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Islamia: Tattiche e metodi di combattimento

Uscito dieci anni fa, questo libro resta forse l’unico studio organico in argomento; non so se i militari italiani lo conoscono, ma comunque farebbero bene a studiarlo. Scritto da un colonnello dei Marines con lunga esperienza operativa dal Vietnam in poi, analizza il modo di combattere della guerriglia islamista, non necessariamente formata solo da terroristi. Può infatti sorprendere la rapidità con cui non solo l’ISIS ha sconfitto l’esercito regolare iracheno, ma ha creato una vera e propria entità statale, il Califfato, che ora si espande a macchia d’olio fra Siria e Iraq e di fatto ricompone gli equilibri geopolitici fissati un secolo fa da Francia e Gran Bretagna dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano. L’autore è un militare di carriera e analizza esclusivamente il campo di sua competenza, per dedurne che la risposta militare data nel corso del tempo dagli eserciti occidentali non tiene conto proprio degli elementi di base del modo di combattere tipico delle società islamiche, il quale è basato essenzialmente sull’azione coordinata di milizie tribali o semitribali fedeli al proprio capo, armate in modo leggero ma capaci di grande mobilità e adatte quindi alla guerriglia. L’addestramento si adatta alla situazione e la tattica pure. In più conta molto la motivazione: per l’Islam la guerra è un valore e da sempre questo tiene alto il morale dei guerrieri. Mobilità, addestramento e motivazione sono quindi i fattori vincenti di queste forze.

Due parole sul metodo seguito dall’autore. Le tattiche e il modo di combattere della guerriglia islamica vengono analizzati con una serie di esempi storici o attuali ma ben documentati, che vanno dal Libano alla Cecenia, dall’Iraq all’Afghanistan. E’ il classico esempio NATO di “case study”: invece di discutere dei massimi sistemi, si prendono in esame fatti reali documentati, si analizzano e poi si discutono insieme. Queste dunque le conclusioni:
• Il combattente islamico ha una forte motivazione legata alla fede religiosa.
• Il legame gerarchico con il proprio capo tribale è molto forte.
• L’addestramento è strutturato in modo poco accademico ma efficace.
• Viene lasciato ampio margine all’iniziativa personale.
• Armi ed equipaggiamento sono di regola leggeri e la logistica semplificata.
• In attacco si dà la massima importanza alla velocità e alla sorpresa.
• Raramente si attacca in campo aperto un nemico superiore per forze.
• E’ normale ritirarsi momentaneamente per riorganizzarsi dietro le linee.
• Anche storicamente si è spesso registrata la migrazione di guerrieri da un fronte all’altro in nome della Jihad. I “foreign fighters” non sono una novità, la vera novità è che usano l’internet, vivono in Europa e prendono l’aereo.
• La risposta tattica può essere solo l’uso della fanteria leggera.
Viceversa, gli eserciti occidentali – ma sarebbe più giusto definirli “strutturati” – hanno nel loro insieme una mancanza di elasticità mentale e addestrativa e un sovraccarico logistico che li rende poco adatti a combattere unità irregolari mobili. La NATO e il Patto di Varsavia si sono confrontati per anni in maniera simmetrica e le rispettive strutture militari erano state organizzate per un certo tipo di guerra e solo quella. Il problema è che un carro armato da 52 tonnellate e un munizionamento buono per demolire un quartiere risultano poco efficaci o addirittura controproducenti in un ambiente di guerriglia dove risiede anche la popolazione civile o dove l’obiettivo è limitato. E se invece che sulla potenza di fuoco ci si vuole basare sulla sorpresa, difficilmente i nostri eserciti passano inosservati. Per non parlare dei costi di una moderna operazione militare, rispetto ai mezzi tutto sommato modesti usati dall’insorgenza. Mandare un aereo a bombardare una jeep con una mitragliera montata sul cassone costa cento volte più dell’obiettivo distrutto e facilmente rimpiazzabile E infatti l’autore insiste sulla necessità di una fanteria leggera.

Il problema è capire cosa s’intende per fanteria leggera. La US Army sostanzialmente non ne ha. La stessa 7th Light Infantry Division è tale per gli Americani, ma non lo sarebbe per noi italiani. Non ha carri pesanti, ma la sua motorizzazione è ben al di sopra dei nostri standard e la logistica è complessa. Ma non si può considerare fanteria leggera nemmeno l’insieme dei corpi speciali dei vari eserciti: gli incursori possono fare rapidi colpi di mano, ma non sono in grado di tenere il terreno. In più, sono costretti a portare a spalla anche trenta chili di equipaggiamento, il che contraddice lo stesso concetto di leggerezza. Né la fanteria può essere composta solo dagli elementi migliori sottratti ai reparti, col risultato di indebolirne la capacità tattica. Quello che penalizza gli eserciti occidentali in realtà è la loro struttura complessa, organizzata per un conflitto convenzionale e simmetrico. Sui monti dell’Afghanistan i carri armati servono a poco e nei centri abitati è facile uccidere i civili innocenti. D’altro canto, un fucile pensato per sviluppare un alto volume di fuoco sulle brevi distanze (come l’M16 americano) in Afghanistan risulta inferiore a un vecchio Kalashnikov, di calibro superiore e quindi adatto a impegnare il combattimento da un chilometro. In più, a trattare con i civili i nostri Carabinieri sicuramente se la cavano meglio dei Marines. Come si vede, il conflitto asimmetrico richiede una buona capacità di adattamento, diversamente dalla routine dell’addestramento di caserma. Questo è evidente p.es. in un video di Al-Jazeera girato a fine 2014 da un operatore “embedded” tra i guerrieri che assediano Kobane: si vede benissimo come essi siano capaci di abbandonare una posizione dopo il contrattacco curdo, salvo riorganizzarsi mezz’ora dopo. Da notare però che proprio a Kobane i peshmerga curdi stanno realmente tenendo testa ai guerrieri dell’ISIS perché li ricambiano con la stessa moneta, il che dovrebbe dare un’indicazione precisa per il futuro: le milizie tribali vanno combattute da formazioni a loro simili e noi occidentali dovremmo limitarci a fornir loro il contributo della tecnologia, ovvero quelle funzioni di supporto elettronico, sanitario, di fuoco e di comunicazioni che loro non hanno, senza mandare sul terreno fanterie inadatte a quel tipo di guerra. Un’intuizione del genere la ebbe il gen. Petraeus in Iraq quando affidò il controllo del territorio alle milizie tribali sunnite invece che allo scoordinato esercito iracheno.

Infine, un aspetto che sfugge invece totalmente all’autore ma non al lettore italiano è l’affinità tra la guerriglia islamista e la mafia. Per carità, non fraintendete: le motivazioni sono ovviamente diverse, ma abbiamo una struttura piramidale e spesso segreta, più quell’insieme di connivenza, onore, affiliazione familiare, maschilismo e uso della violenza e dell’intimidazione per convincere gli indecisi e creare così una zona di sicurezza interna che rafforza il controllo del territorio. Questo non significa che la guerriglia islamica sia formata da delinquenti, ma solo che strutture e modalità di azione possono essere simili a quelle mafiose e per questo difficili da combattere. Ma purtroppo l’autore, un militare di carriera, poco ne capisce di politica. Il problema è che l’insorgenza si combatte solo con l’appoggio della popolazione locale, per cui bisogna anche essere capaci di capire un’ideologia.

 

00 Lbri Tactics of the Crescent Moon cover

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TACTICS OF THE CRESCENT MOON:
Militant Muslim combat methods
by H. John Poole
Publisher: Posterity Press (NC)
Date published: 2005
Price: $14.95

ISBN-13: 9780963869579 ISBN: 0963869574

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L’apparenza inganna

Nel 2010, mentre imperversano le manifestazioni studentesche a Lahore, un giovane pachistano, il professor Changez Khan (Riz Ahmed) viene intervistato dal giornalista americano Bobby Lincoln (Liev Schreiber). Changez, che ha studiato a Princeton, racconta a Lincoln il suo passato di brillante analista finanziario a Wall Street. Parla del luminoso futuro che aveva davanti, del suo mentore, Jim Cross (Kiefer Sutherland), e della bellissima, sofisticata Erica (Kate Hudson), con la quale si preparava a condividere il futuro.

All’indomani dell’11 settembre, il senso di alienazione e il sospetto con il quale viene improvvisamente trattato, lo riporta nella sua terra di origine e dalla sua famiglia, alla quale è molto affezionato. Il suo carisma e la sua intelligenza lo fanno subito diventare un leader sia agli occhi degli studenti pachistani che lo adorano sia del governo americano che lo guarda con sospetto.

La facciata del cordiale incontro tra Lincoln e Changez, in una sala da tè di Lahore, lascia lentamente spazio alla vera ragione per cui questa improbabile coppia si è incontrata in un giorno di estate – un professore straniero è stato rapito dagli estremisti e la sua esecuzione è una questione di ore. La famiglia di Changez è perseguitata e corre un reale pericolo. Bobby ascolta con attenzione, ma ha qualcosa in mente. In un viaggio attraverso i mondi culturalmente ricchi e seducenti di New York, Lahore e Istanbul, The Reluctant Fundamentalist esplora i pregiudizi e il fenomeno della globalizzazione nei suoi aspetti, allo stesso tempo, brillanti e inquietanti.

 

Una regista indiana che realizza un film su un uomo pachistano dall’omonimo romanzo (Ed. Einaudi) di Mohsin Hamid.

 

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Cinema Il fondamentalista riluttante locandinaIl fondamentalista riluttante

Regia di Mira Nair

Con Riz Ahmed, Kate Hudson, Liev Schreiber, Kiefer Sutherland, Om Puri, Shabana Azmi, Martin Donovan, Meesha Shafi, Haluk Bilginer, Nelsan Ellis, Victor Slezak, Mark Oliver, Clayton Landey, Adil Hussain, Christopher Nicholas Smith

Genere Thriller

produzione USA, Gran Bretagna, Qatar, 2012

Durata 130 minuti circa

 

Tratto dal romanzo “The Reluctant Fondamentalist”di Mohsin Hamid

(edito in Italia da Einaudi)

 

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