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In questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus, ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti (1971) o ancora de L’amore ai tempi del colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla TerraThe Omega Man, che ha visto ben tre adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard Matheson col titolo Io sono leggenda (1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato George Romero: La città verrà distrutta all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam (1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni dopo esce Il Quinto Elemento di Luc Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico. Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle, dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh, vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…

Cosa resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo meno schematico. In Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del dopoguerra: Una lettera per Tezuò. Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa convincermi a cambiare idea sui vaccini.

Mi piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982, ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.

Ebola: il Virus nella cultura di massa

È dal 1976 che si conosceva l’Ebola e che si poteva fermare sul nascere, prima che la paura arrivasse all’Occidente, ma essendo un virus che si fece riconoscere in nazioni povere dell’Africa non aveva alcun interesse economico e sanitario.

Il virus, prima di sbarcare nell’Occidente e diventare un business, era stato, come ogni situazione apocalittica, una generosa fonte d’ispirazione per romanzieri e cinematografari. Una fonte magnanima, tanto più se è un virus con le implicazioni dell’Ebola rimasto circoscritto per decenni in un’area ben determinata dell’Africa, che ha trovato libero sfogo nella cultura di massa e nella narrativa di genere, per poi cominciare ad insinuarsi nell’Occidente industrializzato.

Nel cinema Virus letale (Outbreak), del 1995, con Dustin Hoffman, Rene Russo, Kevin Spacey, Morgan Freeman, Cuba Gooding Jr., Donald Sutherland e diretto da Wolfgang Petersen e Resident Evil del 2002, interpretato da Milla Jovovich, per la regia di Paul W. S. Anderson, sono l’esempio di due differenti modi di affrontare il pericolo invisibile. Nel primo è Dustin Hoffman che cerca di sconfiggere, negli anni ’90, il virus dall’Africa agli Stati uniti, mentre nel secondo è un virus modificato, nello scenario di un prossimo futuro, a mietere vittime e generando un’altra progenie.

Anche i videogiochi si sono nutriti di epidemie, traducendo Resident Evil in un video game e generando giochi sempre più complessi sulle malattie e sulle armi biologiche.

Anche nel videogioco Trauma Team si manifesta un’epidemia di un virus chiamato “Rosalia”, i cui effetti sono molto simili a quelli del virus ebola.

Nelle trame romanzesche l’Ebola e i suoi derivati sono utilizzati come una possibile arma con intento criminale come in Contagio di Robin Cook o Nel Bianco di Ken Follett e in Potere esecutivo e Rainbow Six di Tom Clancy.

Nel 2014 il virus fa un salto di qualità nelle paure dell’Occidente e nell’ambito commerciale con la messa in produzione di peluche dalle sembianze dell’Ebola. Una commercializzazione effettuata dalla Giant Microbes, azienda statunitense specializzata in morbidi microbi e virus, ma che non riesce a soddisfare addirittura le richieste.

Richieste che non si limitano ai peluche, ma anche alle magliette, in una sorta di esorcizzazione di ogni paura, ma l’unica azione che può mettere al momentaneo riparo è sostenere chi lavora sul campo per fermare questa malattia e salvare vite. Emergency ha realizzato due centri in Sierra Leone (Freetown) per fronteggiare l’Ebola, altre organizzazioni non governative come Medici senza frontiere sono impegnate a colmare i ritardi dei benestanti Paesi dell’Occidente che solo ora si rendono conto dei rischi di contagio in Europa e Usa. Gli Stati uniti, oltre a stanziare mld di dollari per la ricerca di un siero, hanno inviato i suoi marine per allestire ospedali e tenerli in sicurezza.

Anche per il singolo abitante di questa Terra è giunto il momento di partecipare attivamente collegandosi alla pagina Facebook.

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Ebola e le lingue ariane

Anche lo studio sulla diffusione dei virus può aiutare la linguistica. Questo è il ragionamento che ha suggerito di applicare anche alla filologia metodi e algoritmi inizialmente studiati per ricostruire l’origine e seguire l’evoluzione dei virus e prevenire magari le epidemie. Tutto questo s’inquadra nella collaborazione tra discipline diverse che in linguistica ha messo in contatto i filologi con i biologi e gli informatici, nel tentativo di reinventare la linguistica storica su basi più scientifiche. Questi studiosi trattano le parole come i teorici dell’evoluzionismo trattano i geni e concettualizzano la diffusione delle lingue come gli epidemiologi modellano la diffusione dei virus. Il metodo – sostengono – ha permesso di rispondere a grandi interrogativi di vecchia data, in particolare quello sull’origine della famiglia c.d. indoeuropea. Sicuramente c’era bisogno di metter ordine, se solo si pensa all’ambiguità dello stesso termine *indoeuropeo*, che mischia etnia con lingua e geografia, esclude gli apporti di Medio Oriente e Asia Minore e fa quasi rimpiangere il vecchio e discusso termine *ariano*, anche se ai guerrieri a cavallo armati di armi di bronzo che invadevano dall’Asia le steppe d’Europa parlando una lingua comune ormai credono in pochi. Oggi gli studiosi sono sostanzialmente divisi tra i sostenitori di due ipotesi: la prima prevede che i primi parlanti fossero agricoltori del Neolitico che emigrarono dall’Anatolia, la seconda li individua in allevatori di cavalli dell’Età del Bronzo che, partendo dalle steppe dell’Eurasia, si diffusero successivamente in Asia e in Europa portando con sé importanti innovazioni tecnologiche come la ruota e le armi di metallo. Teoria classica e sfruttata anche troppo dalle ideologie nazionaliste e razziste degli ultimi due secoli. La seconda teoria, più recente, registra e segue l’aumento della popolazione e l’espansione dei popoli in funzione dell’agricoltura, che alla fine del neolitico permise di mantenere gruppi sociali più numerosi e di stabilizzarne le attività. Nessuna delle due teorie è esente da pregiudizio, ma almeno la seconda è supportata dalla genetica, la quale va apparentemente oltre l’ideologia. Vediamone in breve i risultati.
Intanto è ormai geneticamente provato che il genere umano si è espanso dall’Africa in almeno due migrazioni. Le analisi genetiche di Alan R. Templeton, della Washington University di St Louis, propongono un nuovo schema filogenetico, ottenuto combinando dati e geni di varie popolazioni, per ricostruirne i movimenti. (1). L’analisi di GEODIS ha indicato che una prima migrazione dall’Africa avvenne fra 840.000 e 420.000 anni fa, mentre una seconda, molto più recente, fra 15.000 e 80.000. L’analisi mostra anche che l’ondata di uomini non si limitò a sostituire le popolazioni già residenti in Europa, ma vi fu una fusione. La razza pura dunque non esiste.
Lo stesso sistema è stato usato per analizzare la variabilità delle parole imparentate in 109 lingue indoeuropee antiche e moderne. L’idea di base era che i tassi di apparizione e di scomparsa delle parole imparentate fossero assimilabili a quelli dei nucleotidi nell’evoluzione del patrimonio genetico del virus. Negli studi di linguistica del resto è normale individuare l’origine di una data lingua tracciandone anche la diffusione geografica, analizzando le variazioni nel vocabolario, nelle pronunce e nella grammatica e confrontandole poi con i dati disponibili sulle antiche migrazioni delle popolazioni dei parlanti. L’ultimo studio in ordine di tempo, diretto da Quentin D. Atkinson dell’Università di Oxford, porta a concludere che i primi parlanti indoeuropei abitavano l’Anatolia, che corrisponde all’Asia minore di Greci e Romani o, in termini moderni, alla Turchia asiatica, supportando così una delle due teorie concorrenti sostenute da diversi studiosi. Secondo le conclusioni dello studio, le simulazioni al computer sono infatti compatibili con l’ipotesi dell’Anatolia più che con l’ipotesi delle steppe euroasiatiche. Ma il risultato è destinato ancora a dividere gli studiosi. Alcuni linguisti hanno già sottolineato che non può essere considerato conclusivo, soprattutto per la parzialità dei dati utilizzati, relativi al solo vocabolario. Ma torneremo su quest’argomento.
Terzo punto: la fase successiva: circa 9000 anni fa, popolazioni provenienti dal Medio Oriente arrivarono in Europa passando per l’Anatolia, e da lì attraverso Creta e le isole del Dodecanneso, si diffusero per tutta l’Europa del sud. Lo ha stabilito un’analisi genetica su circa 1000 individui di 32 popolazioni diverse di Europa, Africa e Medio Oriente, e hanno cercato specifiche varianti denominate polimorfismi a singolo nucleotide, che riguardano differenze nei singoli “mattoni elementari” che costituiscono la catena del DNA. Risultato: le popolazioni del Neolitico potrebbero essere migrate dunque in Europa dal Medio Oriente lungo diverse isole del Mediterraneo. È il risultato di uno studio di genetica di Peristera Paschou, dell’Università “Democrito di Tracia” ad Alexandroupolis. Paschou e altri ricercatori hanno analizzato il DNA di soggetti europei, mediorientali e nordafricani ricostruendo la distribuzione geografica di specifiche varianti genetiche note come polimorfismi a singolo nucleotide e deducendone quindi le rotte seguite nelle migrazioni dei loro lontani antenati. Il genoma degli europei mostra i segni di un mescolamento di geni delle antiche popolazioni paleolitiche, che colonizzarono il Vecchio Continente circa 35.000 anni fa, con quelli delle popolazioni neolitiche, originarie del Medio Oriente, che arrivarono in Europa circa 9000 anni fa. Incerte sono ancora le stime del contributo dei geni neolitici al genoma europeo, variabili, tra il 10 e il 70 per cento, secondo il tipo di analisi usata. Gli studiosi tuttavia concordano sul fatto che queste popolazioni mediorientali abbiano portato in Europa trasformazioni epocali, come nuove tecniche agricole e forse anche le lingue c.d. indoeuropee. Ma quali rotte migratorie seguirono questi agricoltori neolitici? Le ipotesi, sostenute anche da scoperte archeologiche, sono tre. La prima, via terra, parte dal Vicino Oriente e passa per l’Anatolia, e poi da lì attraverso il Bosforo e i Dardanelli verso la Tracia, nell’attuale Grecia, e va verso i Balcani. Una seconda via, marittima, passa per le coste ora turche e attraversa le isole del Mediterraneo, arrivando alle coste dell’Europa meridionale. La terza via parte dalle coste del Medio Oriente e attraversa invece le isole dell’Egeo e arriva in Grecia. Con questo tipo di analisi, è possibile ricostruire come le caratteristiche possano variare con la geografia: le differenze tra il DNA di un europeo e quello di un africano aumentano andando da est verso ovest. In particolare, l’analisi dettagliata è compatibile con l’ipotesi che la maggior parte delle migrazioni del Neolitico abbiano seguito la rotta marittima, e nello specifico quella che collega la regione costiera dell’Anatolia, ed Europa meridionale, passando per Creta e per le isole del Dodecanneso. Da qui, le popolazioni di agricoltori del Medio Oriente si sparpagliarono per tutta l’Europa del sud.
La ricerca in realtà è condizionata da un pregiudizio: che una lingua sia un elenco di parole, mentre la realtà è che l’evoluzione linguistica non può essere compresa attraverso modelli non-linguistici che riducono la lingua a una semplice raccolta di parole. Né si capisce perché si parli tanto di agricoltura e poco di allevamento seminomade o di popoli cacciatori raccoglitori, che si devono spostare per ampi spazi in tempi anche brevi per trovare le risorse alimentari necessarie alla loro crescita demografica o per adeguarsi a un diverso regime climatico o idrico.
E qui arriviamo al quarto punto: per andare oltre le parole dobbiamo entrare in un campo più avanzato e affrontare grammatica e sintassi. Poiché i vocabolari cambiano molto rapidamente, il loro uso per determinare i cambiamenti delle lingue nel corso del tempo può consentire di raggiungere al massimo epoche distanti fra gli 8.000 e 10.000 anni. Per studiare i linguaggi del Pleistocene, il periodo compreso fra 1,8 milioni e 10.000 anni fa, Michael Dunn e colleghi del Max-Planck-Institut di psicolinguistica di Nimega, in Olanda (link: http://www.mpi.nl/), hanno sviluppato un programma al computer che analizza le lingue basandosi su come le parole sono legate le une alle altre. Rimandiamo al lungo articolo di Dunn, scaricabile liberamente (2), che ci porta però molto lontano dall’Europa, visto che studia la parentela genetica fra le lingue estese tra Australia e Nuova Guinea. Risultato notevole, visto che lì mancano testi scritti e le popolazioni sono notevolmente disperse o demograficamente poco consistenti. Dunn dimostra in modo convincente che le strutture profonde, sintattiche, permangono nel tempo e nella dispersione etnica in modo anche indipendente dal vocabolario, che può invece cambiare nel tempo o prendere parole dai vicini. E c’è solo da sperare che con lo stesso metodo si affrontino anche le lingue parlate in Europa, superando anche la tradizionale divisione scolastica fra grammatica e sintassi, cosa che Noam Chomsky aveva già fatto da tempo, a favore di uno studio dei processi mentali e genetici che sottendono la strutturazione gerarchica della sintassi intesa come organizzazione del linguaggio.

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Ebola diventa business peluche e magliette ebola_panty3NOTE:
• (1) Si è analizzato l’albero genealogico genetico ottenibile dal DNA mitrocondriale e da altre regioni di DNA. Usando il software GEODIS, creato dallo stesso Templeton nel 1995, sono state determinate le relazioni genetiche fra le popolazioni basate su specifici aplotipi, o gruppi di geni che vengono ereditati collettivamente. Le conclusioni raggiunte in questo modo sono più solide dei risultati ottenuti da studi che prendevano in considerazione una sola area del DNA.
• (2) http://www.plosbiology.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pbio.1000241

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