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Marty: Spaghetti e sentimento

Sappiamo tutti, è storia, che il cinema hollywoodiano luccicante di tutti i suoi lustrini e delle sue megaproduzioni, forte e sicuro dei suoi ‘generi” che ne avevano fatto il colosso indiscusso del pianeta (western, giallo, musicale, etc.), subì un vero e proprio scossone emotivo dalla visione, nei primi anni del dopoguerra, dei film “neorealistici” italiani. Gli americani, turbati da una vera e propria crisi di coscienza, scoprirono il respiro nuovo ed eccitante del “cinema-verità”, scoprirono le emozioni tratte non più dai sogni proibiti di eroici melodrammi ma dalle “normali” storie della più o meno squallida quotidianità, dalla vita “ordinaria” di uomini e donne qualunque e dai piccoli drammi comuni che mai si sarebbe sospettato potessero far “spettacolo”.
È nota la vera e propria infatuazione di Ingrid Bergman (diva rinomata dello “star-system”) per quello stile scabro e diretto che veniva dall’Italia postbellica e dai film di Rossellini. Ma non rimase sconvolta solo la bella e brava attrice; molti registi, produttori e sceneggiatori americani subirono questo profondo travaglio scoprendo l’amara poesia della “realtà”.
L’ottimismo e la positività dello spirito americano indussero d’altronde a pensare che questo stile senza fronzoli e belletti fosse lo strumento adatto per far cinema “sociale” e di “denuncia” (come da allora si disse). Da qui fiorì tutta una rigogliosa stagione di produzioni fortemente motivate d’estetica realistica, da un lato robuste di forti intenzioni critiche e umanitarie, dall’altro attente alla poetica intimista e anti-spettacolare. “Marty” di Delbert Mann del 1955 è e rimane l’esempio fondamentale e il tentativo forse più riuscito di quel cinema americano che cercava, entusiasticamente e ingenuamente, di ritrovarsi nelle storie minimaliste di piccoli uomini e piccoli drammi. Marty è un semplice, buon ragazzone italo-americano (il filone folkloristico italico qui abbonda e produce, secondo il regista, utili notazioni realistiche), timido e impacciato, che non riesce ad avere una ragazza. Il bar sotto casa, gli amici del quartiere, il lavoro in macelleria, la “balera”, sono i luoghi deputati di una storia semplice e dimessa senza “denunce” ed eroismi. Quando finalmente Marty incontra quella che sarà forse la donna
giusta, timida introversa e bruttina come lui, tutti faranno a gara per convincerlo del contrario: l’amico del cuore perché si sentirà abbandonato, la madre per inconfessata gelosia nel sentirlo di un’altra donna. Ma Marty alla fine avrà il coraggio di capire qual è la sua vita ad onta di chi lo vuole riportare alla noia e alla solitudine della sua “routine”. Tutto qui. L’operazione intimismo-realtà produce i suoi effetti; si può far spettacolo anche coi “normali” sentimenti e con le facce ordinarie. In questo l’attore Ernest Borgnine fu una rivelazione con il suo faccio-ne brutto e simpatico, la sua figura atticciata e la sua disarmante timidezza. Borgnine fu Marty fino in fondo, fino a non riuscire quasi più a togliersi di dosso quella affettuosa e soffocante maschera.
Dopo l’Oscar preso con “Marty” Borgnine, che in precedenza era stato specialista in parti di duro e violento “cattivo”, faticò parecchi anni a convincersi che poteva far altro che essere soltanto il dolce, timido garzone di macelleria. Il realismo all’americana di Delbert Mann (e soprattutto la sceneggiatura di Paddy Chayefsky) ci regala il teatrino di un “week end” fatto di niente e del quartiere, delle strade, delle facce e della noia di gen¬te che non ha altro da raccontarci che la loro piccola storia. Ma anche questa è poesia.

da ORIZZONTI 2002
Aprile-Luglio
La Cineteca Dimenticata 18

Sterling, il duro

06 LMB CD Sterling il duroSi parla molto di Kubrick, protagonista più che mai vivo (anche se deceduto) dell’ultimo festival di Venezia col suo “scandaloso” film sull’erotismo di coppia. E quando mai si è smesso di parlare di Kubrick? Quando mai i suoi film non hanno fatto scandalo? Ma non è lui il tema di questa rubrica. Kubrick usò più di una volta (esattamente due) un attore di cui poco si parlava ieri e pochissimo se ne parla oggi: Sterling Hayden. Già il suo nome allo spettatore comune non evoca subito la sua faccia; Hayden non fu mai divo né tanto meno fu rumoroso e fascinoso protagonista dei suoi anni d’oro. I suoi anni migliori furono gli anni ’50, ma anche gli anni più difficili.
Il senatore Mac Carthy con la sua caccia spietata al comunista fu il dramma di molti cineasti d’allora. Sterling, accusato d’essere un “rosso”, messo angosciosamente alle strette (o con noi o contro di noi!) cadde nella trappola del “pentitismo”, come fecero nomi più grossi del suo: si accusò e per ingraziarsi la commissione fece altri nomi di presunti “rossi”. Con questa medaglia di “delatore” sul petto poté continuare a lavorare ma i “puri”, i democratici, non gliela perdonarono mai e Hayden in fondo rimase sempre una figura emarginata. Kubrick lo “pescò” ai suoi esordi, col primo suo vero film: Rapina a mano armata del ’56, e ne fu il protagonista (Kubrick aveva pochi soldi e Hayden costava poco, era ancora in disgrazia).
Magnifico protagonista, scabro, essenziale gangster dalle maniere rudi e dai gesti spicci, con un mezzo sorriso affiorante su un viso coriaceo di contadino del Middle West. Sterling era già reduce dai suoi film migliori: Giungla d’asfalto del ’50 di John Huston, dove aveva perfezionato la sua figura di bracciante del crimine, figura amara e spietata in una storia fatalmente segnata alla rovina; in Johnny Guitar di Nicolas Ray del ‘54, aveva lasciato l’impronta indelebile di cupo pistolero forse nel primo film western “crepuscolare”, personaggio che rimase mitico e irripetibile. Eppure Hayden non fu mai “star”: colpa dei trascorsi politici?
Molti dicono colpa del suo carattere duro, scontroso, perfino sgradevole, come nei suoi film. Era famoso per la sua convinzione che il mestiere dell’attore non fosse cosa degna di un “uomo”, mestiere equivoco che forse faceva per necessità, saltuariamente. Questo carattere ispido e ombroso probabilmente piacque subito a Kubrick, anche lui rimasto celebre per la sua ossessiva misantropia: dopo Rapina a mano armata se ne ricordò nel ’64 per il suo capolavoro Il dottor Stranamore dove Sterling disegnò magnificamente i contorni del misogino generale impazzito che manda i bombardieri atomici sull’Unione Sovietica. E chi potrà dimenticare il legnoso, taciturno contadino Leo, alto e solido come una quercia, nella saga di Bertolucci Novecento del ’76?
Una poetica figura di uomo legato alla terra che sulla terra muore, incredibilmente simile al gangster di Giungla d’asfalto, struggente antieroe che muore in fuga verso il sogno del “ranch” perduto e della sua terra antica. Uomo e terra, la condizione primordiale che forse Sterling giudicava virile e degna di un uomo, piuttosto che le finzioni e i “giochi” del curioso mestiere d’attore.

da La Cineteca Dimenticata 11
Pagina 63
Orizzonti 1999-2000
Novembre-Gennaio