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Il culto della personalità nel Novecento

AP Libri International CommunismScrivere di comunismo e di culto della personalità oggi, quando si celebra l’apoteosi del modello unico neocapitalista (in equilibrio fra neoliberismo e sovranismo) può sembrare un lavoro scomodo. Eppure, mai come oggi è di stretta attualità, visto che sempre più spesso organizzazioni politiche collegiali, magari anche di tradizioni secolari, vengono sostituite nel consenso di massa da partiti personali oppure fortemente influenzate dalle cosiddette “personalità”. Si possono fare diversi esempi: dalla Francia di Macron, Le Pen e Melenchòn, all’Italia di Berlusconi, Renzi, Grillo e Salvini, fino agli USA di Trump, per non parlare della Russia di Putin. In questo contesto, alla luce del peso che il movimento comunista internazionale ha avuto nella storia del secolo scorso, sia nei Paesi dove è andato al potere, sia in quelli dove è rimasto all’opposizione o dove addirittura ha continuato ad essere perseguitato, la bella ricerca di Kevin Morgan (docente di Social Sci Politics alla University of Manchester, e studioso del movimento comunista britannico e internazionale) è particolarmente prezioso. Attraverso la consultazione e la selezione di un vasto elenco di fonti (raccolto in diversi archivi fra Parigi, Londra, Manchester e Mosca) e di una sterminata bibliografia, l’autore ricostruisce la storia di questo rapporto fra comunismo e ruolo della personalità nel Novecento, in un excursus che va dalla Rivoluzione d’Ottobre fino al movimento zapatista messicano di fine secolo. Attraverso i sette capitoli in cui è suddiviso il libro, Morgan scompone il fenomeno nel tempo e nello spazio. Cronologicamente vengono individuate quattro fasi specifiche: 1) il periodo rivoluzionario dal 1917 fino alla morte di Lenin nel 1924; 2) quello che va dalla metà degli anni Venti a quella degli anni Trenta, in cui il feticismo religioso di Lenin è ancora preponderante; 3) la vera e propria fase in cui esplode il culto della personalità, con l’ascesa e l’affermazione del culto della personalità di Stalin (1935-1956); 4) la fase post-staliniana, dal rapporto Khrushchev al “fenomeno Marcos”, passando per il culto di Mao e dei leader dei movimenti di liberazione asiatici. Ma Morgan declina anche in termini tematici il fenomeno, che non può essere ridotto solo a Stalin e allo stalinismo. Ecco che quindi egli affronta il tema del leader come incarnazione dell’importanza e del ruolo storico del partito, il segretario generale come garante supremo dell’unità e dell’integrità del partito e dalla sua comunità militante, fenomeno questo che appartiene a tutte le specificità nazionali del movimento comunista. Fu così ad esempio per il PCF di Thorez, per il CPGB di Harry Pollit, per il PCI di Togliatti e per il PCE di Dìaz. Inoltre, l’autore evidenzia come il culto della personalità non fu solo «culto del potere», ma anche volano di un preciso immaginario dello scontro rivoluzionario, attraverso la figura del militante/dirigente «martire» (come l’italiano Gramsci o il tedesco Thälmann), del leader rivoluzionario di estrazione operaia (come ancora il francese Thorez, l’australiano Miles o lo spagnolo Dìaz), o infine della personalità carismatica, della «figura avvincente» (enkindling figure) il cui prototipo era stato Lassalle e che in Europa avrebbe visto fra gli altri il bulgaro Dimitrov, la spagnola Ibarruri, ma anche lo scozzese Willie Gallacher. Pur non nascondendo le conseguenze terribili che il culto della personalità ha avuto in URSS e in buona parte dei Paesi nei quali il movimento comunista è andato al potere nel secolo scorso, anzi dedicando loro diverso spazio nel libro, Morgan comunque non perde di vista il fatto che il comunismo e i suoi esponenti emersero nel “secolo breve” come il migliore strumento al servizio dei movimenti rivoluzionari e per la diffusione di una cultura della solidarietà che rivendicò anche il diritto ad essere praticata. Il leader rivoluzionario o di partito, il segretario generale divennero quindi per milioni di persone una sorta di simbolo che induceva all’azione e alla resistenza contro l’attendismo e l’immobilismo, caratteristica familiare di una certa politica radicale, indipendentemente che la battaglia venisse persa (come nel caso di Thälmann in Germania) o vinta (come in quello di Dimitrov). D’altronde, il carattere distintivo del comunismo non risiedeva necessariamente nell’intreccio di questi valori simbolici con un certo autoritarismo burocratico del partito (Morgan ricorda che questo era già presente nei partiti della Seconda Internazionale). Ciò che invece in essenza distinse l’esperienza comunista fu che il fatto che questo forte simbolismo rivoluzionario (incarnato dalle grandi personalità del movimento comunista internazionale) fu imbrigliato nella realpolitik di Stato (anche dove il potere non era stato conquistato) con il suo corollario di cinismo e brutalità.

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International Communism and the Cult of the Individual
Leaders, Tribunes and Martyrs under Lenin and Stalin
(Comunismo internazionale e culto della personalità nel Novecento)
di Kevin Morgan
Palgrave Macmillan, London, 2017, pp. 363

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