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Nella selva del Verano

Il cimitero del Verano è immenso e bellissimo. Soprattutto nelle sue parti monumentali è un’enciclopedia di stili e di arti minori da tutelare, e infatti dipende dall’Ufficio Monumenti Moderni della Sovraintendenza di Roma Capitale e sono anche previsti itinerari e visite guidate. Solo che è più facile sapere dove è sepolto Trilussa o Paolo Stoppa o Enrico Toti che non il caro estinto. Mi ero riproposto di trovare la tomba di famiglia, comprata nel lontano 1912 dal mio bisnonno e situata nella zona del Pincetto Nuovo, la parte in collina che si vede dall’inizio della via Tiburtina. L’impiegato mi ha gentilmente stampato le coordinate della tomba, senza però sapermi dire altro. Mi ha comunque dato la mappa del Verano, dove le varie zone sono numerate. Tutto facile? No. Nella stampata si parlava di “Viale Circonvallazione, loculi esterni”. Ebbene, sul terreno non c’è nessuna indicazione topografica con questo nome. In più, mi sono presto accorto che settori diversi ripetono la stessa numerazione, così ci sono due 31, due 140. In più, i numeri sono spesso cancellati o poco leggibili e – dulcis in fundo – ho scoperto che la tomba di famiglia era a terra e non a loculo. Ma per trovarla mi sono dovuto rivolgere a un paio di giardinieri pratici della zona, altrimenti avrei vagato ancora per sepolcri e sterpaglie. In realtà mi avevano fermato, insospettiti dal mio girovagare. E qui purtroppo va detto che in certe zone il Verano è una savana piena di zanzare. Ha sicuramente piovuto molto, ma l’incuria è impressionante, sia perché molte famiglie si sono estinte, sia perché l’AMA non riesce a garantire una manutenzione ordinaria decente. Fa impressione vedere tombe monumentali avvolte da vegetazione infestante o in totale rovina. Ma un intervento pubblico deve distinguere tra restauro conservativo e manutenzione ordinaria, la quale in questo momento è carente per mancanza di organici e di organizzazione. Un vero peccato, perché il Verano fa parte della cultura romana ed è un luogo pieno di arte. Sarebbe anche auspicabile che sorgano associazioni culturali che adottino una serie di sepolcri da restaurare o manutenere.

Il “Cisternone” abbandonato di Villa Borghese

Terra secca, ciuffi sparuti d’erba e non siamo sulle rive del Po in carenza d’acqua, ma nei pressi dell’hotel Parco dei Principi, dove negli anni ’20 venne edificato il cd  “Cisternone”con la fontana del Sileno, ma più comunemente conosciuta come quella del  “Cisternone”.

Non è il periodo di carenza dell’acqua ad offrire uno spettacolo di arrido abbandono di un’area di Villa Borghese, non lontana dall’omonima Galleria, ma la facilità con la quale l’Amministrazione Capitolina preferisce transennare un edificio che mostra qualche debolezza, piuttosto che impegnarsi al recupero e alla manutenzione di una costruzione suggestiva nel suo strano connubio eclettico delle massicce forme assirobabilonese con dei brividi rinascimentali barocchi, per dimenticarlo del degrado.

Decoro urbano non si può identificare con il vietare o ostacolare le persone a sedersi sugli scalini per mangiare in panino quando le Amministrazioni non curano gli spazi e gli edifici

L’architetto Raffaele de Vico e l’ingegnere Pompeo Passerini mai avrebbero potuto pensare, quando lo realizzarono tra il 1922 ed il 1925, che il serbatoio dell’Acqua Marcia non avrebbe più effettuato l’approvvigionamento idrico di Villa Borghese, per profondare nel degrado e nell’incuria.

È ironico che su di una delle facciate dell’edificio è scritto Novo Urbis Decor (la nuova bellezza della città), con il suo fascino “blasé”, annoiato e indifferente nel aver perso la sua attrattiva con le fontanelle private dell’allegro zampillare dell’acqua.

Sarebbero stati utili, in questo periodo, i litri d’acqua della cisterna, forse, nell’ambito del progetto “Caput Mundi” e tra i 335 provvedimenti pensati come un’opportunità per fare Roma bella grazie al Pnrr e in coincidenza con il Giubileo 2025, il commissario straordinario per il Giubileo e sindaco di Roma Roberto Gualtieri troverà spazio, nella linea d’intervento denominata “Mi tingo di verde” (parchi, giardini storici, ville e fontane) anche di intervenire sul “Cisternone” tra i molti siti poco conosciuti da valorizzare.

Reggia di Carditello: Il recupero dopo il saccheggio

Lo sport maggiormente praticato nel Bel Paese d’Italia è l’atto di pentimento, da buona nazione cattolica, per ogni mancata scelta. Atti di costrizione che vagano tra le politiche sociali e quelle sul patrimonio artistico, per non dimenticare le incertezze nella politica estera e nei diritti civili, amareggiano molte persone che continuano a meravigliarsi di quanti tesori l’Italia continui a celare nell’indifferenza degli amministratori sino a quando la pubblica opinione riesce a scalfire l’analfabetismo dilagante e porre all’attenzione la necessità di preservare un bene come la reggia borbonica di Carditello.

Il Ministero ai Beni Culturali ha acquisito la Reggia di Carditello, esempio di villa agricola, ma solo dopo aver che ha subito continui saccheggi. Forse sarebbe opportuno interrogarsi, prima di gioire, se una testimonianza di un’epoca e di un concetto di agricoltura possa essere occasione di grassi affari prima di gettare in un pozzo milioni di euro e poi lasciarla bella e splendente in mezzo a cinque discariche, senza collegamenti e soprattutto con un deficitario programma di valorizzazione turistica.

Il professore Stefano Settis gioisce, ma dopo La Grande Bellezza è oramai ufficializzato che – bellezza fa rima con mondezza – sarebbe utile evitare che le cinque discariche presenti nelle immediate vicinanze della tenuta agricola non compromettano il suo sogno di renderla apparentemente produttiva a fini didattico turistici.

È opinione dell’arch. Eugenio Frollo, del Forum di Agenda 21, che saranno sufficienti una dozzina di milioni di euro, più di quello che è costata per acquistarla, per rendere la Reggia adatta ad accogliere i visitatori e possibili eventi. Forse l’architetto è ottimista o non è a conoscenza della proverbiale voracità dei politici e degli amministratori per far lavorare tutti e al più allungo possibile, senza dimenticare che, a differenza delle discariche presidiate da militari per l’alto valor strategico, per decenni il complesso è stato lasciato in balia dei saccheggiatori, spogliandola di tutto, anche dei gradini.

Dopo i lavori cosa rimarrà dell’originaria struttura, e si potrà ancora definire un intervento di restauro o sarà una sorta di ricostruzione post terremoto?

Saranno “subito” disponibili tre milioni di euro per i primi lavori, poi una fondazione, con i Ministeri dei Beni culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura, enti locali e associazioni impegnate sul territorio, dovranno gestire le successive fasi.

I preventivi saranno solo indicativi e le spese sicuramente lieviteranno e alla fine tanto lavoro e fondi per nulla, perché una testimonianza settecentesca, assediata dalla mondezza anche se legalmente ordinata, non avrà infrastrutture necessarie per la promozione e l’accoglienza.

Non sarebbe opportuno elaborare un progetto complessivo che non preveda solo l’organizzazione dei lotti dei lavori, ma anche come rendere in futuro accessibile e fruibile il parco e la dimora?

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Di chi è questa città?

Sono salita nell’autobus, ho trovato un posto libero tra altri tre già occupati. Accanto a me è seduto un russo, poteva avere circa cinquant’anni, con lo sguardo severo e una brutta ancora tatuata sul collo. Guarda fuori dalla finestra; un giovane italiano è seduto di traverso e fa lo stesso, non si muove, ascolta la musica, sembra morto. Mi è di fronte un nero, anche giovane, è vestito con cura, ha l’espressione intelligente e amicale. All’ultimo minuto sale anche una coppia italiana, si ferma vicino alla porta, entrambi con piercing sul viso, con i vestiti troppo largi, pantaloni sciolti, le scarpe sporche. Lui maneggia una chiave e improvvisamente traccia dei graffi sulla porta di vetro. I graffi assomigliano a un codice graziato, illeggibile e brutto. Forse un segno per affermare il suo passaggio.

Dopo guarda la sua fidanzata e la bacia, pare che con la lingua vuole raggiungere il suo stomaco, o forse mangiare la ragazza intera. Io li guardo con disgusto, poi sposto lo sguardo al russo, sembra o finge di non aver notato niente. L’africano invece si gira intorno per vedere che cosa è successo, dopo i nostri occhi ci incontrano e ci guardiamo per un attimo. Non c’è nessuno che scuote la testa, come usavano fare le nostre nonne per esprimere la propria disapprovazione.

Ci guardiamo con tristezza e rammarico, con imbarazzo, senza dire una parola, eppure non siamo noi che ci dovremmo vergognare. Il ragazzo sta ancora succhiando la faccia della sua fidanzata, sembra stia celebrando un grande trionfo, come se avesse fatto un buon lavoro. Il russo sta sempre guardando fuori dal finestrino, l’africano invece si sta addormentando. Anch’io alla fine sono stancata di osservare la coppia. Per il resto del percorso ho continuato a domandarmi se devo dire qualcosa a lui, a quel giovanotto con la lunghissima lingua e orecchie sproporzionate, convinto di sembrare il Re Leone.

Scendo alla mia fermata e continuo a pensare che avrei dovuto dire qualcosa. Che uno di noi indiani, russi, negri, polacchi poteva dirgli che non doveva danneggiare la mia città.