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Il Bacio dell’assassino

Siamo nella New York degli anni ‘50: i capolavori noir, gialli o polizieschi rimbalzano dappertutto, gangster e detective in bianco e nero vivono la loro grande stagione. Bogart ancora imperversa con le sue ciniche storie, c’è l’indimenticabile Giungla d’asfalto di John Huston, c’è la grande lezione espressionista di Orson Welles che dai fasti dark e barocchi de La Signora di Shangai giunge alle geometrie desolate de L’Infernale Quinlan, c’è l’irrompere devastante di Marlon Brando in Fronte del porto, c’è la straziante detective story di Kirk Douglas in Pietà per i giusti di William Wyler. Insomma i maestri non mancano e i modelli per un cinema “nero” che, continuamente poi osannato e rievocato nostalgicamente da eleganti critici, visse la sua epoca più ricca e intensa e sicuramente mai più eguagliata. Eppure, quasi sconosciuto allora, nello stesso anno della sua successiva consacrazione con Rapina a mano armata (1955), Stanley Kubrick faticosamente produce e dirige (pochi soldi, nessuna “star”) il suo Bacio dell’assassino, rapido, lancinante, dimesso (soli 64 minuti, quasi un corto) che è la prova generale, l’annuncio, praticamente la sua opera prima di quello che è già il suo stile. Stile sicuro, “tagliato” come un documentario, luci, ombre, prospettive di una città come vista in sogno, vuota e deserta nel lungo inseguimento finale; storia con una sequenza di scene essenziali e crude e pur tuttavia vissute come un delirio, un incubo assurdo. Se ci pensate, la stessa atmosfera del suo ultimo film Eyes wide shut dove il protagonista vive e incontra situazioni cupe, inquietanti, inspiegabili, come appunto un notturno delirio da cui ci si aspetta il risveglio. Espressionismo certamente, la nuda fatalità di Huston, il virtuosismo visionario di Welles, tutto questo ed altro, ma Kubrick è già tutto con la sua realtà dura e concreta,eppure irreale nella sua nitidezza, staccarsi dalla vicenda in sè per proiettarsi nei meandri affascinanti dell’illusione, della fantasia oscura, nel procedere dei flashback come indagine di un esistere più illusorio forse del sogno stesso. Allora forse davvero la vita è sogno? Il Bacio dell’assassino messo sù con pochi mezzi, realizzato con protagonisti destinati a tornare nell’anonimato (Jamie Smith e Irene Kane) è il primo saggio, amaro e antiretorico, di un Kubrick già originale, che conosce la “lettura” di cose, fatti e persone nel senso assoluto del loro esistere, straniate dalla loro storia, nella nudità abbandonata a sé stessa, decodificata da ruoli e apparenze, riaffiorare da una trama notturna, come in un quadro di Edward Hopper.

da La Cineteca Dimenticata
Orizzonti

Sterling, il duro

06 LMB CD Sterling il duroSi parla molto di Kubrick, protagonista più che mai vivo (anche se deceduto) dell’ultimo festival di Venezia col suo “scandaloso” film sull’erotismo di coppia. E quando mai si è smesso di parlare di Kubrick? Quando mai i suoi film non hanno fatto scandalo? Ma non è lui il tema di questa rubrica. Kubrick usò più di una volta (esattamente due) un attore di cui poco si parlava ieri e pochissimo se ne parla oggi: Sterling Hayden. Già il suo nome allo spettatore comune non evoca subito la sua faccia; Hayden non fu mai divo né tanto meno fu rumoroso e fascinoso protagonista dei suoi anni d’oro. I suoi anni migliori furono gli anni ’50, ma anche gli anni più difficili.
Il senatore Mac Carthy con la sua caccia spietata al comunista fu il dramma di molti cineasti d’allora. Sterling, accusato d’essere un “rosso”, messo angosciosamente alle strette (o con noi o contro di noi!) cadde nella trappola del “pentitismo”, come fecero nomi più grossi del suo: si accusò e per ingraziarsi la commissione fece altri nomi di presunti “rossi”. Con questa medaglia di “delatore” sul petto poté continuare a lavorare ma i “puri”, i democratici, non gliela perdonarono mai e Hayden in fondo rimase sempre una figura emarginata. Kubrick lo “pescò” ai suoi esordi, col primo suo vero film: Rapina a mano armata del ’56, e ne fu il protagonista (Kubrick aveva pochi soldi e Hayden costava poco, era ancora in disgrazia).
Magnifico protagonista, scabro, essenziale gangster dalle maniere rudi e dai gesti spicci, con un mezzo sorriso affiorante su un viso coriaceo di contadino del Middle West. Sterling era già reduce dai suoi film migliori: Giungla d’asfalto del ’50 di John Huston, dove aveva perfezionato la sua figura di bracciante del crimine, figura amara e spietata in una storia fatalmente segnata alla rovina; in Johnny Guitar di Nicolas Ray del ‘54, aveva lasciato l’impronta indelebile di cupo pistolero forse nel primo film western “crepuscolare”, personaggio che rimase mitico e irripetibile. Eppure Hayden non fu mai “star”: colpa dei trascorsi politici?
Molti dicono colpa del suo carattere duro, scontroso, perfino sgradevole, come nei suoi film. Era famoso per la sua convinzione che il mestiere dell’attore non fosse cosa degna di un “uomo”, mestiere equivoco che forse faceva per necessità, saltuariamente. Questo carattere ispido e ombroso probabilmente piacque subito a Kubrick, anche lui rimasto celebre per la sua ossessiva misantropia: dopo Rapina a mano armata se ne ricordò nel ’64 per il suo capolavoro Il dottor Stranamore dove Sterling disegnò magnificamente i contorni del misogino generale impazzito che manda i bombardieri atomici sull’Unione Sovietica. E chi potrà dimenticare il legnoso, taciturno contadino Leo, alto e solido come una quercia, nella saga di Bertolucci Novecento del ’76?
Una poetica figura di uomo legato alla terra che sulla terra muore, incredibilmente simile al gangster di Giungla d’asfalto, struggente antieroe che muore in fuga verso il sogno del “ranch” perduto e della sua terra antica. Uomo e terra, la condizione primordiale che forse Sterling giudicava virile e degna di un uomo, piuttosto che le finzioni e i “giochi” del curioso mestiere d’attore.

da La Cineteca Dimenticata 11
Pagina 63
Orizzonti 1999-2000
Novembre-Gennaio