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Omero e Cavalli di Troia

Il cavallo di Troia lo conosciamo tutti, anche senza aver letto l’Iliade: il termine è diventato sinonimo di mezzo subdolo per penetrare le nostre difese. Trojan sono definiti anche i malware intrusivi dei nostri computer. Ebbene, ora un giovane archeologo italiano suggerisce una diversa interpretazione dell’Iliade: non si trattava di un cavallo “equestre”, ma di una nave del tipo chiamata “hippos”. Gli Achei non avrebbero dunque costruito sulla spiaggia un enorme quadrupede come ex-voto, ma vi avrebbero lasciato una piccola nave tirata a secco. Ad avere l’intuizione non è stato un archeologo dilettante, ma un professionista: Francesco Tiboni è un ricercatore all’università di Aix-en-Provence, si occupa di archeologia subacquea ed è noto per i suoi studi sulla nautica antica.

Devo riconoscere che gli argomenti di Tiboni non fanno una piega: a parte il surrealismo dell’enorme cavallo di legno, navi veloci chiamate hippoi sono documentate dai bassorilievi fenici in poi; Omero stesso parla di “cavalli che solcano il mare”, più o meno come le “drakkar” vichinghe con la polena a testa di drago o le “saette”, le navi siciliane che portavano il grano a Genova sfruttando il vento di maestrale. Spiaggiare una nave tirata a secco con l’aiuto di scivoli, rulli e buoi era poi una pratica normale e io l’ho vista ancora usata dai pescatori atlantici in un vecchio film portoghese (1). Una nave può nascondere comodamente i guerrieri che di notte faranno il colpo di mano; sicuramente staranno più comodi che dentro la pancia di un cavallo di legno. E soprattutto, gli Achei di navi ne avevano 1086, come risulta dal catalogo delle navi (libro secondo dell’Iliade). Questa parte dell’Iliade è noiosissima da studiare, ma interessante per altri versi: è l’ordine di battaglia degli Achei, dove per ogni squadra vengono indicate la regione di provenienza, il numero delle navi e i comandanti. Erano navi relativamente piccole – siamo nell’età del bronzo – ma funzionali e adatte a solcare il Mediterraneo.

Mi si permetta ora una riflessione filologica: pur ammettendo che ai tempi di Virgilio si era persa la memoria delle navi con la polena equestre, com’è stato possibile prendere una tale cantonata traducendo dal greco? Ho frequentato il liceo classico e ricordo benissimo i nostri sfondoni. Uno per tutti: in una versione traducemmo “navi” invece che “giovani” (equivoco basato sulla differenza tra vocale lunga e vocale breve), col risultato che il comandante greco aggirò il nemico conducendo di notte “le navi” oltre la montagna, un po’ come Spencer Tracy ne I rangers del capitano Rogers, quel vecchio film dove gli incursori americani si tirano dietro grosse scialuppe di legno invece di comprare le canoe dagli indiani. Mi resta ancora nelle orecchie la voce della prof: “e ricordate sempre che i Greci e i Romani non erano stupidi come voi”. Ma almeno noi eravamo studenti di liceo! Qui stiamo invece parlando di generazioni di grecisti e latinisti che si sono avvicendati per duemila anni. Eppure, solo nel XVII secolo qualcuno ebbe un dubbio, ma fu zittito per mancanza dei riscontri archeologici oggi disponibili. Questo porta a una riflessione successiva: come si formano gli errori e come si propagano invece di essere corretti per tempo? Se ci pensate, è un procedimento simile alla diffusione delle fake news, dove nessuno verifica la notizia di partenza, che presto si diffonde e si amplifica, senza che i professionisti dell’informazione mettano ordine nel caos. Si possono anzi applicare proprio concetti legati alla teoria del caos (2), laddove sistemi fisici esibiscono una sensibilità esponenziale rispetto alle condizioni iniziali.

NOTE