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Lontano dal Paradiso

Mi rendo conto che parlare di un trasloco è qualcosa che trascende la logistica: in questo caso era in gioco la ridefinizione di un’identità costruita nell’arco di mezzo secolo. Sia chiaro: la casa l’hanno voluta vendere i miei fratelli, ma due contro uno ho accettato la loro scelta, giustificata anche dal futuro dei loro quattro figli all’università. Ma anche se da oltre dieci anni non abitavo più fisicamente a via del Paradiso, ho continuato a sentirmi legato alla casa dove sono entrato all’età di 15 anni (era il 1965) e che ora lascio esattamente come l’ho trovata il primo giorno: enorme, vuota e malmessa. L’impianto elettrico è quello originale – cioè da incubo – e spostando i mobili è rivenuta fuori la squallida e sbiadita carta da parati con cui i vecchi inquilini tappezzavano le pareti. L’enorme spazio nel corso degli anni era divenuto saturo di oggetti e ogni oggetto parlava, aveva una storia da raccontare. Gli album delle foto di famiglia narrano di feste, di rituali familiari, di vita quotidiana e registrano qualsiasi avvenimento degno di memoria. Lo studio di mio padre non era stato toccato dal giorno della sua morte (2003), al punto che mancava solo lui, quotidianamente intento a dipingere all’acquerello le stampe del negozio o a classificare foto e negativi o sentire un disco jazz. La discoteca di papà l’ha presa per intero mio fratello Fabio, compresi i rari V-Disc dei soldati americani. Più problematica la sorte di altre cose riesumate da armadi e ripostigli: giocattoli, quaderni di scuola, riviste ingiallite; praticamente di tutto e di più. Per fortuna tutti i vestiti erano stati dati per tempo alla parrocchia, comprese due pellicce – una di visone, l’altra di astrakan ora invendibili. Quello che non abbiamo diviso tra fratelli lo abbiamo venduto o svenduto, regalato, buttato, smontato. Il resto è finito nelle nostre case o in un paio di box che abbiamo dovuto prendere in affitto per qualche mese in attesa di idee migliori. Casa di Gloria era grande, 145 mq, mentre le nostre sono piccole e bisogna per forza adattarsi. In più, la vita matrimoniale mantiene sempre un filtro per gli oggetti provenienti dall’esterno, peggio ancora se antiquati e voluminosi.

Quando siamo venuti a Campo de’ Fiori il quartiere era molto diverso.  Tanto per cominciare, non era zona di ricchi e c’erano ancora sacche di reale povertà. Nei palazzi le diverse classi sociali condividevano piani e spazi diversi, ma erano relativamente distribuite. Ci siamo trasferiti da via Tirso – quartiere borghese Salario – non per snob, ma perché le case costavano poco e in quel momento l’azienda di nonno era in rapido declino, invecchiata col padrone. Nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso la borghesia abbandonava il centro per espandersi verso l’esterno – Vigna Clara, Casal Palocco – in cerca di case con ascensore, riscaldamento e posto macchina, mentre gli stanzoni del centro storico non li voleva più nessuno e venivano ripopolati da stranieri e famiglie meno ricche, a cui si sommavano le varie ondate di giovani alternativi e gli stranieri con la valuta forte. Per noi era diverso: i Pasquali sono romani dal 1860 e i miei genitori erano nati e vissuti da giovani tra piazza Navona e Corso Vittorio, dove ancora erano in vita alcuni parenti. Io invece ricordo il senso di spaesamento quando mi sono trovato dentro questa casa ancora vuota, enorme e fredda. Leggevamo i sonetti del Belli e di Trilussa ma non parlavamo in romanesco, mentre all’epoca la calata del Campo ancora si distingueva da quella più cupa  di Trastevere. Avevo lasciato una casa stupenda, vicino a villa Borghese, andavo al liceo Tasso e tutti i miei compagni di scuola abitavano in quel quadrante. Avrei potuto continuare al Visconti e forse sarebbe stato meglio: più vicino, meno claustrale e altrettanto buono ma meno formale del Tasso. L’aveva frequentato mia madre e in seguito l’avrebbero frequentato anche mio fratello e sua figlia. Ora mi trovato in una zona che neanche conoscevo e dove per anni non avrei avuto mai un amico, visti anche i giri di droga che iniziavano a ronzare sulla piazza. Gli spacciatori noi ce li avevamo pure dentro il palazzo e ricordo le siringhe vicino alle fontanelle del mercato e le autoradio rubate nascoste negli armadietti dei contatori del gas. Ormai quegli sciagurati sono tutti morti di eroina o di epatite, ma all’epoca erano un problema di ordine pubblico.

Quando son partito militare ho portato con me solo pochi oggetti per l’igiene personale. Chi ha condiviso la naja lo sa, dentro l’armadietto di metallo doveva entrarci tutto: divise, cappotto, anfibi, abiti civili e quant’altro: radiolina, libri e riviste, rasoio, spazzolino, quaderno di appunti, più quello che ti mandavano da casa. Ancora mi chiedo come facesse a entrarci tutto; eppure in questo modo io e i miei camerati siamo sopravvissuti un anno e mezzo. Ora lo spazio non mi basta mai e in fondo rimpiango quel periodo: mi piace sempre dire che la mia casa ideale è una branda in caserma. Ed è vero.

Questo ci porta a parlare di un altro argomento: cosa ci serve veramente e perché accumuliamo tanti oggetti, salvo poi in seguito buttarli per far spazio? Io non sono definibile come accumulatore seriale, sono piuttosto un collezionista archivista, figlio di un antiquario e preparato a farlo dalla stessa professione che ho svolto per 40 anni: archivista e bibliotecario. Da mio padre antiquario ho anche imparato a distinguere e conservare quanto acquisterà valore nel tempo e scartare tutto il resto. La maggior parte della gente e delle associazioni culturali invece accumula senza un metodo, non classifica e non ordina, e al momento di dover traslocare o far spazio butta via tutto senza un criterio. Forma intermedia: vengono ospiti a cena e per non far brutta figura tua moglie infila di corsa tutto dentro gli armadi. Risultato: per una settimana non trovi più niente, visto che alla rinfusa son finiti dentro anche documenti, capi di vestiario, oggetti d’uso quotidiano. Ma sul motivo di tanto accumulo, penso che entrino in ballo non solo i desideri indotti dal mercato, le mode che cambiano di continuo o il lascito di vecchie zie, ma ben altro: io lo ritengo un sintomo depressivo; si accumulano oggetti materiali per compensare qualcos’altro, e poco importa che i film scaricati dalla rete o migliaia di file in mp4 occupino meno spazio di una penna o di un accendino: è il principio quello che conta.

Nel caso di quanto era a via del Paradiso, ho detto spesso che ogni oggetto voleva raccontarmi una storia, e presto stilerò un lessico con almeno gli oggetti dalla  storia più significativa. E’ il procedimento letterario usato da Heinrich Boll in Foto di gruppo con signora (1971), ben altro dai versi dell’Iliade dove sono elencati tutti i capitani e i reparti in forza ad Agamennone (libro II, versi 494-759). O diversamente dalle Etymologiae di Isidoro da Siviglia (m. 636 d.C.), vera e propria enciclopedia che classifica e spiega ogni singolo ramo del sapere partendo appunto dall’etimologia della parola che lo definisce. Isidoro riuscì in questo modo a recuperare e organizzare l’eredità del mondo classico, in modo da trasmetterne la cultura al medioevo che iniziava. Più recentemente, ricordo il film di Peter Greenaway, Prospero’s books (L’ultima Tempesta, 1991), dove i 24 libri del sapere umano vengono animati da oggetti, video e altro. Anche qui viene marcato il passaggio da un’epoca all’altra, cercando di strutturarne l’eredità. Anch’io farò in modo che da un singolo oggetto si ricostruisca una cultura che ora non c’è più.

Ma se parliamo di cultura, ribadisco i motivi del mio attaccamento alla posizione centrale: hai tutto a portata di mano; teatri, cinema, concerti, pub, archivi, biblioteche, accademie. La zona dove abito ora ha più abitanti di Trieste ma neanche un teatro o un cinema; qualsiasi cosa vuoi fare, devi prendere la macchina. Ero abituato ad andare al cinema Farnese o all’Augustus quando volevo, a far tardi al teatro Valle o Argentina, a sentire un concerto in una delle tante chiese, a chiacchierare al Campo davanti a un aperitivo preso con gli amici o a sfogliare un libro da Fahrenheit 451 la sera tardi, o a vedere un film ungherese con sottotitoli all’Accademia di Ungheria a via Giulia. O semplicemente a recarmi ogni giorno in ufficio in Campidoglio facendo una passeggiata di quindici minuti invece che guidare per 13 km di traffico e 27 semafori. Il centro lo paghi, ma risparmi sulla benzina e sullo stress da traffico, sempre che trovi parcheggio. L’unica cosa che trovi invece in periferia sono il verde e tanti artigiani, specie umana ormai da anni estinta dal centro. Anche questa è ormai storia.

Non mi faccio illusioni: tornerò in quel palazzo solo per prendere la posta residua. Non suonerò ogni tanto ai vicini per far due chiacchiere, né incontrerò per le scale Fabio Sargentini, il gallerista de L’Attico, che nel palazzo ne ha mostrate di cotte e di crude. Ma anche se passassi ogni giorno a via del Paradiso guarderei verso l’alto e poi andrei oltre. Mantengo come ultima immagine il panorama dalla mia finestra, che qui vedete. Non è retorica, ma nostalgia. Ho dovuto alla fine cambiare residenza e restituire il permesso ZTL, che avevo mantenuto per poter assistere mia madre. In realtà la residenza a via del Paradiso era ormai una finzione giuridica, ma per me era anche una questione di principio: da quando mi sono sposato abito in un bel quartiere periferico con tanto verde, ma privo di quanto serve alla mia anima. Ho rivendicato per anni la mia identità di romano del Centro, anche se abbiamo visto che la storia va raccontata per intero. La parte l’ho recitata per benino a tutti e per anni, ma quando sono arrivato a via del Paradiso ero una sorta di profugo istriano esattamente come adesso. E come i profughi istriani, mi son portato dietro l’insegna della bottega storica che abbiamo chiuso dopo più di mezzo secolo, quando mia madre aveva ormai 90 anni e io non potevo prenderne la gestione perché ancora in servizio in Campidoglio.

Già, mia madre. Fino all’ultimo si è fatta tre piani di scale e l’ascensore resta tuttora il tormentone del condominio. Non mi va di entrare in polemica visto che ormai il problema non mi riguarda, ma avrei voluto che almeno mia madre potesse fare a meno di quei 78 gradini. Mia madre ha comunque chiuso la bottega storica all’età di 90 anni, che abbiamo festeggiato alla grande al Circolo Ufficiali. Purtroppo negli anni si era appesantita e non era sempre facilmente gestibile, ma l’abbiamo accudita fino alla fine. Anche Cristina le ha voluto bene e si è spesso sacrificata per lei, mentre io distraevo energie dal nostro matrimonio. Mia madre era un personaggio; difficile dimenticare le sue battute, i suoi capricci, le sue espressioni. Sicuramente era una donna diversa dalle altre, nel bene e nel male. Su mia madre potrei realmente scrivere un libro, anche se non è facile: significa anche parlare di me stesso, vista la continua interazione con lei per via della gestione del negozio e di quel rapporto di dipendenza che s’instaura con le persone anziane e sole. Mia madre negli ultimi tempi soffriva anche di solitudine: i suoi amici erano defunti o non potevano fare le scale, la sua vita sociale era legata soprattutto al negozio e alla quotidiana vita di strada, dove era servita e riverita e s’intratteneva anche con giornalisti e studiosi. A casa invece riceveva poche telefonate, ma ancor meno ne faceva. Leggeva molto, scriveva anche poesie in romanesco. Naturalmente vedeva per ore la televisione, ma per noia, e non posso darle torto. E fumava. In quello era come mia zia, la sorella maggiore morta a 93 anni e da sempre fumatrice. La prima generazione delle donne lavoratrici faceva tutt’uno con le sigarette e tenevo sempre un pacchetto di riserva per evitare di rifare le scale un’altra volta, anche se ormai gambe e polmoni erano ben abituati a farle più volte al giorno.

Un’altra caratteristica di casa nostra: sempre aperta a tutti. I compagni di scuola che suonavano dai Pasquali potevano sempre salire senza pensare di aver disturbato; le feste di carnevale permettevano persino l’uso dei coriandoli e non si contava il numero degli imbucati. Qualche volta le feste debordavano sul pianerottolo e se la battevano con quelle organizzate da Fabiana al piano di sopra. Nulla nasce da nulla: negli album di famiglia si vedono le feste a tema organizzate da mio nonno tra le due guerre (in quella del 1935 tutti sono mascherati da abissini!), se ne deduce che godersi la vita insieme agli altri è una tradizione di famiglia. Mio nonno, grosso commerciante, organizzava spesso il Mercante in fiera e naturalmente era il banditore. Papà e mamma avevano un debole per le cene gastronomiche, dove ognuno portava un piatto preparato da sé. Abbiamo una serie di foto dove si vede di tutto: ecclesiastici italiani e stranieri, amici di famiglia, compagni di scuola, commilitoni di caserma, famiglie con bambini. Non solo: quando mia sorella Susanna doveva preparare l’esame di architettura detto di composizione, era un turnover di studenti che si alternavano per disegnare di continuo tavole su tavole (all’epoca non c’era la computer grafica). Camera di Susanna era piccola e da solo il tavolo da disegno occupava un terzo dello spazio, quindi io e Fabio prestavamo anche le camere nostre. Una festa di compleanno di Fabio rimase storica: più di 80 o forse 100 invitati, al punto che si temeva per i solai. E poi le famose proiezioni: papà faceva un film per ogni viaggio che una volta all’anno faceva con mia madre. Essendo stato un semiprofessionista del cinema, i film erano medio metraggi ben fatti, ben al di sopra dei filmetti in superotto della prima comunione che dovevamo sorbirci altrove. Seguiva sempre un ricevimento dove non ci siamo mai fatti guardare dietro neanche quando non avevamo una lira. Questo è stile.

Quella casa ha visto anche i nostri primi amori. Non avendo figli, poco so dei giovani d’oggi, ma è evidente che crescono in un ambiente familiare e sociale molto diverso dal nostro – parlo per me e per i miei fratelli e sorelle. Le ragazze erano normali ma poco sveglie e soprattutto molto controllate dalle famiglie, mentre noi maschi eravamo spesso imbranati e sul sesso e l’amore c’erano meno informazioni di adesso. Morale: Fabio mio fratello ogni tanto mi chiedeva di andare a studiare in biblioteca, visto che lui con le ragazze ci sapeva fare, mentre la prima volta che mi sono portato in casa una ragazza – quanti anni avevo meglio non dirlo, altro che rapporti precoci – ho rischiato di farmi scoprire perché nel frattempo mia madre tornava dal negozio. Nascosi la mia giovane amante da qualche parte, poi la feci uscire, nonostante ancora mezza nuda insistesse per conoscere la potenziale suocera, la quale seppe tutto il giorno dopo dalla portiera. Già, perché avevamo pure la portiera, dove oggi un senatore ci ha messo lo studio privato. Ma la regola imposta da mio padre era: le donne non ce le porto io, quindi non dovete farlo manco voi. Principio discutibile, visto che una donna comunque lui ce l’aveva, ma con mio padre non si scherzava. Oggi i miei nipoti ascolterebbero questi racconti come una cronaca d’altri tempi, come in effetti è. Ma se penso che nelle feste di liceo del sabato pomeriggio non era affatto rara la presenza delle madri e zie delle ragazze che ci avevano invitato, qualche volta mi viene da ridere: visto col metro di oggi, il nostro era un mondo omerico.

Anche il letto dove ho vissuto i miei non molti amori non esiste più: l’ho smontato e buttato. Qualcosa però a casa vecchia è rimasto: qualche quadro per arredo, la grande stampa panoramica di Roma che ornava continuerà a ornare la parete del salotto (venduta al nuovo proprietario) e quel pianoforte inglese che mio padre suonava nel tempo libero. Non lo volevamo portar via perché scordato e tutto sommato di media qualità. Mia suocera a casa di pianoforti ne ha due, uno meglio dell’altro perché era pianista, quindi non aveva senso averne un altro. In più, il trasporto dei pianoforti è gestito da poche, costose ditte specializzate. Quando il nuovo padrone di casa ha chiesto di tenerlo per arredo, non ce lo siamo fatti dire due volte.

Quanto al nuovo proprietario, è l’ennesimo esempio di come si distrugge il centro storico. Una sinistra ossessionata dalle piste ciclabili ma incapace di elaborare un piano per il commercio nel Centro, più una giunta di dilettanti allo sbaraglio hanno sottovalutato se non ignorato un fenomeno che sta modificando le città d’arte: il sovra turismo, overtourism in inglese. L’affitto breve ai viaggiatori low-cost è l’affare del momento. Tenete duro, se siete ancora abitanti del centro, anche se ogni giorno vedrete per le scale gente diversa che parla altre lingue e lascia solo mondezza, o se per strada sentite il rumore continuo e ossessivo dei trolley che scorrono sui sampietrini, erede dei carri che disturbavano il sonno del poeta latino Orazio. I negozi di zona – sempre più kitsch e omologati sul modulo cinese e pakistano – si sono adeguati a questi nuovi nomadi, grazie anche alla totale disattenzione o corruzione dei politici. Anche il mercato di Campo di Fiori si è adeguato al turismo e si vede: un altro segno dei tempi. Ma il Campo era già da tempo divenuto almeno di sera un luna park per alcolisti italiani e stranieri e i titolari dei banchi preferivano trasferire la licenza ad altri mercati rionali. Questo anche per un motivo poco noto: la speculazione sui magazzini attorno alla piazza, diventati pub, ha reso troppo costosa la loro gestione come depositi di mercato. Il turismo ha fatto il resto, visto anche il progressivo spopolamento della zona.

Detto questo, la mia non è una lettera di addio. Sicuramente niente sarà più come prima, ma la vita continua.