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Il carattere dispotico di un tempo storico che va rimesso in sesto

In queste settimane il governo di Matteo Renzi ha intrapreso una serie di iniziative. Ha varato un Jobs Act dedicando solo un’ora a ricevere le organizzazioni sindacali e dichiarando pubblicamente che lui si confronta direttamente coi lavoratori e non con i rappresentanti (magari con un “tweet”). Ha presentato una “riforma” della scuola che docenti, studenti e altri lavoratori del comparto dovrebbero valutare in forma digitale (come fosse un “mi piace” su Facebook). Ancora, ha presentato una manovra economica che va ad aggravare le già penose condizioni dei bilanci locali. Il tutto, ed altro, molto spesso utilizzando lo strumento della “fiducia” per contingentare o eliminare il dibattito parlamentare. Atteggiamenti e metodi che dimostrano quanto, come esposto ne La democrazia dispotica di Ciliberto, questo nuovo dispotismo abbia ancora in comune col vecchio l’arbitrio che si sostituisce alla legge, anzi che si fa esso stesso legge. D’altronde era già Marx che parlava di “democrazia delle illibertà”. Ma forse a noi interessano più gli elementi di novità, di discontinuità col passato, quelli che ci permettono una maggiore comprensione dei tempi che viviamo. Ciò che il berlusconismo ha portato in dote a Renzi è intanto la capacità di trasformare l’uso privatistico (o di lobby) della legge in “senso comune”, in (dis)valore culturale. L’altro elemento di discontinuità col dispotismo classico è il fatto di parlare non più a classi o a movimenti collettivi, ma ad “individui” isolati, senza identità comuni e pronti a schierarsi a destra o a sinistra a seconda delle loro convenienze. I “nuovi despoti” sono oggi in grado, con un segno ovviamente conservatore e/o reazionario, di interpretare i bisogni di affermazione individuale emersi nell’epoca della “crisi dei partiti” (1990-2000) e di fornire delle proposte o delle vie d’uscita.
Ma quali sono gli effetti di questo nuovo dispotismo nella società e nella politica italiana? Sul piano sociale essi possono essere riassunti, secondo l’autore del volume, in questo modo: un forte acuirsi delle diseguaglianze; la riduzione ed il livellamento verso il basso dei redditi popolari; l’impossibilità di pensare una strategia di cambiamento che esca dagli ordini e dalle gerarchie prestabilite. Sul piano politico, invece, si afferma un governo “carismatico” ed un modello politico leaderistico in cui tutta la società (permeata, abbiamo visto, da individualismo ed egoismo) si riconosce, oltre che nelle nuove forme di autoritarismo di massa imperniate sul consenso (alimentato e orchestrato dai mass-media) in una classe politica e parlamentare dequalificata. Sullo sfondo si staglia la crisi strutturale del principio del “pubblico” e della solidarietà come valore comune. Quindi gli uomini sono resi più diseguali e meno liberi, ma – e qui sta l’elemento di novità col passato – col loro consenso.
Il lento smantellamento della Costituzione (peraltro già in passato rimasta spesso lettera morta), non solo sul piano dei valori solidali ed egualitari che contiene, ma anche su quello della struttura costituzionale dello Stato, è quindi l’orizzonte normativo fondamentale del nuovo dispotismo: un Parlamento “asciugato” nei numeri ed assuefatto, una riforma presidenzialista (o di segno analogo) e la dipendenza diretta del potere giudiziario da quello politico sono le “malattie” conclamate della democrazia che il “virus” dispotico sta incubando.

Eppure tutti i fan e gli esponenti del PD potrebbero obiettare: ma come? Noi abbiamo introdotto in Italia un elemento fortemente democratico, ovvero le primarie. Ciliberto sostiene che il PD, della cui genesi ed identità dà un giudizio durissimo, è rimasto esso stesso “vittima” e “carnefice” di quelle tendenze plebiscitarie e carismatiche che dichiaravano di combattere. Di fronte all’allargamento dello scarto fra “governanti e governati” le forze di centro-sinistra avrebbero, secondo lui, dovuto operare in quattro direzioni: in primo luogo una rinnovata analisi di carattere materiale della società italiana e del nuovo dispotismo democratico, e delle trasformazioni sociali e politiche delle quali esso è causa ed effetto; in secondo luogo una riflessione seria ed aperta per uscire dalle vecchie ideologie novecentesche e dai vecchi partiti; ancora, una attenzione adeguata a quella che l’autore chiama la “dimensione dei ‘valori’ dell’agire sociale e politico; infine, un profondissimo rinnovamento dei vecchi gruppi dirigenti.
In particolare, la “centralità dell’individuo”, è intesa da Ciliberto come «nodo teorico e politico da cui occorre muovere per ricostituire nuove forme di comune identità e di solidarietà sociale», ma mantenendo aperta la «critica rigorosa» all’individualismo egoistico di cui è portatore il nuovo dispotismo democratico. Oggi nella società, secondo Ciliberto, esistono individui “nuovi”, con aspettative di vita nuove con le quali occorre misurarsi con forme e metodi nuovi. Insomma, serve un moderno partito imperniato sui “diritti individuali” e su una forte solidarietà sociale.
Per cercare di ristabilire il circuito fra governanti e governati, il PD si è affidato alle “primarie”, le quali hanno però assunta, per Ciliberto, una caratteristica “plebiscitaria” e “carismatica” a causa dell’intrinseca e strutturale fragilità del partito: è venuto sostanzialmente meno il ricco ed articolato tessuto di sezioni, case del popolo, ecc., che hanno costituito la forza prima del PSI e poi del PCI. In questo modo sono venuti meno quei rapporti di comunicazione e mediazione politica fra “dirigenti” e “diretti” che ha favorito l’allargamento del fossato fra politica e società civile, brodo di coltura del nuovo dispotismo democratico. Da ciò sono scaturite, secondo l’autore, le “primarie” come unico mezzo, per il “popolo della sinistra”, di far sentire la propria voce; ma anche queste, se il partito non è forte, strutturato e radicato sul territorio, con strutture organizzative in grado di orientare e sviluppare il dibattito politico, finiscono per diventare dei plebisciti, nei quali si azzuffano i diversi “capi bastone” del partito, i quali arringano le piazze né più né meno come i loro avversari di centro-destra. Ora è venuta meno anche l’unica differenza che, all’epoca in cui Ciliberto scrive La democrazia dispotica, esisteva col centro-destra, ossia la presenza di un “capo carismatico”.
Ciliberto comunque non si arrende al pessimismo: alle tendenze dispotiche, infatti, continua a contrapporsi l’esigenza di partecipazione (secondo lui rappresentata con l’esempio delle primarie, a mio avviso meglio impersonata da vasti movimenti politico-sociali, come per esempio quello referendario per l’acqua pubblica). Si tratta quindi, da una parte, di ricomporre lo scarto fra governanti e governati, combattendo la passività degli individui, di una società civile che deve riappropriarsi delle proprie forze e del proprio “libero arbitrio” per affrancarsi dalla schiavitù nei confronti della politica (come affermano Tocqueville, Marx, Gramsci, ma anche Kant); dall’altra, e al tempo stesso, di ridare sovranità alla politica rispetto alla burocrazia (come auspicato da Weber) e/o alla finanza, una politica che è sì una delle tante attività dell’uomo (come scrive Marx), ma che ne resta una dimensione essenziale, a patto che rinunci alla velleità di “autofondarsi”.
Per Ciliberto ciò equivale a “rimettere in sesto il tempo”, e per questo l’autore formula alcune “modeste proposte” (come le chiama), per certi versi discutibili nei contenuti, ma dall’oggettivo contenuto anti-dispotico: la prima è quella di stabilire rapporti organici fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, ma riaffermando la forza ed il primato della seconda, sebbene attualmente in crisi; la seconda è ripartire dall’analisi della situazione concreta dei cittadini dal punto di vista materiale, cioè dei rapporti di proprietà, dei “rapporti di classe”; in particolare, le diseguaglianze sono il problema prioritario (comprese le sperequazioni a danno dei migranti); qui, secondo Ciliberto, sta l’attualità di Marx; la terza è sviluppare un linguaggio basato su valori anti-dispotici contro il lessico, orale e corporeo, dei media, basato sull’individualismo e sull’impolitica; la quarta è fare in modo che il conflitto torni ad essere l’animatore di ogni società democratica e il “contrafforte” della libertà; l’ultima è costruire vincoli e contrafforti che limitino il potere dell’Esecutivo, mantenendo aperto il conflitto fra eguaglianza e libertà così come fra libertà dei cittadini e potere dello Stato, nel quale il partito politico rimane uno strumento necessario.

Seconda parte di
La democrazia dispotica secondo Michele Ciliberto

04 La democrazia dispotica di Michele Ciliberto 1

 

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Titolo: La democrazia dispotica
Autore: Michele Ciliberto
Editore : Laterza, Roma-Bari, 2011
Prezzo: €. 18,00

ISBN 978-88-420-9464-7

Formato: ePub con DRM – richiede Adobe Digital Editions
Editore: Laterza (collana Ebook Laterza)
Dimensione: 467,9 KB

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Riforma elettorale: Renzi tenta l?intesa con Berlusconi

La metamorfosi della democrazia nelle riflessioni dei classici

Abbiamo vissuto nel nostro Paese, in questi ultimi 3 anni, repentine trasformazioni della situazione politica: dalla caduta del governo Berlusconi alla ascesa e poi caduta del governo “tecnico” di Mario Monti, dall’inaugurazione della politica delle “larghe intese” PD-PDL (con Enrico Letta alla Presidenza del Consiglio) fino al “blitz” del “rottamatore” Renzi, con annesso plebiscito elettorale nel maggio scorso. Tre anni convulsi ed intensi, vissuti fra bonapartismi e tecnocrazia, che stanno mettendo a nudo le precarie condizioni di salute della democrazia italiana. Proprio di queste ultime si occupa Michele Ciliberto nel suo saggio La democrazia dispotica, edito da Laterza nel 2011.
L’autore muove dalla crisi costituzionale della Repubblica: il periodo è quello della crisi del governo Berlusconi, che poi avrebbe portato alla nascita del governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Ciliberto, lungi dal relegare il berlusconismo a fenomeno “provinciale” della politica, ritiene che l’ultimo ventennio non solo si inscriva in un contesto più ampio di crisi del sistema democratico italiano, ma che possegga delle peculiarità e caratteristiche “nuove”, tipiche di quella che viene definita la politica “post-novecentesca”. Nel cercare di individuare questi elementi di novità – e di formulare proposte di via d’uscita dall’attuale stato di crisi della democrazia – l’autore inizia col chiedere aiuto ai “classici” del pensiero politico contemporaneo.
Perché, al contrario di certe frenesie “rottamatrici” contemporanee e nonostante l’ultima moda di tacciare di “gufismo” gli intellettuali critici col nuovo corso renziano, proprio i classici – e solo essi – sporgono oltre il loro tempo storico, acquisendo un valore universale. Fondamentale quindi servirsi delle loro riflessioni, ma facendo attenzione a non leggerli facendo inutili forzature o stabilendo astratte corrispondenze fra i contesti in cui essi hanno scritto e la nostra situazione contemporanea.
Cosa c’è allora di ancora utile nel pensiero dei classici? Ciliberto prova ad elencare alcune idee, e lo fa partendo da Alexis de Tocqueville, che, nel saggio La democrazia in America, vede nell’affermazione della democrazia anche la tendenza degli uomini a chiudersi nella propria dimensione individuale e utilitaristica, delegando al potere esecutivo la funzione di guida degli affari generali, della cosa pubblica. In questo modo essi sono “cittadini” solo quando, periodicamente, si recano alle urne per le elezioni, ma prima e dopo essi sono “individui”, totalmente alieni alla politica. Ed è in questa dinamica che si cela il rischio del dispotismo, basato sul consenso, frutto avvelenato dello stesso sviluppo della democrazia, incentrato sulla progressiva riduzione della politica ad amministrazione e sulla distruzione dei poteri “secondari” (come quello giudiziario), basato sulla disintegrazione del “libero arbitrio” e sulla riduzione dell’autonomia del cittadino, ridotto a servo passivo del potere. Alla crisi dei legami sociali, all’affermazione dell’egoismo utilitaristico ed alla conseguente affermazione del dispotismo democratico come risposta, Tocqueville propone di reagire potenziando le forme della partecipazione attraverso un sistema articolato di associazioni che salvaguardi e valorizzi i diritti nei quali affonda il principio di libertà civile e politica.
Karl Marx, (di cui Ciliberto prende in esame fondamentalmente due testi: la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e la Questione ebraica), pur dando un giudizio diametralmente opposto a quello di Tocqueville sulla democrazia (per lui essa è la vera costituzione del popolo, perfettamente adeguata ai suoi bisogni ed alla sua vita), ne condivide invece l’interpretazione della crisi moderna come rottura dei “legami” sociali. Per Marx, l’uguaglianza politica propagandata dallo Stato moderno nasconde, in realtà, le profonde disuguaglianze sociali esistenti in realtà. Per risolvere questa contraddizione, è necessario superare le diseguaglianze umane, individuando il luogo dove ciò possa avvenire (per Marx, questo luogo sarà prima l’uomo “generico” di Feuerbach, poi i rapporti sociali di produzione capitalistici). Allo stesso tempo, egli fa una forte apologia della democrazia diretta e un’esaltazione delle elezioni come strumento per uscire dalla crisi del mondo moderno-borghese e realizzare la vera emancipazione umana lungo una prospettiva ultrapolitica e ultrastatuale (piena autogestione, estinzione dello Stato, quanto meno per come lo conosciamo noi). La democrazia concepita come dimensione sostanziale della società (e non più come “astrazione”), cancella la contrapposizione fra Stato e società civile, perché essa è il terreno in cui il popolo si autodetermina. A Marx interessa, quindi, rovesciare i termini del rapporto fra politica e uomo, individuando nel secondo il soggetto reale che crea la “costituzione”.
Ciliberto annovera poi Max Weber fra i “nostri contemporanei” innanzitutto per aver formulato il concetto di carismaticità: in un’epoca caratterizzata dalla “politicizzazione di massa”, la politica deve imparare a controllare la forza “ottusa ed autoritaria” della burocrazia, e per farlo deve divenire “carismatica”, cioè poggiare sulle virtù “sacre”, “eroiche”, “esemplari” di un capo. Per Weber, quindi, “negli Stati di massa” il cesarismo è inevitabile, ma accanto al motivo della carismaticità, lo scienziato politico tedesco non rinuncia a porre la centralità del Parlamento, investito di una duplice funzione: da una parte terreno, attraverso la lotta politica, di selezione della classe dirigente (e in particolare dei capi carismatici), dall’altra strumento di controllo del potere burocratico.
Attraverso il concetto di “educazione” delle masse (attraverso non solo la scuola, ma anche istituti sociali e sindacali o provvedimenti legislativi), Benedetto Croce pone invece, secondo Ciliberto, due obiettivi alla politica: rinsanguare le fila dell’aristocrazia (intesa in senso intellettuale) e favorire la maggiore comprensione di massa delle posizioni e delle teorie elaborate dalle élites politiche. Croce è un liberale, ma sa apprezzare la funzione “positiva” che la democrazia ha nel costringere il liberismo a non rinchiudersi nelle “alte vette” delle concezioni del mondo e a scendere sul terreno della concretezza. Infine, egli, pur essendo legato alla classica visione liberale della politica, come invenzione e creazione personale, concede ai partiti, forse perché influenzato da Weber, la funzione di strumenti delle personalità per forgiarsi come capi e perseguire i fini politici ed affermare i valori etici dichiarati.
Come Weber, anche Gramsci coglie la centralità della “carismaticità” nel mondo contemporaneo, ma muovendosi su prospettive diverse. Al capo carismatico borghese va, quindi, sostituito il “moderno principe”, l’intellettuale collettivo rappresentato dal partito politico della classe operaia. Per il dirigente comunista italiano, il capo carismatico “deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità”. Questi soggetti collettivi, composti dai nuovi “intellettuali organici” del moderno proletariato, possono svolgere una funzione di direzione politica solo se entrano in un rapporto vivo con le masse che intendono rappresentare (Ciliberto usa i termini “sentire”, “sapere” e “comprendere”), evitando da una parte il “codismo”, dall’altra il settarismo: infatti, “l’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre ‘comprende’ e specialmente ‘sente’…”. Solo in questo modo il rapporto di rappresentanza non genera la passività delle masse.
Proviamo, quindi, a fare un primo punto: per Ciliberto, l’elemento – ancora di estrema attualità – che accomuna tutti gli autori fin qui esposti, pur nei differenti e divergenti percorsi, idee, prospettive e possibili soluzioni, risiede nella critica al dispotismo democratico di separare gli individui, di renderli politicamente deboli tanto da ridurli (come dice Tocqueville) a “servi”. Anzi, questo isolamento individuale è il brodo di coltura del dispotismo democratico. Senza ricostruire questi legami non è possibile riannodare il filo che lega la triade democrazia-libertà-uguaglianza. Pertanto, la ricostruzione di questi legami è il punto di partenza di ogni posizione politica anti-dispotica.

Prima parte di
La democrazia dispotica secondo Michele Ciliberto

04 La democrazia dispotica di Michele Ciliberto 1

 

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Titolo: La democrazia dispotica
Autore: Michele Ciliberto
Editore : Laterza, Roma-Bari, 2011
Prezzo: €. 18,00

ISBN 978-88-420-9464-7

Formato: ePub con DRM – richiede Adobe Digital Editions
Editore: Laterza (collana Ebook Laterza)
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Prezzo: € 10,99

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