerra vera e propria, dove i russi hanno dimostrato di avere scarso coordinamento fra le armi e una scuola di guerra antiquata. Ma hanno dalla loro parte risorse demografiche e industriali quasi infinite e questo alla lunga conta. Le varie iniziative di alcuni stati europei di reintrodurre il servizio di leva o di potenziare la produzione di armamenti richiedono tempo e risorse. In più, c’è una generazione per motivi storici totalmente estranea all’idea stessa di guerra in casa, e se gli ucraini stessi faticano a convincere i loro giovani ad andare al fronte, figurarsi gli altri. Nel frattempo anche a Gaza si continua a morire e ci si chiede che fine abbia fatto l’ONU.

Resta inoltre un problema di non poco momento: come analizzare i dati di una guerra. E’ chiaro che ogni parte tira l’acqua al proprio mulino, la propaganda e la disinformazione sono sempre esistite e adesso sono amplificate dai social e dai nuovi mass media. In genere io capisco se la fonte è russa o ucraina dalla grafia con cui sono scritti i nomi delle città e dei villaggi e seguo in genere più fonti insieme cercando di avere anche mappe aggiornate del terreno di scontro, ma foto e documenti vanno sempre vagliati con attenzione. Molti giornalisti vengono cacciati o perseguitati, quindi è difficile avere un quadro realistico del fronte, sia quello ucraino che quello palestinese. L’importante è controllare le fonti e non credere mai troppo neanche alle foto o ai brevi video (commentati sempre con musica rock, ndr.): ormai con l’IA è possibile anche creare dei falsi perfetti. Il vecchio metodo della storiografia – raccogliere documenti originali e analizzarli – si deve aggiornare ai tempi nuovi. E propone nuove sfide agli analisti.

Ramadan e dintorni

Cos’è il Ramadan l’ho scoperto molti anni fa lavorando per due mesi fra Mali e Bourkina Faso: pur con varianti locali, ovunque era tutto chiuso e in ufficio il personale musulmano era praticamente inutilizzabile (lo diceva già Kipling) per via del digiuno in paesi dove ogni giorno già si mangiava poco. Quest’anno invece sembra sia esplosa la scoperta e il confronto con quello che le comunità musulmane in Europa praticano non certo da quest’anno. Come mai tanto risalto, in parte dovuto alla brutta abitudine di un certo giornalismo che sfrutta le notizie come se avesse trovato un filone aurifero in miniera, le c.d. “notizie a caduta”, dove sembra che per un mese intero i cani feroci mozzichino tutti o che decine di minori siano insidiati dallo zio. Lo dico perché andiamo oltre le polemiche sulla scuola di Pioltello chiusa per prevedibili assenze di tre quarti degli studenti e la pretesa degli studenti dell’Università di Bologna di sospendere le lezioni in caso analogo, più gli spazi pubblici concessi o negati per quelle che per la Questura dovrebbero essere solo manifestazioni statiche autorizzate su suolo pubblico. Monfalcone è un caso di scuola e negare gli spazi a una comunità in crescita non è il sistema migliore per conviverci. Perché il punto è proprio questo: se cinquant’anni fa i musulmani in Italia erano poche migliaia, ora sono almeno due milioni, per la maggior parte immigrati con le ondate dell’ultimo ventennio, e in più, essendo una comunità giovane e prolifica, sta iniziando a chiedere i suoi spazi. E’ una dinamica sociale e politica comprensibile e non sarebbe la prima volta nella storia della democrazia che una nuova realtà sociale, politica e religiosa si pone come nuovo attore nella vita collettiva. Problema già affrontato non senza contrasti da altri paesi europei, ma sembra sempre che i nostri politici non abbiano mai viaggiato e non leggano i giornali degli altri.

La soluzione? Un Concordato tra lo Stato e  l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (abbreviato in UCOII), analogo ai Patti Lateranensi firmati nel 1929 e aggiornato nel 1984, dove si mettevano per iscritto le regole di convivenza fra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica. L’UCOII riunisce 153 associazioni sia territoriali che di settore e gestisce circa 80 moschee e 300 luoghi di culto non ufficiali, quindi ha tutte le carte in regola per proporsi come ente negoziale. Questo metterebbe fine al caos normativo creato finora da sentenze di tribunale, ordinanze di singoli sindaci e assessori, iniziative di singoli presidi, ricorsi legali e polemiche sui giornali di partito. Abbiamo un Parlamento ed è ora di sistemare la questione come si è fatto a suo tempo con il Vaticano.

Il bando messo al bando

Le più importanti università italiane (Roma, Torino, la Normale di Pisa, la Statale di Milano) stanno boicottando l’accordo di cooperazione fra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) e  il Ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia (MOST) per la parte israeliana. Lo fanno per solidarietà con Gaza e l’atteggiamento del singolo rettore e senato accademico è ambiguo: nella mozione della Normale di Pisa si afferma “la necessità di ispirare le attività di ricerca e di insegnamento al rispetto dell’articolo 11 della Costituzione, che prescrive il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Per questo si impegna “a esercitare la massima cautela” nel valutare accordi istituzionali collaborazioni scientifiche “che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari e alla messa in atto di forme di oppressione, discriminazione o aggressione a danno della popolazione civile, come avviene in questo momento nella striscia di Gaza”. Ma a questo punto vediamo cosa prevede il bando che ha spaccato l’università italiana. E’ pubblicato nel sito ufficiale del MAECI (1) e così recita:

Si richiedeva la presentazione di progetti congiunti di ricerca italo-israeliani, nelle seguenti aree di ricerca, entro mercoledì 10 aprile 2024 (ore 16.00, ora italiana):

1. Technologies for healthy soils (i.e. – novel fertilizers, soil implants, soil microbiome etc.)

2. Water technologies, including: drinking water treatment, industrial and sewage water treatment and water desalination

3. Precision optics, electronics and quantum technologies, for frontier applications, such as next generation gravitational wave detectors

Il testo ufficiale è stranamente stilato in inglese, mentre tutto il resto del documento (15 pagine) è in italiano e contiene una lunga serie di disposizioni amministrative: in tutto verranno selezionati 11 progetti congiunti con il finanziamento massimo totale di 1,1 milioni di euro. Per ogni singolo progetto il MAECI finanzia un massimo di 200 mila euro e comunque  non oltre il 50% dei costi indicati nel preventivo. I progetti di ricerca avranno la durata massima di due anni con il Ministero che cofinanzia i costi di personale, viaggi, materiali e attrezzature, spese per pubblicazioni, consulenze e spese generali.

Cercando ora di capire il testo in inglese, al punto 1 si parla di tecnologie agricole (nuovi fertilizzanti, impianti nel suolo, microbioma, pannelli solari), mentre il punto 2 si concentra sulle tecnologie dell’acqua (potabilizzazione, trattamento delle acque reflue e/o provenienti da impianti industriali, desalinizzazione). Il punto 3 invece parla di ottica di precisione, tecnologie quantistiche per applicazioni sperimentali in fase di sviluppo e non ancora disponibili per usi commerciali, come p.es. rilevatori di onde gravitazionali di prossima generazione. Una doverosa traduzione ufficiale (il MAECI è un ente di Stato italiano) o almeno un testo bilingue gioverebbe senza ambiguità  alla comprensione del contenuto, ma il punto è un altro: nel testo non si fa cenno a ricerche nel campo militare. E infatti nella mozione studentesca – fortemente ideologica, neanche a dirlo – si allude a collaborazioni scientifiche “che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari”. Quali? Non tanto quelle incentrate sui fertilizzanti (punto 1) ma casomai quelle che riguardano le ottiche di precisione e l’elettronica (punto 3), mentre non è chiaro se le tecnologie quantistiche sperimentali per lo sviluppo dei futuri rilevatori di onde gravitazionali possono avere un reale collegamento con l’industria militare, Invece nel bando non si parla stranamente di aerospaziale, che è invece il classico campo di uso duale della tecnologia di frontiera. Ma a loro replica Noemi Di Segni, presidente delle comunità ebraiche in Italia (UCEI) che ha definito il boicottaggio delle università israeliane “la cosa più assurda che abbiamo sentito pretendere (e che) non favorisce dialogo, pace, sapere e approfondimento, che sia verso le università israeliane, i singoli docenti, o anche soggetti di religione ebraica“.

Ma se nel bando non c’è traccia diretta di quanto temuto è perché la ricerca e lo sviluppo della tecnologia militare tra Italia e Israele non passano per l’università, ma sono legate piuttosto ai grossi gruppi industriali della difesa e aerospaziali, come Leonardo e le imprese a loro collegate. L’Italia per la difesa può solo far parte di alleanze, e queste scelte sono state fatte dal dopoguerra. E’ normale che tra alleati ci si scambino informazioni, tecnologie, ricercatori, mezzi materiali. L’esportazione di tecnologia militare non è coperta dal segreto di Stato, tutto è pubblicato ufficialmente dal Parlamento. Per il 2021 p.es. basta leggere il documento reperibile in rete e intitolato:

SENATO DELLA REPUBBLICA / XVIII LEGISLATURA / Doc. LXVII  n. 5

RELAZIONE SULLE OPERAZIONI AUTORIZZATE E SVOLTE PER IL

CONTROLLO DELL’ESPORTAZIONE, IMPORTAZIONE E TRANSITO DEI MATERIALI DI ARMAMENTO (Anno 2021) / (Articolo 5 della legge 9 luglio 1990, n. 185) / Presentata dal Presidente del Consiglio dei ministri (DRAGHI)

Comunicata alla Presidenza il 5 aprile 2022

Sono 1628 pagine e invitiamo chi avesse dubbi in materia a studiarselo. Negli ultimi dieci anni le aziende italiane hanno venduto a Israele tecnologia militare e armamenti per 120 milioni di euro, ma gli acquisti arrivano quasi a 250 milioni, pur con alti e bassi (2). Nel 2022 Israele ha ricevuto armi da aziende italiane per quasi 9,3 milioni di euro. Israele è comunque solo una parte dell’insieme: nel 2022 le aziende italiane hanno esportato armi nel mondo per un valore complessivo di circa 5,3 miliardi di euro. In questa somma sono compresi i costi delle intermediazioni fra i vari Paesi, le licenze e le autorizzazioni alla vendita. Nel complesso il valore delle autorizzazioni alla vendita di armi ammonta a circa 3,8 miliardi di euro. Il primo Paese a cui nel 2022 l’Italia ha venduto armi è stato la Turchia (598,2 milioni di euro), seguita dagli Stati Uniti (532,8 milioni) e dalla Germania (407,2 milioni). Ma a complicare i dati c’è la realtà di una serie di ricerche e prodotti “dual use”. La tecnologia avanzata ha ricadute sia nel campo militare che in quello civile: basta pensare all’elettronica, all’informatica, alle telecomunicazioni, all’aerospaziale, allo sviluppo dei semiconduttori, al punto che è difficile fare discriminazioni se non per quanto riguarda le armi vere e proprie. Pertanto la voce “tecnologia militare” non va intesa in senso assoluto. In questo senso, anche se ragionando in senso inverso, interviene lo storico Franco Cardini: ogni accordo universitario può avere scopi bellici (Corriere Fiorentino del 9 aprile). D’altro canto le università italiane hanno rapporti di collaborazione con mezzo mondo, ma non tutti i paesi coordinati sono democratici e rispettosi dei diritti umani: gli accordi in vigore p.es. stipulati dall’Università di Bari “Aldo Moro” comprendono l’Iran, la Russia e la Turchia (3). Ostacolare la ricerca scientifica e/o la cultura è non solo antidemocratico, ma controproducente, e su questo la UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane) è stata ferma, parlando attraverso  la presidente Noemi Di Segni: “Sono contraria al boicottaggio accademico d’Israele. Le collaborazioni tra università, tra comunità di scienziati, tra studenti sono importanti. Sono un’occasione di incontro e dialogo per capire diversi approcci. Se si vuole costruire un futuro più pacifico, la strada non è il boicottaggio”. (4). Nel frattempo 8000 fra artisti e intellettuali hanno firmato un documento per vietare la presenza di artisti israeliani alla Biennale d’arte di Venezia (20 aprile- 24 novembre) (5). L’artista ebreo Ruth Patir, oltre ad avere uno spessore artistico di tutto livello, in realtà è contro la politica di Netanyau (6), ma evidentemente questo non basta. Nel frattempo il presidente Mattarella il 12 aprile è intervenuto direttamente nel contesto, dichiarando testualmente che “le università sono la culla della libertà di pensiero, da sempre esprimono il dissenso anche contro il potere e devono essere libere di continuare a farlo, ma chiudere la collaborazione con altri atenei è sbagliato perché, se si taglia il dialogo anche con università di Paesi impegnati in crisi o conflitti, si rischia di ottenere l’effetto opposto, cioè quello di aiutare il potere, quello peggiore”. 

Eppure anche in questo caso è utile non censurare niente, questo si è ribadito anche quando hanno cercato di boicottare i film russi alle mostre del cinema: sono proprio quelli i luoghi per conoscere gli altri e le loro idee, è l’incontro e scontro con opinioni diverse, il Foro dove confrontare le molteplici visioni del mondo, magari anche litigando. Ricerca scientifica e culturale alla fine promuovono l’interazione, lo scambio, la crescita sociale e politica. Proprio per questo non va ostacolata né censurata in nome dell’ideologia.

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Note

  1. https://www.esteri.it/it/diplomazia-culturale-e-diplomazia-scientifica/cooperscientificatecnologica/accordi_coop_indscietec/
  2. https://pagellapolitica.it/articoli/commercio-armi-italia-israele
  3. https://www.uniba.it/it/internazionale/network/accordi-di-cooperazione-internazionale
  4. https://www.osservatorioantisemitismo.it/articoli/universita-lo-sdegno-degli-ebrei-italiani-per-il-boicottaggio-di-israele/
  5. https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/italia/alla-biennale-di-venezia-gli-artisti-contro-israele-chiedono-il-boicottaggio/
  6. https://www.pikasus.com/biennale_arte_2024/padiglione-israele-biennale/

La pigrizia linguistica in Translate

Da quando i traduttori automatici sono migliorati – fino a qualche anno fa non erano tanto convincenti – mi chiedo quale futuro si prospetta per le scuole di lingue e più in generale l’apprendimento delle lingue straniere. I sistemi più recenti di traduzione automatica anche in voce sono stati resi possibili dai rapidi miglioramenti nel campo dell’intelligenza artificiale e in particolare dei processi di machine learning, cioè le attività di apprendimento dei computer tramite i dati. Sono di conseguenza sistemi che funzionano molto bene con le cosiddette lingue ad alta disponibilità di risorse, come l’inglese ma anche l’italiano, di cui esistono grandi quantità di dati.Perché è chiaro che, almeno in certi ambiti, l’uso di Google Translate, Reverso, DeepL Translate più l’intelligenza artificiale hanno ridotto drasticamente il mercato dei professionisti. Un ufficio commerciale che debba mandare una richiesta al suo corrispondente indonesiano può anche compilarla in quella lingua anziché in inglese. Mi sono anzi meravigliato non tanto del numero di lingue parlate nel mondo, ma di quante sono registrate nei traduttori automatici, segno che c’è una richiesta e anche un numero di parlanti che possa giustificare l’investimento. Siamo quasi arrivati al traduttore universale utilizzato in varie serie di Star Trek (una serie che i meno giovani si ricordano), in particolare dalla ufficiale addetta alle comunicazioni, la guardiamarina Hoshi Sato in Star Trek: Enterprise. Si tratta di un dispositivo che fa esattamente ciò che il nome lascia intuire, ossia traduce qualsiasi lingua permettendo di far comunicare gli alieni con gli esseri umani dell’equipaggio dell’Enterprise. Ogni tanto la fantascienza ci azzecca, ed è interessante notare i criteri seguiti dagli ideatori di Star Trek:

Accadde nel 2267 che il capitano Kirk della USS Enterprise ne utilizzò uno per comunicare con l’alieno conosciuto come il Compagno nella regione Gamma Canaris. Nel rispondere alla domanda di Zefram Cochrane circa la teoria del funzionamento, Kirk spiegò che esistono certe idee e concetti universali e comuni a tutte le forme di vita intelligente. Il traduttore confronta le frequenze degli schemi delle onde cerebrali, seleziona le idee che riconosce, e fornisce la grammatica necessaria. Kirk successivamente spiegò che il dispositivo genera una voce, o una sua approssimazione, che corrisponde ai concetti di identità da esso riconosciuti. Il Compagno si rivelò come appartenente al genere femminile perché il traduttore universale rilevò quest’aspetto della sua identità dai suoi schemi cerebrali, assegnandogli una voce femminile.(TOS: “Guarigione da forza cosmica”).Ma il traduttore universale talvolta era fallace. Per esempio, fu capace di tradurre letteralmente le parole dei Tamariani, ma non fu in grado di interpretare il modo di parlare metaforico dei Tamariani in un discorso facilmente comprensibile. Il traduttore inoltre mancò di comprendere le sfumature di numerosi verbi transitivi del Dominionese. (TNG: “Darmok”; DS9: “Probabilità statistiche”)”. (1)

Ebbene, Mark Zuckerberg ha confermato: è pronto il suo primo sistema di traduzione per le lingue non scritte basato sull’intelligenza artificiale. La tecnologia sviluppata da Meta è frutto di una lunga ricerca condotta sull’Hokkien, un insieme di dialetti di Taiwan.  Parlato soprattutto dai cinesi emigrati, l’Hokkien non ha – come il 40% delle lingue e dialetti – alcuna forma scritta. Lo stesso CEO di Meta, durante l’evento streaming “Meta Inside the Lab: costruire il Metaverso con l’AI” aveva dichiarato che “la capacità di comunicare con chiunque in qualsiasi lingua è un superpotere che le persone hanno sempre sognato e l’intelligenza artificiale ce la consegnerà nel corso della nostra vita”. La ricerca sull’Hokkien è un passo per l’Universal Speech Translator, ossia un sistema in grado di fornire una traduzione vocale in tempo reale di tutte le lingue. Ma già Samsung, p.es., promuove da mesi una funzione di traduzione istantanea delle telefonate disponibile su un suo modello di smartphone. A settembre Spotify ha avviato con OpenAI, l’azienda produttrice del software ChatGPT, un progetto sperimentale di traduzione vocale dei podcast in altre lingue mantenendo le voci originali di conduttori e conduttrici.

Ma come avevo intuito, queste facilitazioni levano lo stimolo alla comprensione delle lingue straniere. Negli Stati Uniti sono diminuite del 29,3 per cento dal 2009 al 2021. In Australia la quantità di studenti delle superiori che studiavano una lingua straniera nel 2021 è stata la più bassa di sempre (8,6 per cento). E in Corea del Sud e Nuova Zelanda le università stanno chiudendo i dipartimenti di francese, tedesco e italiano. Anche la conoscenza dell’inglese è diminuita tra i giovani, secondo un rapporto di EF Education First, una società internazionale che organizza corsi di lingua inglese e scambi culturali in tutto il mondo. E nel regno Unito la scarsa attrazione dell’Erasmus per gli studenti inglesi è la loro scarsa motivazione a imparare una seconda lingua (2).

E qui va inquadrato il vero problema: s’indeboliscono la comprensione e gli scambi tra culture diverse. Una lingua non è solo un vocabolario con una grammatica e una sintassi, ma l’espressione di un mondo, di una cultura, di una società. Traducendo le lingue senza conoscerle si arriva al relativismo: sono tutte sullo stesso livello come le culture che le parlano e che non abbiamo la curiosità di conoscere. Per anni ho visto nei festival e nei cineclub film anche di tre ore parlati e sottotitolati nelle lingue più strane, ma ero spinto a vederli non per autolesionismo, ma perché mi facevano entrare di persona in mondi di cui non conoscevo l’esistenza o che credevo di capire per aver letto l’Espresso e Panorama o qualche romanzo premio Nobel africano o sud americano. la lingua non è un mezzo di trasmissione del pensiero, ma un modo di interpretare la realtà stessa. Imparare una nuova lingua equivale, sotto molti aspetti, ad apprendere un modo nuovo di vedere il mondo e di pensare. La parte umana delle relazioni è il fattore più importante non soltanto nello studio delle lingue, ma in qualsiasi scambio tra culture diverse. Per questo ai giovani direi: usate pure traduttori e intelligenza artificiale, ma sviluppate anche la vostra, e soprattutto siate curiosi.

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Note:

  1. https://memory-alpha.fandom.com/it/wiki/Traduttore_universale
  2. https://www.ilpost.it/2024/04/18/intelligenza-artificiale-lingue-straniere/