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Quando la Musica non placa l’irrequietudine

Negli anni ’60 molti artisti pop erano attratti dal buddismo e dalle religioni asiatiche in genere, oggi le tendenze sono più diversificate. Intendo parlare delle conversioni di Cat Stevens e di Sinead O’Connor all’Islam. Quella di Cat Stevens (oggi Yusuf Islam) avvenne in circostanze da lui spesso ribadite: nel 1977 stava per annegare a Malibu (California) e questa fu la rivelazione sulla via di Damasco. Da quel giorno si ritira dalle scene, vende le chitarre e diventa un attivista e membro influente della comunità islamica di Londra, al punto di aprire anche la Islamia Primary School e finanziare una serie di attività umanitarie, ma provocando anche la reazione e il boicottaggio dei suoi fan quando nel 1989 difende la fatwa (condanna religiosa) contro Salman Rushdie per i suoi Versetti satanici. Da quel momento il mondo musicale gli è ostile e nel 2004 si vede rifiutare il visto per gli Stati Uniti dopo l’attacco alle Torri Gemelle (2001). Fa però a fine secolo un ben documentato viaggio in Bosnia (1), all’epoca fresca di guerra civile, finanziando attività umanitarie islamiche e cantando in pubblico a Sarajevo (2) per la prima volta dopo molti anni. Ha ripreso a cantare e a tenere concerti praticamente da quest’anno e uno si è anche tenuto a Roma il 18 giugno all’Auditorium Parco della Musica. Yusuf/Stevens ha ormai 75 anni ed era visibilmente invecchiato, ma i suoi fan non l’hanno tradito.

Sinead O’Connor (ora Shuhada Sadaqat) è un caso diverso. La sua conversione è stata presentata come una delle tante mattane di una instabile mentale, ma è un giudizio affrettato e non rende giustizia del rapporto profondo e conflittuale dell’artista con la religione, e chissà che qualcuno non ci faccia la tesi di laurea in teologia. Irlandese di nascita e quindi cattolica, Sinead è sempre stata profondamente religiosa. Nel 1992, ospite del Saturday Night Live, durante la sua performance distrusse una foto di Papa Giovanni Paolo II, vent’anni dopo ha definito le dimissioni di Ratzinger «una saggia decisione». Sono atteggiamenti tipici di un credente, non di uno scettico. In un’intervista, dichiarò infine di volere «salvare Dio dalla religione». Negli anni ’90 Sinead si era fatta addirittura “preta”, ordinata da una setta scissionista cattolica di nome Irish Orthodox Catholic and Apostolic Church e le foto la ritraggono in abiti ecclesiastici. Poco si sa di questa chiesa cattolica scissionista, ma sicuramente la preparazione teologica di Sinead  non era superficiale. Ed ecco nel 2018 il gran finale:

 “Sono orgogliosa di essere diventata musulmana. Questa è la conclusione naturale di un viaggio di ogni teologo intelligente. Lo studio di tutti i testi porta all’Islam e rende tutti gli altri inutili”

Non sono parole di una popstar, ma di una mistica. Anche se gli atteggiamenti possono sembrare plateali, Sinead O’Connor è assimilabile a Ildegarda di Bingen, monaca benedettina, scrittrice, mistica, teologa e grande musicista, la prima donna a firmare con il suo nome alle proprie composizioni musicali religiose (3). Anche Sinead O’Connor ha avuto con la religione un rapporto comunque profondo, tormentato e lo ha trasmesso anche alla musica. Per questo va rispettata.

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Note:

  1. https://catstevens.com/tag/bosnia/
  2. https://www.youtube.com/watch?v=jmVMcMfxm5Q
  3. https://www.santa-ildegarda-di-bingen.it/

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Gina Bersaglié

Con Gina Lollobrigida scompare forse la penultima (ci resta la Loren) delle dive “nostrane” ,figlie del dopoguerra, del disagio di quelli anni difficili, un po’ provinciali ma con tanta grinta e coraggio da farle capaci di attraversare il turbine della guerra, il travaglio della povertà, i disordini politici, l’affermazione della democrazia in Italia, il cosiddetto “Boom” economico e, non ultimo, l’avventura hollywoodiana!… La nostra Gina nazionale (insieme alla Loren) dopo l’esplosione della cosiddetta “maggiorata” (famoso l’episodio di Blasetti di “Il processo di Frine” nel quale uno scatenato Vittorio de Sica usò per primo questo termine!) con la sua tenacia e la sua volitiva personalità volle affermarsi anche come interprete e attrice: desiderio che ahimè rimase sempre incompiuto perché poche furono le occasioni che ebbe per distinguersi aldilà della sua bellezza.

In genere le furono concessi ruoli che si affidavano al suo fisico perfetto e a un po’ di umorismo nostrano, tanto che anche oggi rimane il suo pseudonimo di ” bersagliera” in “Pane ,amore e fantasia” che poi, a parte il successo del film, è un filmetto di quel neorealismo rosa che tanto imperversò negli anni ’50…. A questo riguardo la Lollo orgogliosamente affermava, per le poche occasioni che aveva avuto, che al contrario di altre (la Loren) lei “non aveva sposato un produttore”, e doveva tutto solo a sé stessa!… La sua avventura nella Mecca del cinema americano diede qualche frutto e qualche film soprattutto spettacolare che più che altro servì a rinforzare il mito internazionale della sua bellezza mediterranea. Ma dietro questa levigata bellezza c’era una donna forte, intelligente, coraggiosa, ammirata oltre che da noi, in Francia, in America, dovunque affermando l’icona proverbiale della sua sicura personalità.

In quelli anni la nostra Gina ebbe occasione di confrontarsi con alcune leggende femminili d’oltreoceano, soprattutto l’indimenticabile Marylin Monroe, in cui risaltò il carattere e la sicurezza della nostra attrice rispetto alla scoperta fragilità della Monroe (cosa che già aveva posto in risalto anche la Magnani al tempo del suo Oscar nell’incontro con la biondissima!)… Lollobrigida, la Magnani, la Loren: tutte dive nostre ma con un denominatore comune: la fierezza anche delle loro umili origini, la creatività, lo spessore umano e la forte capacità interpretativa che, in terra americana, seppe risaltare appieno rispetto ad altre dive e problematiche di donne e attrici “vittime” di una fragilità e di una sofferenza pur imposta forse dalla terribile ghigliottina spietata dei loro “media”, dello “Star-system” e della logica americana del successo che logora :penso, oltre la Monroe, a Judy Garland, a Jane Mansfield, a Liza Minnelli e al mito di Jeane Harlow… Le nostre dive, soprattutto la Lollobrigida che oggi piangiamo, seppe conservare la sincerità, la franchezza e la solidità delle sue origini; ecco perché oggi la ricordiamo con affetto e la ammiriamo come una nostra piccola eroina, un po’ sfacciata e orgogliosa della sua terra e delle sue tradizioni di cui anche noi viviamo e godiamo. Per tutto questo volentieri e con affetto salutiamo una ultima volta la Lollo come fece allora de Sica: “…Salutammo bersaglié!”

Un volto antico, per una musica moderna

Una musica trasgressiva e stimolante, quella di Kirk, che traeva la sua fonte di ispirazione dal ricco patrimonio musicale e dal folklore afroamericano: dal blues (del quale era un grande interprete e un prolifico compositore), alla church music, al soul.

Il tempo ha la straordinaria capacità di lasciare intatta dietro di sé, una quantità di ricordi e di sensazioni che possono affiorare improvvisamente, e inaspettatamente, a distanza di anni, per dar vita a rinnovati stimoli e a percezioni concernenti una sfera della realtà mai dimenticata; crepitante sotto le ceneri della storia minore in esilio temporaneo nel subconscio collettivo. L’eredità del passato, alla stregua di un fantasma jamesiano, vaga irrequieta alla ricerca della sua identità dissolta ma immanente, altrimenti incorruttibile. “La carne è sepolta – fa dire William Goyen a un personaggio protagonista della novella: Raccontami la storia della povera Pezzie – ma abbiamo ancora il fantasma. La tomba della povera Pezzie contiene soltanto metà della storia … l’altra resta ancora da dire”.

Faccio mia questa citazione al preciso scopo di presentare il “fantasma” di un musicista di jazz, conosciuto soprattutto fra la ristretta cerchia degli appassionati: mi riferisco a “Rahsaan” Roland Kirk.

Nato a Columbus, Ohio, nel 1936, Kirk ebbe una infanzia di vicissitudini: rimase infatti cieco all’età di due anni, e questa tragica esperienza segnò per sempre la sua vita. Dedicatosi fin da giovanissimo agli studi musicali, Kirk iniziò a suonare in piccole formazioni locali da lui stesso capeggiate e in seguito nelle allora famose Territory Bands. Lo scoprì a Chicago, quasi per caso, il noto critico musicale Joachim Berendt, sul finire degli anni ’50, quando il nostro suonava tre sassofoni contemporaneamente per le strade del South Side: allora per un pubblico costituito in gran parte da passanti frettolosi, bambini incuriositi, prostitute e lenoni occupati al gioco d’azzardo. Sempre Berendt ebbe il merito di proporlo all’attenzione della ribalta europea, dove ben presto Kirk si guadagnò la stima dei colleghi musicisti e della critica che, sulle prime, lo accolse favorevolmente per la veemente carica espressiva che lo caratterizzava, e per l’esuberanza della sua musica viscerale e swingante che ben sapeva coniugare la lezione del bop all’avanguardia. Una musica trasgressiva e stimolante, quella di Kirk, che traeva la sua fonte di ispirazione dal ricco patrimonio musicale e dal folklore afroamericano: dal blues (del quale era un grande interprete e un prolifico compositore), alla church music, al soul.

Il polistrumentismo, l’aspetto scenico e teatrale, sono elementi caratteristici e inconfondibili della sua musica; concepiti forse inconsciamente al fine di mitigare quasi per incanto l’impietosa barriera della cecità.

Grazie alla tecnica della respirazione circolare, che gli consentiva una emissione continua di fiato, Kirk era in grado di suonare più strumenti simultaneamente e di ingaggiare delle estenuanti chases con sé stesso.

Possedeva, oltre agli strumenti canonici, una collezione di aerofoni e idiofoni davvero impressionante, fra cui spiccavano per singolarità: il manzello, una sorta di sassofono soprano in si bemolle, dalla campana più lunga e lievemente incurvata, lo stritch, simile al sassofono contralto ma modificato nella tastiera. Strumenti antichi e di origine spagnola che aveva scovati presso il negozio di un rigattiere. A questi si aggiungevano una serie di flauti e fischietti e di strumenti assemblati bizzarramente da lui stesso ideati: il “Surolophone”, una specie di trombone giocattolo con l’imboccatura del sassofono, le “Black MisteryPipes”, strumenti a fiato in bambù forniti di una campana metallica, e ancora carion dall’intenso potere evocativo, come la sua “evil box”, annoniche e un piccolo registratore completo di nastri preregistrati che gli consentivano, nel corso dello spettacolo, di duettare e di dialogare con personaggi e musicisti del passato.

Quando questo eclettico one-man-band entrava in scena, accompagnato da una selva di strumenti appesi al collo e altri nella campana del sassofono, si poteva assistere a uno spettacolo nello spettacolo; ma il tutto mai a discapito della buona musica che sapeva elargire al pubblico con classe e generosità. Per la sua innata predisposizione alla teatralità, fu spesso accusato di eccessivo istrionismo fine a sé stesso, di essere, in poche parole, un bonario intrattenitore circense. Niente di più falso. Basti ascoltare, con attenzione, la grande messe di incisioni pubblicate nel corso di circa un ventennio di attività e che rivelano, pur con qualche comprensibile flessione creativa e obiettive cadute di gusto, un artista completo e originale, difficilmente classificabile; anticipatore tra l’altro di alcune tendenze musicali del jazz contemporaneo, e non solo (vedi New Age e World Music), ma soprattutto, che attende ancora oggi di essere studiato seriamente.

(1 continua)

da EcoTipo – L’Evasione Possibile

Jazz: Non solo in Note

Il jazz, vissuto come emblema chiarissimo di protesta sociale e politica, oggetto e desiderio di trasgressione, emerge dalla trama del film di R.S. Leonard, Swing Kids, Giovani Ribelli. Nella Germania tormentata dal diffuso spirito di intolleranza, un gruppo di giovani studenti, al grido di “Swing Heil”, preferisce la bandiera del jazz americano a quella sinistra della svastica.

Un tema, questo, di grande attualità, che trova una puntuale conferma anche nel saggio illuminante dovuto alla penna del noto critico e musicista americano Mike Zwerin, intitolato Musica Degenerata, tradotto ora. in italiano per i tipi della casa editrice Edt. L’autore ripercorre le tappe fondamentali che hanno fatto seguito al fiorire e poi alla rapida diffusione della musica sincopata del Terzo Reich, durante gli anni di piombo del Nazismo, quando ogni espressione artistica non in sintonia con i canoni estetici del regime totalitario, veniva brutalmente bandita.

La carica protestataria e dirompente, connaturale a questo idioma, risolta in chiave allegorica fa da sfondo ai racconti di Josef Skvorecky (Il sax basso, Adelphi, attualmente in corso di ristampa). Diversa per intensità ma ugualmente avvolgente la tematica sulla “jazzità” presente nel romanzo della scrittrice afroamericana Toni Morrison: Jazz, edito da Sperling & Kupfer – Frassinelli. A metà strada fra il saggio e il romanzo si colloca, infine, il libro dell’inglese Geoff Dyei: Natura morta con custodia di sax, Instat Libri.

Ricognizione appassionante, svolta con fraseggio agile e discorsivo, attraverso le vicende artistiche e umane, gli aneddoti, relativi agli uomini del jazz, ma non solo.

Per coloro che amano l’immagine fotografica e pittorica del jazz, segnaliamo, infine, California Cool, edito da CoHins&Brown.

da EcoTipo – L’Evasione Possibile
del settembre 1993

L’eros non è un venticello

La musica. E’ stata definita innumerevoli volte, da autorevoli bocche, la più sensuale delle arti. Sensuale non perché prodiga di arti ammaliatrici ed erotiche, ma perché proprio per la natura dei suoni essa più di tutte si appella attraverso il senso dell’udito ad evocare impressioni ed emozioni “sensuali” prima ancora che razionali.

E’ stata probabilmente, in tempi remotissimi, la prima delle arti, sorella di magie rituali e di evocazioni mistiche, rivelatasi in parallelo alla voce umana, e di essa accentuazione e rinforzo. Questa sua origine magica, inafferrabile, le è rimasta sempre nel profondo.

Nel buio di una sala, lo scaturire come dal nulla di suoni armonici, porta con sé ogni volta un piccolo brivido, una piccola gioia sensuale che ci accomuna nell’udire e partecipare ad un evento quasi miracoloso.

La parentela poi tra musica ed eros dichiarato è documentata, nel corso dei secoli, da costumi e culture. In età classica l’elegante prostituzione delle “etère” era legata alla loro abilità di musiciste, e dire “flautista” era lo stesso che dire raffinata meretrice. Del resto, ancora oggi in oriente il primo requisito delle geishe, accanto all’arte amatoria, non è forse l’abilità musicale?

Sono tradizioni oggi in occidente quasi scomparse, ma sempre è rimasto l’Eros ad ispirare molti autori.

L’amore, con i suoi piaceri e le sue afflizioni, fu particolare musa dei madrigalisti cinque-secenteschi: per tutti il, nome di. Claudio Monteverdi che d’Annunzio amava definire “il divino Claudio” per la dolcezza e l’ardore della sua ispirazione erotica, pur depurata dall’eleganza di un’attentissima maestria armonica.

L’eros, del resto, serpeggia e trionfa in quasi tutta la musica del XVIII secolo.

Un eros elegante e licenzioso, malizioso ed incipriato, divertente e dispettoso, da Pergolesi a Vivaldi, da Gluck a Cimarosa, da Haendel a Paisiello, forse con l’unica straordinaria eccezione di un Bach che prende distanza dai piaceri terreni per attingere all’ispirazione spirituale (pur con l’eccezione di un paio di cosiddette “cantate profane”).

Poco più tardi, l’erotismo mozartiano conclude gloriosamente tutta la tradizione secolare di levigata e civilissima sensualità musicale, trionfando negli ammiccamenti e negli approcci dei suoi indimenticabili protagonisti nel “Don Giovanni”, in “Così fan tutte” e nelle “Nozze di Figaro”. Siamo nell’età dei colti libertini.

Col Romanticismo si inaugura invece un eros meno limpido e disinibito.

Il profondo legame fra Eros e Thanatos (Morte) diventa indivisibile.

La passione dei sensi si colora di fatalità, si ammanta dei tragici coturni, esplode nel sangue, si consuma nell’esito inevitabile della morte.

Può essere il Verdi della “Traviata”, dove l’amore è costretto dal codice morale alla rinuncia, ma anche il Donizetti della “Lucia di Lammermoor” dove la passione perseguitata sfocia nella pazzia e nel suicidio, o il Bizet della “Carmen” dove l’eros ferino e violento corre spavaldo verso il sangue dell’arena: l’ispirazione musicale romantica vive comunque la sensualità come una tragica irresistibile colpa.

Man mano poi che la stagione romantica si racchèta e si illanguidisce, sul finire del secolo, l’eros, anch’esso più languido e meno tragico, vive di dolcissime e quasi perverse estenuazioni insieme alla stagione dei simbolisti e dei “nabis”, insieme agli arabeschi erotici di Wilde e Huysmans, nei sogni incantati di una generazione colta,sensibile al richiamo dei sensi, unica terra promessa, unica divinità alla quale sacrificare, nella rinuncia di ogni altra idealità, nel pessimismo totale di un’umanità non più riscattata, fiorisce l’ispirazione musicale per un amore carnale che ad antichissimi miti idealmente si ricollega.

La sensualità è per questi artisti il senso stesso della vita, l’unica coerenza; nel piacere e nella ricerca del piacere lo stile della loro vita.

Dopo l’ultimo fragoroso Wagner, dove nel “Tristano e Isotta» in una specie di ininterrotto, tempestoso orgasmo, celebra l’eros tragico e ineluttabile, ecco allora le delicatissime, trasparenti risonanze di Debussy, i suoi echi di antichissime nostalgie trascolorate d’una sensualità cangiante nel suo “Aprés midi d’un faune”, o le morbose estenuazioni del “Martirio di S. Sebastiano” (concepito a due mani con d’Annunzio, principe incontestato di furori e languori erotici). E poi ancora, l’esotica e carnale “Salomè” di Richard Strauss con l’altra sua sorella, la pallida e luttuosa “Elektra”.

La donna è vista come sacerdotessa crudele e raffinata di questi rituali magico-erotici, in un clima di eccessi e di perversioni che oggi può forse farci sorridere, ma che indubbiamente favorì la sublimazione dell’Eros trasfigurato in musica.

L’ultimo grande del secolo scorso, Gustav Mahler, testimone estremo d’un morente Romanticismo che celebra il suo straziante crepuscolo, si annuncia anche come il primo grande musicista del nostro secolo. Ma il suo eros è rarefatto, decantato, trascolora in meditazioni e nostalgie nelle quali affoga e scompare. Lamusa imperante di Mahler, persecutoria, ossessiva, eppure dolcissima è “1hanatos”, l’ultima amante, è la morte che lo rincorre e lo chiama ovunque.

Nel “lied” “Der Abschied” (L’Addio) egli probabilmente ci consegna il commiato non solo di sé e della sua generazione (morirà poco dopo), ma di un intero secolo di battaglie e di sogni, un commiato struggente che racchiude in sé ogni possibile rimorso, annullarsi e scomparire infine in una specie di lago sonoro, di lontananza irraggiungibile: geniale.

conclusione, pur se sconsolata, d’ogni possibile passione.

da EcoTipo – L’Evasione Possibile
del marzo 1993