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Di chi è questa città?

Sono salita nell’autobus, ho trovato un posto libero tra altri tre già occupati. Accanto a me è seduto un russo, poteva avere circa cinquant’anni, con lo sguardo severo e una brutta ancora tatuata sul collo. Guarda fuori dalla finestra; un giovane italiano è seduto di traverso e fa lo stesso, non si muove, ascolta la musica, sembra morto. Mi è di fronte un nero, anche giovane, è vestito con cura, ha l’espressione intelligente e amicale. All’ultimo minuto sale anche una coppia italiana, si ferma vicino alla porta, entrambi con piercing sul viso, con i vestiti troppo largi, pantaloni sciolti, le scarpe sporche. Lui maneggia una chiave e improvvisamente traccia dei graffi sulla porta di vetro. I graffi assomigliano a un codice graziato, illeggibile e brutto. Forse un segno per affermare il suo passaggio.

Dopo guarda la sua fidanzata e la bacia, pare che con la lingua vuole raggiungere il suo stomaco, o forse mangiare la ragazza intera. Io li guardo con disgusto, poi sposto lo sguardo al russo, sembra o finge di non aver notato niente. L’africano invece si gira intorno per vedere che cosa è successo, dopo i nostri occhi ci incontrano e ci guardiamo per un attimo. Non c’è nessuno che scuote la testa, come usavano fare le nostre nonne per esprimere la propria disapprovazione.

Ci guardiamo con tristezza e rammarico, con imbarazzo, senza dire una parola, eppure non siamo noi che ci dovremmo vergognare. Il ragazzo sta ancora succhiando la faccia della sua fidanzata, sembra stia celebrando un grande trionfo, come se avesse fatto un buon lavoro. Il russo sta sempre guardando fuori dal finestrino, l’africano invece si sta addormentando. Anch’io alla fine sono stancata di osservare la coppia. Per il resto del percorso ho continuato a domandarmi se devo dire qualcosa a lui, a quel giovanotto con la lunghissima lingua e orecchie sproporzionate, convinto di sembrare il Re Leone.

Scendo alla mia fermata e continuo a pensare che avrei dovuto dire qualcosa. Che uno di noi indiani, russi, negri, polacchi poteva dirgli che non doveva danneggiare la mia città.