Nanni Moretti: I primi sessantanni

Rivedere dopo tanti anni Io sono un autarchico (1976) mi ha fatto impressione, era come rivedere una Roma ormai lontana e storicizzata. Eppure Alberto Moravia notò che al Filmstudio, dove il film veniva proiettato, non c’era differenza tra il pubblico e quanto si vedeva nella pellicola. L’identificazione era dunque immediata e questa fu la fortuna del film e del suo giovane regista, che dal superotto sarebbe passato al 35 mm (in realtà un 16 mm gonfiato) con Ecce Bombo (1978), il film con cui ha consolidato la sua carriera. Pochi ricordano Sogni d’oro (1981) ma sicuramente hanno visto Bianca (1984) e i film successivi, cinematograficamente più maturi, che non analizzo in questa sede, ma in cui è facile notare una progressiva estensione a tutta la società italiana dell’analisi partita dal privato, sulla base di un pensiero etico che pochi registi italiani hanno sviluppato in modo così rigoroso. Faccio piuttosto notare che la critica cinematografica, e non solo quella ideologicamente schierata, fu con lui fin dall’inizio molto clemente, mostrando un entusiasmo unico nel suo genere e sorvolando sulle inevitabili smagliature di un’opera prima. Meno fortuna e clemenza ebbero infatti negli anni ’80 le opere dei suoi seguaci, all’epoca indicati collettivamente come morettismo, sorta di commedia all’italiana a passo ridotto sulle inconcludenti giornate e i tic nervosi dei giovani della sinistra studentesca.(1). A far carriera sono stati pochi, e qui mi piace ricordare Daniele Luchetti, Roberto Di Vito e Claudio Fragasso. I primi due sono stati anche aiuto registi, di Moretti, mentre Fragasso , dopo un fortunato inizio realistico (Passaggi, 1979) seguirà strade diverse (Difendimi dalla notte, 1981), sviluppando un reale talento per l’horror (2). Ma anche Luchetti e Di Vito si sono affermati in quanto autonomi e diversi dal maestro; il primo con Domani accadrà (1988) (3), l’altro con creazioni sospese tra realismo e immagine onirica (4). In realtà Roma non era solo la capitale del cinema industriale, ma anche di quello amatoriale, svincolato ormai dalla FEDIC (la gloriosa Federazione dei cineclub) e dal Festival di Montecatini che li valorizzava. I cineclub romani sono tutti figli del ’68 (Filmstudio, Politecnico, Occhio Orecchio Bocca, Cineclub Tevere poi Labirinto) i quali, oltre a proporre il cinema che non si vedeva in sala, incoraggiavano tutti noi a prendere in mano una cinepresa e a mettersi in gioco. Ricordo benissimo, p.es., la stagione dell’Underground,  che, pur entro i limiti di una cultura di importazione, resta un episodio degno di essere ricordato. Era l’epoca d’oro del cortometraggio e ne avrò visti centinaia, italiani e stranieri. Negli anni ’80 assistiamo invece a un fenomeno strano: il cinema italiano ha proposto in sala almeno 450 esordienti in dieci anni. Tenendo conto che nello stesso periodo la televisione privata stava divorando il cinema italiano per poi digerirlo, tuttora è poco chiaro come facessero tanti autori finanche privi di scuola di cinema a sfornare opere prime, totalmente scollate dalle strutture produttive e distributive, festival esclusi. C’era ancora l’articolo 28 (una legge del Ministero dello Spettacolo che finanziava il cinema d’autore), ma la distribuzione era già al collasso e di troppi autori non si è saputo più nulla. Di quel periodo ricordo bene solo un film: I ragazzi di Torino sognano Tokyo ma vanno a Berlino (1985), per la regia di Vincenzo Badolisani, che oggi lavora in tv senza troppa gloria. Di tanti altri non riesco a ricordarmi che poche scene o alcune frasi di dialogo, mai incisive e caratterizzate come quelle di Nanni Moretti, ormai divenute proverbiali. Solo lui infatti è riuscito a diventare paradigma, cioè modello di riferimento, magari odiato dalla cultura di destra, che non vedeva i suoi film ma si gratificava nel contemplare dall’esterno il declino dell’intellighencija. Altri lo ignoravano come lo ignorano tuttora: semplicemente non lo capiscono. E a rivedere Io sono un autarchico, si notano gli stessi pregi e limiti dei film successivi: idee originali sviluppate con ritmo ponderato, la tendenza dell’autore a rubare la scena, il minimalismo e soprattutto il primato della parola sull’immagine. Nel complesso, nessuno ricorda i film di Nanni per i movimenti di macchina o per la fotografia: il suo è un cinema fortemente concettuale, incapace forse di partire da un’immagine, ma capace però di anticipare i tempi invece di registrare quanto esiste. Habemus Papam (2011) è un film emblematico: la sua tesi era considerata con scetticismo dall’Osservatore romano, fino a quando due anni dopo la realtà ha superato la fantasia. Nanni Moretti è lentamente cresciuto come regista quando è passato dalla descrizione del quotidiano all’analisi profonda della società italiana. E non sono molti tutto sommato i registi che hanno l’Etica come fondamento della loro cinematografia.

  Nanni Moretti index

 

 

 

 

 

 

 

 

Note.

 

 

 

 

 

 

 

  • (4) Roberto Di Vito è il vero cineasta indipendente, impossibile collegarlo a scuole o maestri o capire a cosa sta pensando. Quando girava in superotto, non di rado gli prestavo io le attrezzature necessarie e sono contento che abbia fatto carriera. Tra me e lui è rimasto un grande rapporto di amicizia. Assistente alle riprese per due film di Nanni Moretti (Bianca e La messa è finita). Segretario di edizione del film La setta di Michele Soavi. Regista, operatore e montatore video di backstage di importanti spot pubblicitari, tra i quali tre per la Banca di Roma diretti da Federico Fellini. Lavora sui set di Phenomena, Opera e Due occhi diabolici di Dario Argento. Esordisce ufficialmente alla fine degli anni Ottanta con un cortometraggio thriller La notte del giudizio, anche se in realtà ha cominciato a quindici anni girando una quarantina di cortometraggi in super8, alcuni dei quali devono molto all’estetica autarchica del primo Nanni Moretti. Ma è con Sole (1994), vincitore del premio del pubblico al Festival di Capalbio 1995, che si delinea una cifra autoriale più precisa: «Questa volta si tratta di un thriller esistenziale, psicologico, in cui la paura si alimenta di se stessa» spiega Di Vito. «La protagonista si lascia prendere dall’angoscia in una situazione di assoluta normalità. La casa, da rifugio ovattato, da “casa dolce casa”, si trasforma a poco a poco in un luogo ostile, pieno di rumori e presenze inquietanti. Sono stati d’animo che riguardano ognuno di noi, anche in età adulta. Quante volte, di notte, ci svegliamo improvvisamente con la sensazione che qualcuno sia entrato nella nostra camera da letto?». Ma se qualcuno ha voluto etichettare l’allora trentatreenne come uno dei nuovi cineasti horror, si è sbagliato di grosso. A Di Vito interessano gli spazi, i luoghi, gli stessi corpi attoriali che tendono all’astrazione. «Astrazione non vuol dire però sperimentazione estraniante, concettuale e noiosa. Io punto all’opposto, vorrei commuovere, emozionare e far sognare non partendo solo dalla storia o da quello che si dice ma anche da quello che non si dice. Da questo punto di vista, l’ambizione espressiva è alta: arrivare al cinema “commerciabile” ma puro, senza un grande intreccio narrativo». Il cortometraggio successivo, forse il capolavoro del regista, Ai confini della città, è un amaro apologo di una civiltà e di più generazioni allo sbando, all’interno di una Roma inedita, completamente svuotata, pronta alla desertificazione, molto vicina ai paesaggi apocalittici di Ciprì e Maresco.Vincitore di svariati premi, tra i quali il Globo d’Oro nel 1998, segna anche il passaggio verso un approfondimento di tematiche sempre più personali: l’attenzione verso gli ultimi, condito da un realismo magico ambientato in luoghi mai banali, dal corto comico, interpretato da Stefano Masciarelli, Il parco (2000), all’astratto Righe (2001) e all’intenso L’angelo (2004). Per arrivare poi all’agognato esordio al lungometraggio Bianco, rielaborazione dell’omonimo cortometraggio del 2001, summa del cinema corto del regista con echi tra Polanski e Antonioni. Dopo aver partecipato al Fantafestival e Bari International Film Festival 2011, arriva finalmente in dvd, distribuito da CG Home Video. «Non è facile imbattersi nel panorama asfittico delle opere prime, molte delle quali terribilmente omologate, in un film come quello di Roberto Di Vito, così attento ai valori plastici e figurativi della composizione, della messa in quadro geometrica e rigorosa di ossessioni visive ed esistenziali, tali da renderlo, al di là del pretesto narrativo, particolarmente adatto ad esplorare i territori del fantastico, da decenni assai poco proficuamente praticati nel cinema italiano». 

(Anton Giulio Mancino).

 

 

Un pensiero su “Nanni Moretti: I primi sessantanni”

  1. Complimenti Marco e grazie.
    Grazie perchè attraverso il tuo articolo sono ritornato a quegli anni. Ed è vero quello che tu affermi che tra il pubblico e il film che scorreva non c’era nessuna differenza. Anch’io, come tanti giovani, ero al filmstudio e percepii quell’atmosfera, percepii anche (a livello olfattivo) quell’aria che spesso si poteva sentire al cinema Farnese. Conserverò con cura l’articolo anche perchè, pur essendo frequentattore (come tanti) di cineclub, mi sono perso alcuni fatti e avvenimenti che tu citi.
    Grazie e complimenti ancora.
    Paolo Cazzella

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