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La Repubblica Romana del 1849

di Riccardo Cochetti (*)

Era venerdì 9 febbraio 1849 da soltanto un’ora e mezza, quando centosettanta anni fa, al termine di una seduta durata 14 ore consecutive, l’apposita Assemblea Costituente approvò il decreto di instaurazione della Repubblica Romana, la cui cerimonia di proclamazione si sarebbe tenuta alle ore 15 del giorno stesso sulla Piazza del Campidoglio, che dichiarò “decaduto di fatto e di diritto” il potere temporale del papato.

I fatti precedenti ricordano come il crescente malcontento popolare nei confronti di Pio IX, il senigalliese Giovanni Mastai Ferretti, fosse definitivamente esploso nel luglio dell’anno prima, in quanto ritenuto responsabile della definitiva sconfitta dell’esercito piemontese a Custoza per aver rifiutato la partecipazione dello Stato Pontificio alla guerra contro l’Austria: con la speranza di riuscire a contenere la dilagante ostilità nei suoi confronti, aveva perciò nominato Capo del Governo il Conte Pellegrino Rossi, dalla fama di progressista. Il 15 novembre 1848, mentre si recava all’apertura della nuova sessione legislativa, Pellegrino Rossi rimase invece vittima di un agguato sulla scalinata del Palazzo della Cancelleria, allora sede del Parlamento, e morì accoltellato: quella stessa sera si ebbero addirittura cortei di manifestanti che inneggiavano all’omicidio, cantando “benedetta quella mano che il tiranno pugnalò”, mentre Garibaldi, ricevuta la notizia a Ravenna, si spinse immediatamente a scrivere, in una lettera inviata all’amico Carlo Notari a Livorno, che “quella pugnalata ha migliorato alquanto la nostra condizione e grazie a quel medicamento non saremo più accompagnati in Italia da guardie svizzere.”

Nel tardo pomeriggio del 24 novembre Papa Pio IX abbandonò in gran segreto il Quirinale, ormai assediato dalla popolazione inferocita, e scappò a Gaeta travestito da prete, per essere ospitato nel Regno delle Due Sicilie da Ferdinando II di Borbone, colui che era stato soprannominato Re Bomba per aver posto fine a colpi di cannone alla rivolta popolare di Messina.

Nella a dir poco imprevedibile situazione di una Roma senza Papa, la città e le sue nuove istituzioni laiche riuscirono a gettare le basi di una repubblica fortemente democratica ed insieme sovversiva, in quanto finalmente emancipata dal potere temporale della Chiesa, ma che durerà purtroppo soltanto cinque mesi a causa del successo dell’intervento militare francese volto a riconsegnare la Città eterna al Papa: nonostante la brevità, un momento storico visionario e di grandioso impegno politico, civile e di resistenza armata, durante il quale conversero generosamente in città patrioti da tutta Italia, la “meglio gioventù” di allora.

La Repubblica Romana rappresenta infatti un potente episodio fondativo della nostra storia patria, essendosi data come obiettivi fondamentali l’unità e l’indipendenza nazionale, ed uno dei momenti più alti del Risorgimento, che prefigurò anche rilevanti sviluppi dell’Italia moderna, quali l’adozione di un regime repubblicano, una Costituzione decisamente avanzata ed il contributo alla partecipazione di diverse categorie di cittadini, comprese le eroiche donne, anche se, incredibilmente, non ha tuttavia mai beneficiato di adeguate attenzioni storiografiche.

Il 21 e 22 gennaio 1849, incuranti della scomunica preventivamente lanciata da Pio IX contro organizzatori, elettori ed eletti, nelle elezioni per l’Assemblea Costituente circa 250.000 votanti, vale a dire un terzo degli aventi diritto, di cui 25.000 nella sola città di Roma, avrebbero poi scelto, con suffragio universale maschile, i propri 200 rappresentanti.

La neonata Repubblica Romana procede rapidamente a riforme di enorme significato ed impatto, quali la confisca dei beni ecclesiastici, l’abolizione del Tribunale del Sant’Uffizio (con la trasformazione del vergognoso edificio di Piazza della Minerva in abitazioni per le famiglie bisognose), l’abolizione della pena di morte, la cancellazione del monopolio del sale, del dazio sul macinato e delle tasse sulle patenti per l’esercizio dei mestieri, la riforma agraria (che comportò l’attribuzione a ciascuna famiglia di ventimila metri quadrati di terra agricola), l’introduzione dell’obbligatorietà dell’insegnamento primario finalmente sottratto al clero, la soppressione della censura preventiva e la concessione della piena libertà di stampa, l’istituzione del matrimonio civile e l’abrogazione della norma che prevedeva l’esclusione delle donne dalla successione. Una vera e profonda rivoluzione, che vide sorgere un’immediata opposizione da parte delle famiglie più ricche: i Barberini, i Chigi, i Teano, non solo si sottrassero al pagamento del prestito forzoso disposto per fronteggiare il debito pubblico di 46 milioni di scudi lasciato in eredità dal regime pontificio, ma arrivarono addirittura a promettere centomila scudi alle truppe che per prime avessero deposto il legittimo governo della Repubblica.

Si fosse trattato solo di questo, non avrebbe forse potuto rappresentare per i nuovi governanti, l’Assemblea Costituente ed il Triumvirato formato da Mazzini, Armellini e Saffi, una soverchia preoccupazione, ma l’inevitabilità della sconfitta si sarebbe invece presto palesata in particolar modo a causa del diffuso e persistente isolamento internazionale della neonata Repubblica, considerato che nessuna potenza europea l’avrebbe riconosciuta, come preannunciato già dal fatto che il corpo diplomatico presente a Roma aveva seguito al gran completo il Papa a Gaeta, e vista anche la mancanza di qualsiasi iniziativa diplomatica da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, gli unici due Stati che avrebbero potuto non avere, sia pure per motivi diversi, alcuna difficoltà ad intervenire nella questione.

Si aggiunga a questo il mancato coordinamento del movimento democratico italiano, reso ancor più drammatico dalla grave involuzione politica in atto in quegli stessi mesi nella penisola, dove si era assistito alla definitiva sconfitta piemontese nella Prima guerra d’Indipendenza, alla sospensione della proclamazione del regime repubblicano in Toscana e della progettata unificazione con Roma, alla repressione dell’insurrezione repubblicana di Genova ed alla riconquista della Sicilia da parte delle truppe borboniche.

La fuga di Pio IX aveva d’altro canto paradossalmente inflitto il colpo di grazia proprio alla strategia di coloro che fino ad allora avevano invece ritenuto di poter attuare a Roma una politica blandamente riformista confidando nel benestare del Papa: lo scontro si radicalizzò e gli eventi lasciarono ben presto capire al Pontefice che la pretesa di continuare a beneficiare, nell’Europa di metà Ottocento, di quel potere temporale che continuava a tenere il mondo laico lontano dalla gestione dello Stato sarebbe ormai stata difficilmente negoziabile. Così, il Segretario di Stato Antonelli ebbe l’incarico di rifiutare udienza alle deputazioni romane, respingere tutte le richieste di aiuto o di mediazione e nel frattempo attivare i canali per ottenere un intervento militare straniero contro la Repubblica Romana. Già il 4 dicembre del 1848 era partito in tal senso un appello del Papa ai sovrani cattolici, che trovò attente orecchie in Francia, Spagna, Austria, oltre ovviamente che nel Borbone che lo stava ospitando. In un clima di interessi contrapposti e reciproche diffidenze, si preferì comunque non mettere in atto un’iniziativa congiunta, ma attribuire a ciascuna potenza una zona di intervento, e Roma venne affidata alla Francia, che aveva posto la propria partecipazione al piano di restaurazione del Papato come conditio sine qua non per una rapida soluzione della crisi italiana.

Il 25 aprile di quel 1849 il corpo di spedizione francese, comandato dal generale Oudinot, sbarcò a Civitavecchia, peraltro in palese violazione di quell’articolo 5 della Costituzione che proibiva esplicitamente alla repubblica transalpina di impiegare le proprie forze militari contro le libertà di un altro popolo; due giorni dopo arrivò a Roma la Legione italiana di Garibaldi, ed il 30 si ebbe un primo scontro sul Gianicolo, durante il quale venne ferito anche il ventiduenne genovese Goffredo Mameli, attivo con Nino Bixio nel precedente biennio delle grandi manifestazioni di Genova, poi volontario in Lombardia e quindi aiutante di Garibaldi, famoso soprattutto per essere l’autore del testo di quello che diventerà l’inno nazionale italiano: i francesi attaccano a mezzogiorno e la battaglia dura sette ore, ma Garibaldi, uscito con le sue truppe dal Quartier Generale di Villa Savorelli, riesce infine a metterli in fuga. Tra morti, feriti, e prigionieri, i francesi lasciano sul campo 1.000 uomini, e l’indomani i romani, recatisi in migliaia sul Gianicolo a godersi i luoghi della vittoriosa battaglia, potranno leggere il sarcastico e spavaldo resoconto a cura della “Commissione delle Barricate”, organismo creato per preparare e motivare i cittadini alla difesa interna: “L’ingresso de li francesi a Roma incominciò ieri: entrarono da Porta San Pancrazio … in qualità de priggionieri!”. Garibaldi, nonostante una ferita subita ad un fianco, li aveva inseguiti fino a Castel di Guido nella loro ritirata verso Civitavecchia, prima di essere fermato da Mazzini, fautore di un negoziato con la Francia, che sarebbe stato a suo dire invece vanificato da una troppo umiliante sconfitta sul campo.

Secondo Mazzini, infatti, l’unico concreto progetto politico che avrebbe potuto consentire di riprendere la guerra nazionale, e nella circostanza di difendere la Repubblica Romana, non poteva che fondarsi sull’appoggio della Francia repubblicana, peraltro promessogli in precedenza da Alphonse de Lamartine, all’epoca Ministro degli esteri nel Governo provvisorio, sulla base di una comune azione contro l’Austria, che aveva appena occupato la Romagna, la Toscana, le Marche: come Mazzini, del resto, nessuno avrebbe potuto lontanamente immaginare la pesantissima svolta moderata che nelle elezioni legislative francesi di maggio, grazie al massiccio voto dei cattolici e dei contadini, avrebbe invece consegnato al Partito dell’Ordine e dunque al Presidente Luigi Napoleone i due terzi dei seggi.

In effetti il Governo di Parigi, prima di essere spazzato via dall’esito delle nuove elezioni, aveva incaricato di una missione straordinaria a Roma il diplomatico Ferdinand de Lesseps (che il disincantato popolo romano soprannominò prontamente “er trappolaro”, nella purtroppo fondata consapevolezza che l’armistizio non sarebbe stato per la Francia un impegno concreto, ma solo un modo per prendere tempo mentre provvedeva a far arrivare truppe di rinforzo e cannoni) che raggiunse un accordo con le autorità della Repubblica, ma immediatamente rigettato dal Generale Oudinot, che addirittura il 3 giugno, con un giorno di anticipo rispetto alla concordata data di scadenza della tregua, lanciò un nuovo e proditorio attacco sul Gianicolo, conquistando al termine di un feroce combattimento durato 17 ore le ville fuori Porta San Pancrazio (oggi splendido contesto del Museo della Repubblica Romana e della Memoria garibaldina), con la sola eccezione di quella denominata Il Vascello, attualmente sede del Grande Oriente d’Italia, dando il via da quell’altura all’assedio ed al bombardamento francese della città, la cui difesa resterà affidata a 16.000 tra soldati e volontari della Repubblica, 2.000 volontari provenienti da altre regioni italiane e 300 da paesi stranieri, in un’impari lotta contro un nemico ben più numeroso, organizzato e meglio armato.

Per un intero mese vengono colpite dall’alto case, chiese, palazzi e monumenti: si contano fino a 150 bombe a notte, che raggiungono anche gli ospedali nonostante fossero convenzionalmente segnalati con delle bandiere nere per tenerli al riparo dai bombardamenti. Il Papa davanti alle sofferenze ed ai lutti imposti ai suoi fedeli ed ai figli di Roma non profferì neppure una parola di sdegno, di preoccupazione né di pacificazione: quando una palla di cannone colpì la facciata di S. Andrea della Valle, si scoprì che qualche irridente francese vi aveva inciso sopra per sfregio, evidentemente stimolato dall’atteggiamento del Pontefice, “Pio IX ai suoi amatissimi…”

Non fossero bastate le bombe, l’assedio francese comportò anche il pesantissimo blocco dei rifornimenti di viveri e, in un giugno che in quell’anno presentò come mai prima temperature fino a 36 gradi per moltissimi giorni, la popolazione veniva anche condannata alla sete con l’insopportabile interruzione del flusso dell’Acqua Paola, che riforniva Trastevere, San Pietro ed i quartieri limitrofi. Il massacro dei romani diventa sempre più terribile, e dopo 27 giorni di atrocità anche le ultime resistenze sono ormai vinte: nell’ultimo giorno di giugno e di assedio i francesi hanno buon gioco a sfondare anche le linee interne di difesa cittadina e farne cadere l’ultimo baluardo, quella Villa Spada dove Garibaldi, sempre più in ripiegamento, aveva posto il suo ultimo Quartier Generale, nella cui strenua ma vana difesa muore, così come l’uruguaiano Andrès Aguiar, detto “il Moro di Garibaldi”, anche il ventiquattrenne milanese Luciano Manara. Già combattente nelle gloriose Cinque Giornate di Milano ed accorso a Roma alla guida di 600 bersaglieri dopo la sconfitta di Novara che aveva posto fine alla Prima guerra d’indipendenza, era stato nominato da Garibaldi Capo di Stato Maggiore della Repubblica Romana, succedendo a Francesco Daverio caduto il 3 giugno a Villa Corsini, e ne sarà l’ultimo caduto.

L’Assemblea Costituente, poco dopo la mezzanotte del 1° luglio 1849, deliberò la resa, a certificare una sconfitta che resterà però tale esclusivamente sotto il punto di vista militare e dovuta soltanto all’enorme sproporzione tra le forze in campo, perché invece quella sublime dichiarazione, che l’Assemblea cessava una difesa divenuta impossibile e rimaneva al suo posto, avrebbe tramandato tutta intera la possente valenza simbolica di quella esperienza romana, ed il fatto che le truppe francesi, ben dopo la dichiarazione di resa, avessero voluto sciogliere con le armi in pugno quell’ultima seduta dell’Assemblea Costituente di mercoledì 4 luglio 1849 avrebbe mantenuto per sempre quella resa ancor più gloriosa.

Nonostante avesse affermato di aver visto le truppe della Repubblica stremate e sfinite, Mazzini non volle assolutamente accettare quella dichiarazione di resa, asserendo come dal popolo non fosse mai venuta alcuna indicazione a desistere, e rassegnò dunque le dimissioni insieme agli altri Triumviri: dichiarò di aver avuto addirittura orrore della dichiarazione del deputato dell’Assemblea Enrico Cernuschi, responsabile della Commissione delle Barricate, “la resistenza non ha più scopo, non ci resta più altro che coprirci il volto come Cesare, vengano e ci finiscano”, ma le più consone e riconoscenti parole nei confronti dell’Assemblea Costituente possono invece essere considerate quelle di Carlo Pisacane, il socialista libertario napoletano che era stato posto a capo dell’esercito popolare: “ha sì mancato del coraggio del guerriero che muore con le armi in mano, ma ha avuto invece quello del giusto, che intrepido espone il petto ai colpi dei suoi assassini.”

Anche il giorno successivo alla resa offrì due eventi in grado di suscitare un’ancora impressionante partecipazione di popolo: nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, con l’appassionata orazione funebre del patriota Ugo Bassi, un sacerdote barnabita, si svolsero i funerali di Luciano Manara, ed al tramonto Giuseppe Garibaldi, accompagnato da Anita, Ciceruacchio con i figli Luigi e Lorenzo e da ben 4.000 volontari, lasciò Roma attraverso Porta San Giovanni per accorrere in difesa di Venezia. Garibaldi aveva mobilitato i suoi ancora numerosissimi seguaci sostenendo che “Ovunque noi saremo, colà sarà Roma”, e pensare che non aveva potuto promettere loro “né onori né stipendi, ma solo fame, sete, marce forzate, battaglie e morte.”

La straordinaria ed insieme terribile esperienza della Repubblica Romana cesserà, con due eventi temporalmente contemporanei ma di senso diametralmente opposto, il 3 luglio di quel 1849: alle ore 12 in punto, mentre sulla Piazza del Campidoglio veniva promulgata tra gli applausi e la partecipe commozione della pur vinta popolazione la sua modernissima Costituzione, le truppe francesi guidate dal Generale di divisione Gueswiller prendevano possesso di Piazza del Popolo, che fornendo un possente significato simbolico ai luoghi è posta esattamente all’altra estremità del Corso, e cominciarono ad entrare in Roma.

Scolpito sul Muro della Costituzione posto sul Belvedere della Passeggiata del Gianicolo nel 2011, un possente monolite in calcestruzzo rosato lungo 50 metri, quel testo di soli 69 articoli, organico ed essenziale, destinato per circostanze e tempistica della sua promulgazione a non diventare mai operativo e rivolto quindi più alle generazioni successive che ai propri contemporanei, rimane la viva testimonianza di una modernità forse ancora oggi sconosciuta alle attuali democrazie: aveva però in ogni caso posto le indelebili fondamenta di una cultura di governo repubblicana destinata nel secolo successivo a riproporsi come la sola degna di reggere l’Italia.

Il 15 luglio 1849 la bandiera pontificia torna nuovamente a sventolare su Castel Sant’Angelo e, prima ancora del rientro a Roma del Papa, che avverrà soltanto il 12 aprile dell’anno successivo, la riconsegna della città al potere papale dà il via ad una pronta e totale restaurazione, di cui viene incaricata una commissione di tre cardinali, con il compito non solo di annullare puntigliosamente tutto l’operato del governo repubblicano, ma anche le blande concessioni del primo Pio IX, in modo tale da riportare le lancette della storia all’assolutismo del precedente pontificato di Gregorio XVI. Osservò infatti in quei giorni Marco Minghetti, il magistrato bolognese appartenente alla Destra storica che era stato Ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo costituzionale concesso da Papa Mastai Ferretti, che “niente sta a cuore al buon Pio IX quanto il purgarsi della taccia di principe riformatore.”

 

(*) Giornalista, scrittore di satira, prosa e teatro, fondatore e Presidente dell’Associazione Café Voltaire di Roma, Riccardo Cochetti è anche autore del testo “Roma senza Papa, il sogno breve della Repubblica Romana”, pubblicato dalle Edizioni Ensemble unitamente ad un CD (Edizioni Heristal Entertainment) che ne riporta l’integrale registrazione della rappresentazione teatrale, comprensiva delle musiche appositamente composte dal M° Giuseppe Natale. Si tratta di una pièce che, accuratamente basata su un’approfondita ricerca documentale e bibliografica sulla Repubblica Romana, ne restituisce le atmosfere ed i fatti più salienti grazie ai tre personaggi vividamente in scena: il triumviro Giuseppe Mazzini, la giornalista americana Margaret Fuller, all’epoca corrispondente da Roma per il New York Daily Tribune, ed Annetta Cimarra, moglie del capopopolo Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, che incarna lo spontaneo sentimento popolare vicinissimo a Garibaldi.