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I Conflitti dopo l’11 settembre

Nei conflitti che si sono susseguiti si è avuta una deriva che non comporta l’uso di fare prigionieri e le vittime collaterali non sono un’eccezione, ma una consuetudine dovuta alla fretta o come sadico monito.

Una vittima collaterale di un drone statunitense è stato Giovanni Lo Porto ucciso, agli inizi del 2015, in un raid in una zona tra Pakistan e Afghanistan.

Conflitti più che guerre, senza un campo di battaglia circoscritto, dove il nemico può essere di fronte come alle spalle o ai fianchi.

Una sfida fatta più come un’esibizione muscolare, dove da una parte c’è chi arriva uccide e si dilegua e l’altra evita il contatto fisico con le vittime grazie alle nuove tecnologie da videogame.

Sembra di assistere da una parte alla guerra dei cent’anni con spadoni e saccheggi fronteggiare dall’altra gli effetti speciali alla George Lucas di Guerre Stellari.

Duellanti anonimi che operano nell’anonimato, tra la popolazione civile, senza farsi riconoscere, per una guerra innominabbile che ha fatto, dall’11 settembre 2001, un milione e 300mila le vittime, dati raccolti dall’International Physician for the Prevention of Nuclear War, Nobel per la pace nel 1985, che vengono ritenute per difetto, non conteggiando i conflitti più recenti di Libia, Siria e l’ultima a Gaza.

Guerre al terrore o umanitarie, all’Occidente e ai crociati, ma in sostanza il tutto si riduce per l’Occidente a un continuo rincorrere le visionarie follie di emiri e calliffati islamici: una vendetta continua con vittime collaterali di piloti virtuali che operano dall’altra parte del Mondo, mentre per i fanatici senza divisa, impegnati ad insinuare il terrore tra la popolazione, è una prassi mietere vittime senza distinzione.

Se da una parte il loro colpire è casuale, finalizzato a fare più morti possibili, senza alcuna “attenzione”, dall’altra si scegono bersagli da colpire con droni o bombe “intelligenti”.

Due epoche allo scontro, per due differenti visioni della società, per scoprire che la Religione non è più l’oppio dei popoli, ma l’adrenalina per un conflitto permanente.

In tutto questo chissà se Kant, criticando la ragione per far posto al trascendentale, avrebbe sospeso il sapere per far posto alla fede?

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Armeni: Prove di sterminio moderno

Per gli Armeni il 1915 è stato solo l’apice di una persecuzione iniziata sommessamente già alla fine dell’800, con l’emarginazione perpetrata dal sultano ‘Abd ul-Hamid per trovare un capro espiatorio per l’incapacità del governo di portare avanti una politica economica efficace e reagire alla disgregazione dell’Impero.

Un disfacimento, quello dell’Impero ottomano, che venne agevolato dai cambiamenti nell’area balcanica e dalla pressione delle nazioni occidentali.

Ogni potenza occidentale voleva un pezzetto dell’impero ottomano e così tra il 1911 al 1913 il sultano comincia a perdere la Libia, Albania, Macedonia e poi le numerose isole dell’Egeo.

Così in una Turchia che dava l’addio all’impero ottomano e con un’Europa sempre più presente nel Mediterraneo, un colpo di stato dei cosiddetti Giovani Turchi, d’impronta fortemente nazionalista e laica, voleva riscattare l’onore che la decadenza di una monarchia dedita ai sollazzi più che al governare, aveva perduto, trascinato il regno nel caos.

Un colpo di stato che cercava l’adesione anche nelle aree rurali e dei musulmani da ottenere con l’identificazione di un nemico e chi meglio della comunità armena, cristiana e dedita al commercio, per catalizzare la rabbia del popolo e fare il gioco nazionalista della futura classe dirigente.

L’establishment ottomano ideò l’annientamento armeno nell’Hotel Baron, nella città siriana di Aleppo, dove il proprietario di allora aveva recuperato da Naim Bey, responsabile del campo di deportazione di Meskene, gli ordini originali per lo sterminio. Documenti che vennero usati nel processo contro i responsabili del genocidio.

Un hotel, ora sulla linea di fuoco tra governativi siriani e insorti, amato da Lawrence D’Arabia e Agatha Christie, dove scrisse Assassinio sull’Orient Express, frequentato da Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, e dal re Faisal I di Iraq e Siria., ma anche dal maresciallo Montgomery, De Gaulle, Nasser, Ceausescu e Tito, oltre che da Pierpaolo Pasolini e il miliardario David Rockfeller.

Anche se non si vuol chiamare genocidio, è sicuramente stato un massacro quello operato dai turchi, fiancheggiati dai militari tedeschi, perpetrato nei confronti della comunità armena in Turchia.

Intere famiglie furono costrette a lasciare le loro case e i loro averi, obbligate a marciare nel deserto, private di cibo e acqua. Un massacro ispirato dal partito dei giovani turchi ed eseguita, con la supervisione degli ufficiali tedeschi, dall’esercito turco.

Una sorta di crudele selezione naturale in un esodo forzato che ha portato alla morte per sfinimento più che un’uccisione diretta di cui la Turchia continua a negare ogni responsabilità, minacciando ogni persona o nazione che usa il termine genocidio per descrivere comunque la volontà di un gruppo di persone nel voler annientare una comunità ritenuta non organica alla società che volevano creare.

Un atto di violenza che continua a essere negato come genocidio dai governanti turchi che in questi ultimi cent’anni si sono susseguiti, più per evitare richieste di indennizzo che per un rigurgito di orgoglio nazionalistico.

Le condoglianze offerte da Recep Tayyip Erdoğan, già nel 2014 come premier e ora come presidente turco, per il massacro degli armeni come un dramma che accomuna tutta la Turchia, da parte dell’impero Ottomano, è la dimostrazione di voler scindere le due identità: le atrocità di un sultano non possono essere addebitate ad una repubblica nata con l’Assemblea Nazionale nel 1922.

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Islamia: Mentre si distrugge la storia

Mentre il saccheggio e la distruzione nella culla della civiltà assiro-babilonese continua nelle zone sotto il controllo dei fanatici dell’Islamia, per la gioia dei trafficanti e dei collezionisti poco onesti di reperti archeologici, a Bagdad riapre il Museo nazionale iracheno.

Un Museo che ha atteso dodici anni per riaprire, dopo un notevole sforzo di ricostruzione e nel recupero di quasi un terzo dei 15mila reperti rubati nel 2003, se non con la indulgenza, sicuramente con l’indifferenza delle truppe statunitensi che, pur avevano occupato Baghdad, non hanno ritenuto strategico proteggere il patrimonio del nono museo del Mondo.

Una razzia che ha alimentato il mercato clandestino dalla Giordania agli Usa, dalla Svizzera al Giappone, sino all’utilizzo spregiudicato di eBay, che l’Fbi ha cercato di porre rimedio.

Ora questi preziosi manufatti di vetro, terracotta, metallo e avorio, oltre a pergamene e pietre, tornano ad essere esposti per testimoniare 7 mila anni di storia dell’umanità.

Una ricostruzione iniziata già nel 2005 con il protocollo d’intesa tra il Ministero degli Affari Esteri e il Consiglio Nazionale delle Ricerche, per la realizzazione del Museo Virtuale, e che non aveva alcuna ambizione di sostituire quello fisico di Baghdad, ma un’occasione per ricomporre una collezione ideale, con una selezione delle opere più significative del territorio iracheno e anche con manufatti custoditi nei musei di tutto il mondo.

Il Museo di Baghdad non è stato l’unica vittima di saccheggio, altre vittime sono seguite: in Siria come in Libia o in Egitto, alimentando un mercato grazie anche alla guerra iconoclasta del califfo, per tornaconto non solo dei mercanti senza scrupoli ma anche per finanziare il suo fittizio Stato islamico.

I Talebani con i Buddha, il saccheggio del museo di Baghdad sotto “occupazione” statunitense, Boko Haran che avversa e inveisce contro la cultura occidentale, il rogo della biblioteca di Timbuctu sono solo alcuni episodi per sradicare la memoria o solo per eliminare degli elementi di confronto tra culture.

Nella Germania nazista si metteva al bando l’arte “degenerata” delle avanguardie, per poi trafugarne le opere per la delizia dei gerarchi. I libri, ancor più pericolosi dell’arte delle immagini, sono sempre stati la vittima prediletta degli autoproclamati guardiani della moralità, siano governi o cittadini in consigli scolastici.

Uno sfogo su FaceBook grida: “Continuano questi imbecilli, violenti, maschilisti ed estremisti maomettani a distruggere il passato dell’umanità e della storia dell’arte – E’ toccato all’Assira Nimrud del 1000 a.c le ruspe radono al suolo le nostre radici. Sappiamo che è una provocazione ma fino a quando è tollerabile?”

Opere d’arte trafugate, magari dopo essere state distrutte “pubblicamente”, aree archeologiche rase al suolo – bulldozing – per magari aprire ad una futura speculazione edilizia, conquistare complessi petroliferi e di raffinazione, per vendere clandestinamente gli idrocarburi, sono alcune delle fonti di finanziamento per i gruppi terroristici.

Ogni prodotto non conforme alla personale idea di religione viene bandita e distrutta, ma anche sradicata dal luogo per essere venduta. Questa non è una guerra di culture, ma alla cultura globale.

Custodi della moralità che si alleano a produttori e trafficanti di droga per finanziarsi e colpire l’Occidente corrotto, ma anche per non farsi mancare nessuna comodità, neppure la Nutella, di cui tutto si può scrivere e dire, ma di certo non si può ritenere un prodotto della cultura islamica.

Terroristi ben lontani dalla vita “ascetica” di un Osama bin Laden, ma ben vicini all’adagio: Predicare bene e razzolare male.

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Islamia: Conflitti e Sconfitti

Il Dio dai molti nomi è capace di difendersi da solo da possibili offese e saper parlare al cuore di chi è disposto ad ascoltarlo.

Lasciamo al Dio giudicare gli insolenti che non rispettano la sacralità delle religioni, senza porlo allo stesso piano delle manchevolezze di politici e delle nostre umane debolezze.

I sacrifici umani non sono più di moda per quietare le ire della natura e l’inquisizione dovrebbe essere relegata alla narrativa.

È fuori da ogni possibile dialogo o contraddittorio la barbarie che si manifesta nel togliere la vita ad ogni qualsivoglia essere vivente, ma oltretutto la scelta di dare la morte diventa anche sfoggio di disumana crudeltà.

Atrocità espressa con un rogo, invenzione di truculenti film sui serial killer, è topica della decadenza dei costumi nell’Occidente che un certo Islam rifugge. Il problema potrebbe essere facilmente risolvibile con una sana separazione delle culture.
È una soluzione che può andare bene anche a quegli intolleranti di Pegida e a tutti gli oppositori del multiculturalismo.

Avversari di ogni confronto con gli Altri, probabilmente per una forma tumorale di sindrome d’inadeguatezza, si fanno fanatici dello scontro.

Un certo Occidente teme l’islamizzazione, come una parte dell’Islam rifiuta ogni contaminazione occidentale.

Ma non vi è alcuna necessità di confronto, ignoratevi, alzate dei muri per vivere in recinti e magiare i vostri cibi, che ognuno festeggi le proprie credenze e eventi.

Essere permalosi e precludersi ogni occasione di confronto non rende le persone felici, anzi ci si incancrenisce in un isolamento fondamentalista.

Anche la migliore delle persone ha sofferto almeno in un’occasione della sua vita una accentuata carenza di pazienza verso il vicino, rivolgendosi a lui con modi bruschi, esprimendo tutta l’intolleranza che un fastidioso mal di testa può far esplodere.

È in quelle occasioni che l’individuo dovrebbe riflettere quanto lui potrebbe migliorare nell’apprendere dal suo vicino.

Non può essere una colpa prediligere un cibo piuttosto che un altro o se la sua storia personale è differente dall’altra.

Conflitti che coinvolgono i fedeli di tre religioni monoteiste che paradossalmente hanno radici comuni in Abramo, ma con ritualità diverse. Una vera guerra del potere che nel mondo mussulmano non si esprime solo tra sunniti e sciti, tra arabi e persiani, ma soprattutto all’interno degli stessi sunniti. È sconfortante il livello di litigiosità dell’umanità nell’impegnarsi così tanto nel trovare le differenze e rimanere invece indifferenti su ciò che ci accomuna.

Il Mondo arabo, in fermento da anni, è in cerca di una democrazia che superi i governi autoritari teocratici, con la loro ispirazione oscurantista, e quelli laici protesi verso una modernizzazione sociale, ma lontani dall’idea di libertà d’opinione e d’espressione.

Un Islam dalle mille sfumature, con una maggioranza che non si riconosce nel fanatismo e lancia la campagna #NotInMyName (Non in nome mio) o i come nelle testimonianze dei 15 attivisti musulmani, tra blogger-giornalisti e artisti, che sfidano il settarismo.

Il vero nemico della convivenza è rappresentata dall’inadeguadezza di quelle bellicose minoranze che vogliono convertire le maggioranze con ogni mezzo e questo Samuel P. Huntington, nel suo saggio pubblicato su Foreign Affairs nel 1993, ben lontano dall’11 settembre 2001, The Clash of Civilizations?, approfondito successivamente nel libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, non lo aveva previsto, anche perché erano ancora lontane le manifestazioni per la democrazia nel mondo mussulmano.

Un Mondo mussulmano facilmente messo sotto accusa, dopo l’11 settembre, per ogni strage, come quella dei 77 norvegesi uccisi da un xenofobo autoctono. Un’islamofobia analizzata da Martha C. Nussbaum nel libro La Nuova intolleranza, del 2012, e superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera.

Prima erano le ideologie sociali a mobilitare i popoli, ma dopo la Guerra Fredda sono l’identità culturale, soprattutto la religione, ad alimentare i conflitti. Ma la distinzione non è così semplice. Anche all’interno di aree identitarie esistono dei distinguo tra gli uni – gli individui – propensi a capire, dagli altri – la massa – reclusi in dogmi o ancorati ad una visione arcaica della società per dare la caccia ai blasfemi che siano protesi verso un “modernismo”.

Distinzioni rituali che dilania tanto l’Occidente quanto l’Islam, senza escludere le altre realtà culturali di questo Pianeta, estremizzando il conflitto non tra civiltà, ma anche tra chi impone la separazione tra Potere e Sudditi. Il vero conflitto è tra chi si elegge a casta atta a manipolare un’identità religiosa o culturale per avere una schiera di seguaci e chi non vuole dare nulla per scontato, in cerca della conoscenza e della tolleranza, per capire ciò che ci circonda, scambiandosi le esperienze per progredire.

Un futuro auspicabile non dovrebbe contemplare sacrifici ad una Fede impersonata in un Dio o nello spietato profitto personale, ma un’equità nella condivisione ed avere una posizione relativista sulla quotidiana convivenza.

Ma per ora ci si continua a scannare per l’interpretazione di uno scritto o per un lembo di terra da strappare a quelle comunità che vi abitano da decenni se non da secoli, per alimentare conflitti che infliggono sconfitte anche a chi pensa di essere il vincitore.

 

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Parigi Non ha paura

I tre giorni di terrorismo perpetrati a Parigi hanno rivelato all’Europa cosa è la Francia: una Nazione che non si piega al terrore e sono gli oltre due milioni di persone di ogni età, religione e nazione che scendendo in piazza ne hanno dato dimostrazione.

La Francia non si è chiusa a riccio, ma ha gridato di non aver paura, una partecipazione quella dell’11 gennaio che non si è riscontrata all’indomani degli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid o di quelli del 7 luglio 2005 a Londra, ma neanche in occasione dei quattro assassinati alla scuola ebraica di Tolosa nel marzo 2012 e gli altrettanti al museo Ebraico di Bruxelles nel 26 maggio 2014.

Quelli madrileni e londinesi sono stati degli attentati ben più cruenti per il numero dei morti e per aver portato il terrore nella quotidianità di ogni abitante che era in quei giorni sui trasporti pubblici.

Attentati in mezzo agli abitanti intenti a vivere le consuetudini di una città, come da anni avvengono quotidianamente nei mercati o davanti alle scuole in Iraq o Pakistan, in Nigeria o in Libia, mentre a Parigi a essere colpita è stata la libertà d’espressione nel suo contesto informativo, ma anche religioso. Due comunità ben definite, quella del magazine satirico Charlie Hebdo e quella ebraica che ha risvegliato nei francesi gli echi non assopiti dell’occupazione nazista.

Anche i francesi che non condividono l’irriverente sarcasmo dei vignettisti di Charlie Hebdo o non sono religiosi, ma sono figli di quell’Illuminismo, hanno portato in piazza con lo slogan “Je suis Charlie” e nel parlamento gli onorevoli di ogni schieramento hanno cantato l’inno francese.

È bello pensare che Voltaire abbia affermato: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire».

Uno spirito illuminista così ben radicato, capace di coniugare un individualismo anarchico pur con il senso collettivo dello Stato, che non permette a nessuno di imporre un’univoca visione del Mondo.

Una partecipazione di massa “guidata” per una ventina di minuti da leader europei e internazionali che non sempre, nel miglior dei casi, hanno brillato come difensori della libertà d’espressione e vivono tutt’ora un’insofferenza cronica verso le critiche espresse in parole e immagini.

Ogni Potere soffre della libertà d’opinione, guardandola con circospezione, desiderando un’omologazione del pensiero per non andare incontro a fastidiose critiche e faticosi confronti, ma quando al Potere subentra la dogmatica certezza di una schiera di persone in cerca d’una sicurezza esistenziale, ogni possibile canale di dialogo è precluso e la convivenza diventa un miraggio, l’unica soluzione appare la separazione, l’innalzamento di un muro, se una delle parti non sceglie lo scontro, sperando che nella mente delle persone si possa fare spazio al dubbio.

Proprio il dubbio è il nocciolo che apre la strada alla comprensione dell’altrui pensiero, è ciò che permette l’evoluzione dell’umanità, raggiungibile anche attraverso le provocazioni tracciate con i segni e le parole della satira irriverente di un magazine come Charlie Hebdo.

L’irriverenza satirica non dovrebbe offendere la sensibilità altrui, perché la libertà d’espressione non può trovarsi in rotta di collisione con le altrui libertà, anche se l’altro ha sempre la possibilità di girare lo sguardo altrove, e fomentare proteste nei paesi musulmani al grido di “Je suis Muslim”.

Sarcastico verso ogni Potere e ogni nostra quotidianità, Charlie Hebdo mette in discussione non solo le certezze dettate dai leader, ma anche quelle che cerchiamo individualmente per sentirci parte di un gruppo che può trasformarsi in gregge.

Un magazine quello di Charlie Hebdo, pur colpito dall’intolleranza, continuerà a scardinare le certezze con altri vignettisti dissacratori della quotidianità, grazie anche a un milione di euro raccolto con le donazioni di 14.000 persone in tutto il mondo e sul cui settimanale in molti hanno cercato di fare soldi all’indomani dalla strage.

L’Istituto francese per la proprietà intellettuale (Inpi, analogo alla nostra Siae) ha ricevuto oltre 50 richieste per registrare il logo “Je suis Charlie” e sono molte le persone che si sono ingegnate a lucrare su un evento drammatico con t-shirt commissionate da enti e organizzazioni, ma anche con adesivi e spille in vendita su bancarelle siti web.

Je Suis Charlie Vigil