Campo de’ Fiori: La Movida (2)

Una sera a casa di amici, ormai quasi tutti in età di pensione. Ognuno di noi abita all’altro capo di Roma – ma è ancora Roma? – e ogni tanto si organizza una rimpatriata; ormai i figli son grandi e vanno per conto loro. Stasera anche gente nuova, un paio di amiche di un’amica di mia moglie. Si chiacchiera, si commenta la cronaca. Si parla anche dei due carabinieri coglioni che a Firenze si sono approfittati delle due studentesse americane ubriache. Questa signora si ricorda pure di aver sentito da un’amica la storia di due ragazze canadesi che trent’anni anni prima si erano fatte sbattere a una festa da qualche parte a Campo de’ Fiori. E qui drizzo le orecchie: al Campo ci ho vissuto per anni prima di sposarmi. In più, sapendo bene l’inglese, ho spesso lavorato proprio con studenti americani. Brutta storia: le avevano fatte bere o molto probabilmente quelle avevano alzato il gomito da sole, ma c’era pure qualche canna di mezzo. La voce narrante quella serata se la ricordava benissimo: sul tardi era sconfinata in un “mezzo” stupro. Anche lei aveva bevuto, ma certo meno delle due straniere. Tanto per capirci, in genere sono brave ragazze, spesso figlie di professionisti, ma quando arrivano in Italia scoprono che possono bere tutto l’alcool che vogliono a qualsiasi ora e in qualsiasi quantità, col risultato di mettersi spesso nei guai.

E quella sera da Jane si era bevuto: sangrìa per la precisione, ma fatta in casa sul momento, quindi mescolando senza controllo. Jane era una brava giornalista inglese che viveva dietro ai Giubbonari, in un appartamento a stanzoni dove transitava di tutto: ospiti, amanti, più i colleghi della stampa estera. Di quella sera ricordo anche un paio di canne: se le passava un gruppo sbracato sul divano, mentre uno di noi cambiava i dischi. Quanto alle due canadesi, una delle due di certo si era già appartata con il fico di turno, li avevamo visti andare verso un’altra stanza. Ma l’amico non aveva perso tempo: afferrata per un braccio l’altra ragazza mentre era seduta a chiacchierare con uno studente italiano, la invitava a seguirlo. Quella non oppose resistenza, sia perché mezza ubriaca, sia per non lasciare l’amica da sola. Sparirono quindi nella stanza di cui sopra e chiusero la porta. Si sentivano voci e rumori, ma nessuno ci badava, complice anche un disco dei Led Zeppelin a volume alto. Chi raccontava questa storia ancora ricordava la faccia dell’italiano rimasto di merda quando gli avevano soffiato la “sua” canadese. Si ricordava persino i nomi. Anne era quella salita per prima, Juliette era invece quella sfilata sotto il naso allo studente. I due compari erano rimorchiatori navigati, lui sapeva parlar francese ma era troppo timido per farcela. Ovvero, forse gli poteva pure andar bene se non fosse salita altra gente, il che era improbabile: all’epoca gli stranieri residenti al Campo e a Trastevere – soprattutto americani, inglesi e australiani – il dollaro era alto – ma anche tedeschi, olandesi e qualche sudamericano – avevano casa sempre aperta, era normale sentir suonare alla porta alle ore più disparate: amici di passaggio, italiani in caccia, cinematografari, mezzi giornalisti e scrittori, gente che andava a cena con gli amici o ne ritornava. A questa fauna si aggiungevano mezzi artisti e morti di fame vari, spesso fidanzati con straniere, chi per un mese, chi da anni. Quelli che avevano suonato alla porta erano i classici italiani che piacciono alle straniere: belli (per loro), simpatici e un po’ mascalzoni. Né sfuggiva a un osservatore esterno la profonda attrazione che certe ragazze provavano per quel tipo di uomini.

Quella storia e soprattutto i dettagli non li avevo mai raccontati a nessuno: il timido studente rimasto in bianco ovviamente ero io. Ormai non lego più con le americane, forse proprio perché ci ho lavorato per anni: sono superficiali e trovo insopportabile il loro modo di parlare sguaiato e tanto simile ai cartoni animati. Ma all’epoca stavo dietro alle straniere mie coetanee, senza badare al passaporto: erano più libere delle compagne di scuola, non è come adesso. Ma torniamo indietro: una volta sentite le urla al piano di sopra e il trambusto che ne seguiva – più che altro una gran piazzata – me la filai all’inglese, temendo che un vicino chiamasse la polizia o che le due ragazze denunciassero tutti quanti. Ricordo ancora la frase idiota di una che stava in salotto: “che vai via?”. Che se la vedessero tra di loro: ero più deluso che incazzato e ormai la cosa non mi riguardava. La mia uscita di scena non la notò nessuno: nel frattempo chi si era accoppiato, chi sentiva la musica, chi fumava. Del resto a quei tempi era normale che i gruppi fossero molto mobili, stavo per dire liquidi, anche se poi qualcuno metteva pure su famiglia, come un calabrese che tenacemente otteneva dal governo danese l’ennesima borsa di studio. Era regolarmente fidanzato con una ragazzona bionda e anche simpatica e so che in seguito hanno avuto due figli. Ma da quel giorno divenni prudente: evitai per qualche tempo quella casa né parlai mai con alcuno di quella serata. Juliette poi che andasse aff.. : con me faceva la sostenuta e poi si era fatta sbattere da un altro. Neanche mi venne in mente che quella sera era stata violentata. Per tanti anni ho anche cercato di immaginare il giorno in cui qualcuno avrebbe rievocato quella storia, e quella persona ora stava davanti a me. Quella notte dunque era presente pure lei ma ora non mi aveva riconosciuto: col tempo un uomo perde i capelli e si veste in modo diverso. Ma neanche lei era riconoscibile, salvo far caso al tono della voce e a certe sue movenze ormai fuori moda, ma tipiche dei nostri bei tempi. Delle due canadesi aveva perso anche lei le tracce: erano poi ripartite, si erano scritte un paio di lettere e poi basta, nessun contatto.

A questo punto incrocio lo sguardo di mia moglie: capisce che le avevo nascosto qualcosa. A casa faremo i conti, anzi già in macchina.

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