Tutti gli articoli di Luigi M. Bruno

Esistenzialismo Cinematografaro

La nostalgia del tempo che fu non nego spesso si affacci e si rimiri da questa finestra ma, senza esagerare in patetici rimpianti, mi pare legittimo qui riesaminare e riconsiderare valori e qualità (se ce ne sono) di tendenze e autori che furono gli autentici padri coscritti, monumenti incontestabili, della nostra patria cinematografara. Tutto questo per parlarvi di un film del 1966 di Florestano Vancini: Le stagioni del nostro amore, protagonista Enrico Maria Salerno, dove con più o meno sincera vena poetica (ma sì! usiamo la scandalosa parola:poesia!) si rappresenta in maniera impietosa ed efficace la crisi esistenziale di un intellettuale di sinistra (c’era pochissimo spazio allora per ipotetiche crisi di intellettuali di destra…). Il film forse non è un capolavoro ma, secondo me (e nonostante il citatissimo Mereghetti che impietosamente parla di “ambizioni intellettualistiche che hanno fatto il loro tempo”) trovo che il film di Vancini esprime con sincerità delicatezza e intensità (insomma poeticamente) il dolore e la pena di un uomo che attraversa la stagione amara in cui pentimenti e fallimenti si affastellano e schiacciano residue speranze e slanci. Ottimi i dialoghi e gli attori compresi di questo clima autunnale (oltre Salerno, Valeria Valeri, Gian Maria Volonté, Gastone Moschin); eccellente lo “spaccato” provinciale di una Mantova nebbiosa e saporosa dove il nostro tenta di recuperare sangue e umori del tempo migliore. Detto questo del film di Vancini, mi viene lo spunto irresistibile di riflettere su una curiosa tendenza di quegli anni: non certo solo Vancini, ma moltissimi altri autori, e non solo di cinema, vissero allora la stagione “dell’incomunicabilità”. Ve ne ricordate? Definizione abusata e citatissima, quasi proverbiale introdotta ovunque, dai migliori salotti alle più sconce barzellette! Il clima era più o meno quello del film citato: strazianti pause, parole penosamente estratte da lunghi silenzi, nebbie, penombre, solitudini, tetraggini e desolazioni a specchio della enigmatica pena dei protagonisti. Tutto un clima, secondo me, sinceramente vissuto ma sostanzialmente indotto da una letteratura e una poetica nordica (Bergman, Dreyer) da noi ammirata e amata sopratutto dal ceto intellettuale che molto influenzò i nostri autori: in testa a tutti Antonioni, padre incontestato della sofferta incomunicabilità, ma che forse per temperatura (fredda), motivazioni e necessità ataviche non ci apparteneva. Come giustificarla del resto con lo slancio contemporaneo di quegli anni di frenetico fervore, ottimismo a tutti i costi, follie e cialtronerie di quel “miracolo economico” che ribolliva ovunque? Questo sì, più nostro e italico delle malinconiche brume nordiche. E i lunghi e strazianti silenzi di quelle rarefatte atmosfere, come giustificarli per una gente come la nostra per tradizione ciarliera ed esibizionista pur nelle situazioni più tragiche?

Non che da noi si vivesse solo di clamorosa superficialità, tutt’altro! Ma le crisi esistenziali avevano ed hanno per noi il sangue e l’umore della risata amara mischiata a lacrime umanissime e spudorate, conseguenza di una civiltà mediterranea antichissima e beffarda abituata a convivere tra farsa e tragedia nella misura alterna della nostra commedia umana. Non che i film compassati e lenti degli autori “incomunicabili” non abbiano prodotto arte e sostanza autentica!

Ci restano esempi memorabili di sincera e commossa poesia: fu una stagione colta e raffinata dei nostri migliori autori, e forse l’inaugurazione avvenne proprio con un film di Antonioni: Il grido del 1957 che chiudeva definitivamente il glorioso capitolo dell’italico neorealismo.

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Appesi a un filo

La ragazza, giovane, carina, slanciata, va per la sua strada: ha l’orecchio incollato al filo del suo cellulare. Non vede e non sente, cammina ma non si guarda attorno. Vedo dalle sue labbra ferme e dal suo sguardo serio, concentrato, che ascolta qualcosa, qualcuno. Discepolo di Zavattini e curioso per mia natura decido per il pedinamento, le vado dietro. Ma che fa? Attraversa la strada ma non ci sono le strisce né un semaforo, attraversa la strada come fosse da sola su questa terra. In questa felice città dove ad ogni momento il solito ubriaco o “strafatto” può stenderti sull’asfalto anche se attraversi col verde, anche se sei sul tuo marciapiede, in questa città di pazzi e bucanieri al volante, la nostra fanciulla sta attraversando la strada come se fosse in un viottolo di campagna: le auto le sfrecciano sfiorandola ma lei non stacca i suoi occhi dai suoi pensieri e dal suo misterioso ascolto. Non si sa come giunge salva sull’altra sponda: forse l’angelo dei telefonini la protegge. Ma non è finita. Ora torna indietro. Più giù c’è un semaforo per attraversare, ma non se ne dà cura: si getta in strada all’avventura. È una nuova specie di suicidio? Ma no. Adesso parla, parla, parla. Il mondo le è intorno e addosso: alberi, case, nuvole, gente, ma lei non c’è, non è qui, è su un’isola deserta, appesa al suo filo magico al suo telefonino—feticcio. Forse sogna di camminare, forse è nel suo letto e lei è solo una proiezione virtuale, come si dice? Un ologramma!… Già, fra un po’ qui è tutto virtuale, forse lo sono anch’io. Mi accorgo che per seguire lei ho schiacciato una merda di cane. Porca puttana! Lei invece cammina sulle nuvole, niente la sfiora e niente la tocca. Ora è in mezzo alla strada e un autobus le è quasi addosso, lei non lo ha neanche visto anzi, alza un attimo gli occhi e decide di salirvi sù; salgo anch’io. L’autista le urla qualcosa: hai deciso di finirmi sotto? La ragazza lo guarda allibita: ma che vuole costui? È un pazzo? Intanto anche l’autista ritorna al suo auricolare e riprende a cazzeggiare con qualcuno. La ragazza, tranquilla e serena, si siede e continua il suo discorso infinito. Mi guardo attorno: vecchi, bimbi, donne, ubriachi, paralitici, gialli, neri, rossi, sono tutti con gli occhi e le orecchie stampati sugli infernali apparecchietti. Chi urla, chi ride, chi gioca e smanetta. Mille faccende e mille fattacci mi vengono vomitati addosso, le voci si incrociano: coreani, cinesi, nordici, spagnoli, slavi, indiani, dialogano beati con le loro voci stridule, gutturali, rauche o squillanti, ridono, si incazzano, piangono gli affari loro come se fossero nel loro cesso di casa. Nessuno ti guarda, nessuno ti vede e ti sente. Sono tutti su un altro pianeta. È un film di fantascienza? Gli alieni hanno conquistato la terra? Sono nel panico. Fermate! Voglio scendere!!

Temperature cromatiche

Nel ritrovare il gruppo delle pittrici del “gonfalone arte” in esposizione al termine della fruttuosa attività annuale non posso che elogiare la loro ricca,profonda, appassionata ricerca artistica, fortemente differenziata per diversità di temperamenti e alterna “temperatura” estetica, risultato di tendenze e tensioni distinte e singolari ma accomunate, oltre che dall’amicizia nella sperimentata comunità di lavoro, nell’esemplare volontà di approfondire senso e qualità dell’esprimersi che è, più che mera ricerca tecnica, desiderio di ritrovarsi e riconoscersi nella gioiosa utopia dell’ambito pittorico. Così che camminare con loro, ormai da molti anni, conforta anche me del valore fondamentale e della necessità del nostro realizzarci nella dimensione creativa.

Espongono: Marisa Ciciani, Elena Chester, Dinah d’Avino, Elisabetta Dunin, M. Grazia Giordano, Marzia Tedeschini, Anna Maria Monti.

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GONFALONE ARTE

Marisa Ciciani, Elena Chester, Dinah d’Avino, Elisabetta Dunin, M.Grazia Giordano, Marzia Tedeschini, Anna Maria Monti

Dal 17 al 22 giugno 2013

Roma

Moto della Mente

Monte Giordano 43

Orario:

dalle 15.00 alle 19.00

 

Novecento: arte e retorica del Ventennio

In quel di Forlì è allestita una megaesposizione di arti figurative (pittura, scultura, arredamento, moda, cartellonismo ecc.) che documenta in modo straordinario non solo le tendenze estetiche ma anche sociali, umane, politiche, di quel che avvenne in Italia negli anni del ventennio fascista: grosso modo nei trionfi e nei clamori paradossali e ottimistici di quelli che furono chiamati giustamente gli anni del “consenso” al regime. Talché le opere d’arte direttamente ispirate al debordante carisma del “duce” e al culto della sua personalità arrivano fino alla disarmante piaggeria e al grottesco. Per questo la mostra è stata accusata di aperta esaltazione della dittatura che fu. Ma non è così. Il critico, lo storico, ha il dovere di analizzare e documentare: la realtà è che in quegli anni fatidici non ci fu artista, scrittore, scultore, musicista, che non fosse apertamente coinvolto all’ubriacante trionfo del governo totalitario. Inutile far nomi, l’elenco è lungo, e la vastissima esposizione lo documenta. Dico tutti, tranne naturalmente un drappello di irriducibili, soprattutto politici, che contrastarono eroicamente la dittatura pagando di persona. Ma gli artisti no: erano tutti o quasi, sinceramente o meno pervasi dalla sacra esultanza del momento, militanti convinti o opportunisti che fossero, era difficile allora se non impossibile non essere travolti dall’esaltazione di un sistema che mieteva successi e consensi in Italia e all’estero. Certo, il seguito della storia rivelò il grande inganno e gli entusiasti disillusi divennero feroci oppositori, ma negli anni “felici” la giostra girava ed era difficile scendervi! Tutto questo per dire che a Forlì (terra di casa mussoliniana, Predappio è a due passi) non è allestita come qualcuno ha detto una mostra fascista ma una ricchissima, interessantissima, approfondita ed esaustiva esposizione di grande valore oltre che artistico, ripeto, sociale, umano e politico, con gli umori, le emozioni e le illusioni di quel che fummo. Del resto, oltre alle opere direttamente ispirate al trionfalismo ducesco o alla sua retorica del sano “ruralismo”, moltissime sono le opere altrimenti ispirate alla pura dimensione poetica ed espressiva. Ci sono tutti, ma proprio tutti i bei nomi dell’arte italiana del novecento, dai tardoimpressionisti ai futuristi, dai divisionisti ai simbolisti, agli espressionisti, tutti comunque accomunati dall’intento fondamentale (si chiamò appunto “ritorno all’ordine”) di una ritrovata nostalgia della classicità quattrocentesca, della monumentalità nella sincera esaltazione di una forte e plastica figuratività: gloriosa eredità di altri tempi, sogno di purezze e armonie che ritorna ciclicamente nel nostro sangue mediterraneo! Ricerca o riesumazione che fosse di una identità storica che comunque ci apparteneva, non solo incoraggiata dal regime amante di imperiali trionfi, ma innegabile speranza (o illusione) di tantissimi artisti sulle tracce di un passato e di una tradizione nostra. In margine alla vastissima esposizione di straordinario interesse le cosiddette arti “minori”, dal cartellonismo pubblicitario alla moda femminile, alla mobilia d’arredo, all’oreficeria, nonché bozzetti e plastici dell’architettura della “nuova Italia”, tutto direttamente ispirato agli anni che furono (non posso definirli altrimenti) della grande illusione di una grande Patria. E questa, per capirci, non è patetica e provinciale nostalgia, ma documento e Storia. La Storia di un paese, nel bene e nel male.

 

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Mostre NOVECENTO donna-allo-specchio

Forlì

Musei San Domenico

NOVECENTO.

Arte e vita in Italia tra le due guerre

Dal 2 febbraio al 16 giugno 2013

Tel. 0543/1912030 – 199 757515 – 02/43353520

http://www.mostranovecento.it

 

 

 

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Mostre NOVECENTO concertoMostre NOVECENTO 311_Rometti,-Vaso-con-arcieriMostre NOVECENTO 383_Dudovich_Esposizione-Rhodia-e-Albene-alla-Rinascente