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Islamia: Un Buco Nero che non si è ancora richiuso

Improvvisamente, alla fine del giugno 2014, Al-Baghdadi si incorona califfo ed annuncia la creazione dello Stato islamico, così l’Occidente si accorge che a cavallo della frontiera iracheno-siriana è comparso un buco nero.

Un buco nero che in tre anni ha sconvolto la vita di centinaia di migliaia di persone, intere famiglie distrutte, testimonianze di antiche culture ridotte in polvere, una generazione di minori traumatizzata.

Ora quel buco nero si sta per richiudere, ma la sutura sembra che non stia riuscendo, i vari affiliati si stanno disperdendo come un virus che non si è arrivati a circoscrivere. Si riconquistano i territori del fantasioso IS come Mosul, ma rimangono altri villaggi e città che continuano ad essere occupati con  popolazioni tenute in ostaggio.

Il premier iracheno Haider al-Abadi si congratula con le forze irachene, cantando vittoria sui terroristi “nemici di tutti i popoli civilizzati”, ma a Mosul sono presenti ancora alcune sacche di resistenza e ci sono 3mila civili, in gran parte bambini separati dai genitori, bloccati dai Foreign Fighters, da quei combattenti stranieri che non si sono potuti mescolare tra la popolazione per sfuggire alla cattura, facilmente riconoscibili per i caratteri somatici differenti ed ora votati alla morte.

Per evitare la nascita di una versione 2.0 del gruppo jihadista dell’Isis/Daesh, come suggerisce il generale statunitense Stephen Townsend nell’intervista rilascia alla BCC, il governo di Bagdad dovrà procedere ad una riappacificazione nazionale, dimostrando con la sua opera di voler rappresentare non solo la maggioranza sciita del paese, ma anche la minoranza sunnita.

Non si può cantare vittoria per una città liberata con le macerie e diventata una trappola esplosiva non solo per le bombe nascoste, ma anche bersaglio per gli attacchi con lancio di razzi, come viene evidenziato nel rapporto del CTC di West Point (Combating Terrorism Center at West Point).

Altri territori rimangono sotto il controllo dell’IS in Iraq: Hawija, a 130 km a sud-est da Mosul intorno a Tal Afar, a 65 km ad ovest ed a 250 km a sud-ovest, da Ana a Al-Qaim, nella valle del fiume Eufrate.

Mentre in Siria, sempre lungo l’Eufrate, una serie di città rimangono, oltre la roccaforte di Raqqa, dominio del fanatismo.

L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni dell’ONU (UN’s International Organisation for Migration) ha stimato che più di un milione di persone sfollate da Mosul est e ovest e più di 800.000 persone vivevano nei campi.

Una liberazione quella di Mosul, come di Aleppo prima, che ha rimaneggiato struttura urbana, lasciando ben pochi edifici ancora spettralmente in piedi, ben poco rimane riconoscibile tanto da poter essere ancora un punto di riferimento per non scambiare la città con un’altra.

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Curdi: Il difensore di ben altre frontiere

Nella guerra civile spagnola del ’36 e durante la Resistenza migliaia di giovani sono partiti come volontari per combattere armi alla mano il Fascismo e il Nazismo, ma oggi un giovane che rischiasse la propria vita per fare lo stesso sarebbe considerato uno spostato, un instabile mentale o nel migliore dei casi un disadattato sociale. Purtroppo la prima impressione è quella che conta, e Karim Franceschi – che pur ammiro – non riesce a convincermi: le sue purissime motivazioni ideologiche di figlio tardivo di un partigiano toscano classe 1927 sposato con una donna marocchina e amante della democrazia contro ogni fascismo sono qualcosa di anacronistico. Sia chiaro: ho il massimo rispetto di chi rischia di persona la propria vita invece di fare inutili cortei o firmare inutili petizioni, ma la sua esperienza resta ancora un caso isolato, visto che a fare la guerra noi ci mandiamo gli altri, e visto pure che i giovani non riescono ancora a odiare i tagliagole dell’ISIS più di quanto non sappiano fare con romanisti e laziali.

In realtà Karim, classe 1989, non ha mai fatto il militare e neanche si è iscritto a un poligono: tutto quello che sa sulle armi lo ha imparato sull’Internet. E’ sportivo, attivo nel sociale e in contatto con gruppi politici che aiutano i profughi e la resistenza dei curdi, di cui esalta il progetto politico democratico, egualitario e federalista. Vede nell’ISIS (che lui chiama IS o Daesh) una forza politica contraria alla pace, alla democrazia e alla tolleranza, e fin qui nessuno gli darebbe torto. Ma da qui a partire volontario per combattere in prima linea a Kobane assediata ce ne corre, e Karim lo fa. Non sa il curdo ma parla inglese e arabo (è nato e vissuto a Marrakech prima di tornare con la famiglia a Senigallia) e in fondo è una personalità borderline: troppo italiano in Marocco, troppo marocchino in Italia, ma difensore di ben altre frontiere. Varcare quella fra Turchia e Siria è facile, si direbbe che è fin troppo porosa, mentre quella vera passa per Kobane assediata, città fin troppo vicina al confine turco ma difesa dai soli curdi, visto che al governo turco fa comodo che qualcuno elimini sia i curdi che il governo siriano. Ma i guerrieri di Al Baghdadi a Kobane hanno trovato pane per i loro denti. A suo tempo ho descritto in un mio articolo il modo di fare la guerra degli arabi: tattica fluida gestita da piccoli gruppi ben addestrati, mobili e determinati, organizzati sulla base di rapporti personali. Ma è esattamente quello che fanno anche i curdi nei cui ranghi si arruola il nostro eroe. Al fuoco di copertura ci pensano gli aerei e i droni americani, mentre i collegamenti sono assicurati da radio, telefoni cellulari e staffette. L’organizzazione dell’Ypg (la milizia curda) è informale ma efficiente: le squadre dipendono da un capo e sono coordinate a livello superiore da un ufficiale esperto, ma è normale il passaggio di combattenti da un gruppo all’altro secondo le esigenze del momento. Le donne combattono da sempre come gli uomini e sono rispettate da tutti. Gli arabi le temono, anche perché essere uccisi in combattimento da una donna significa perdere il “bonus” delle vergini a disposizione in paradiso. L’armamento è buono – comprende anche visori notturni per i fucili – ma non ci sono mezzi pesanti, mentre Daesh ha pure cannoni e carri armati di fabbricazione russa. E la situazione a Kobane è disperata, tant’è vero che Karim viene addestrato in una settimana (!) e mandato in prima linea. I volontari stranieri non tengono famiglia, quindi sono i più esposti da entrambe le parti. Fatto sta che Karim se la cava sia nelle guardie che nel combattimento, anche se un fucile vero l’ha visto solo pochi giorni prima. Sente freddo, ha fame e dorme poco come tutti i soldati, ma dimostra di saper combattere e di essere disciplinato. Vede cadaveri ovunque, spesso mutilati dagli arabi (lo facevano anche i marocchini sul fronte italiano, ndr.). Ha comunque fortuna, perché alla fine tutto quello che ha visto può raccontarlo.

Già, ma come si combatte a Kobane? Il libro ci fornisce informazioni precise: nella città distrutta la linea di demarcazione fra le fazioni è labile e tra le macerie si combatte benissimo: il panorama è un continuo di cecchini in agguato, punti di osservazione, pattuglie di esploratori, guardie fisse. Di giorno e di notte vanno prevenute le infiltrazioni, mentre un attacco nemico (numericamente superiore) va contrastato immediatamente. E qui, dove non arrivano le bombe americane, è un frenetico spostamento da una zona all’altra, dove squadre coordinate via radio aggirano i palazzi o ci passano dentro per prendere il nemico alle spalle o dar man forte alla squadra in difficoltà. Nessuno sembra mai aver problemi di munizioni e tutte le armi a disposizione sembrano funzionare sempre. Ciononostante anche i nostri amici hanno perdite e anche Karim scopre cosa significa perdere un commilitone. Al resto si direbbe che faccia il callo, anche se non sempre va d’accordo con tutti. In fondo il suo reparto è stato messo su in pochi giorni e non sempre le motivazioni e le personalità del gruppo sono coerenti con le sue. Per fortuna i capi sono esperti e sanno trattare con i loro uomini: come in tutte le milizie tribali, le gerarchie nascono sul campo e non esistono sergenti. In più, ci sono forme assembleari dove tutti i guerrieri riuniti in circolo discutono dei problemi, una specie di consiglio degli anziani allargato. Sono tradizioni ancestrali, ma funzionano anche oggi.

Il salto di qualità Karim lo fa quando gli viene proposto di diventare un cecchino. Sull’argomento c’è ormai una ricca letteratura e cinematografia, quindi inutile dilungarsi, com’è inutile riportare le pagine dove si parla di munizionamento, tacche di tiro e correzioni balistiche. Karim è comunque freddo e preciso nel suo lavoro. Rimorsi? Pochi. Ecco un suo commento: “così il nazista domani non ucciderà il bambino ebreo”. E vai!

Alla fine, alla scadenza del visto turistico di tre mesi, “Marcello” (il suo nome di battaglia) potrà riavere il suo cellulare (intasato di messaggi) e riprenderà l’aereo da Istanbul. Tanto abbiamo capito che quella frontiera è un colabrodo a corrente alternata. Come abbiamo capito che – volontario per la libertà, mercenario, contractor o foreign fighter – chiunque può comprare un biglietto low cost e andare a combattere per qualche mese le guerre che gli eserciti regolari non sanno o non vogliono fare. Che armi e munizioni non mancano da nessuna parte, e in questo papa Francesco ha ragione da vendere. Ragione che sembra ormai merce sempre più rara.

Nota: l’autore donerà parte dei proventi del libro alla ricostruzione di Kobane. Il sito di riferimento, www.helpkobane.com non funziona, ma cercando “help Kobane” su google ci sono siti alternativi.

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Il combattente. Storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’Isis
Karim Franceschi, Fabio Tonacci
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2016, pp. 350.

Prezzo: € 17,00

EAN: 9788817085540

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I Conflitti dopo l’11 settembre

Nei conflitti che si sono susseguiti si è avuta una deriva che non comporta l’uso di fare prigionieri e le vittime collaterali non sono un’eccezione, ma una consuetudine dovuta alla fretta o come sadico monito.

Una vittima collaterale di un drone statunitense è stato Giovanni Lo Porto ucciso, agli inizi del 2015, in un raid in una zona tra Pakistan e Afghanistan.

Conflitti più che guerre, senza un campo di battaglia circoscritto, dove il nemico può essere di fronte come alle spalle o ai fianchi.

Una sfida fatta più come un’esibizione muscolare, dove da una parte c’è chi arriva uccide e si dilegua e l’altra evita il contatto fisico con le vittime grazie alle nuove tecnologie da videogame.

Sembra di assistere da una parte alla guerra dei cent’anni con spadoni e saccheggi fronteggiare dall’altra gli effetti speciali alla George Lucas di Guerre Stellari.

Duellanti anonimi che operano nell’anonimato, tra la popolazione civile, senza farsi riconoscere, per una guerra innominabbile che ha fatto, dall’11 settembre 2001, un milione e 300mila le vittime, dati raccolti dall’International Physician for the Prevention of Nuclear War, Nobel per la pace nel 1985, che vengono ritenute per difetto, non conteggiando i conflitti più recenti di Libia, Siria e l’ultima a Gaza.

Guerre al terrore o umanitarie, all’Occidente e ai crociati, ma in sostanza il tutto si riduce per l’Occidente a un continuo rincorrere le visionarie follie di emiri e calliffati islamici: una vendetta continua con vittime collaterali di piloti virtuali che operano dall’altra parte del Mondo, mentre per i fanatici senza divisa, impegnati ad insinuare il terrore tra la popolazione, è una prassi mietere vittime senza distinzione.

Se da una parte il loro colpire è casuale, finalizzato a fare più morti possibili, senza alcuna “attenzione”, dall’altra si scegono bersagli da colpire con droni o bombe “intelligenti”.

Due epoche allo scontro, per due differenti visioni della società, per scoprire che la Religione non è più l’oppio dei popoli, ma l’adrenalina per un conflitto permanente.

In tutto questo chissà se Kant, criticando la ragione per far posto al trascendentale, avrebbe sospeso il sapere per far posto alla fede?

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Islamia: Mentre si distrugge la storia

Mentre il saccheggio e la distruzione nella culla della civiltà assiro-babilonese continua nelle zone sotto il controllo dei fanatici dell’Islamia, per la gioia dei trafficanti e dei collezionisti poco onesti di reperti archeologici, a Bagdad riapre il Museo nazionale iracheno.

Un Museo che ha atteso dodici anni per riaprire, dopo un notevole sforzo di ricostruzione e nel recupero di quasi un terzo dei 15mila reperti rubati nel 2003, se non con la indulgenza, sicuramente con l’indifferenza delle truppe statunitensi che, pur avevano occupato Baghdad, non hanno ritenuto strategico proteggere il patrimonio del nono museo del Mondo.

Una razzia che ha alimentato il mercato clandestino dalla Giordania agli Usa, dalla Svizzera al Giappone, sino all’utilizzo spregiudicato di eBay, che l’Fbi ha cercato di porre rimedio.

Ora questi preziosi manufatti di vetro, terracotta, metallo e avorio, oltre a pergamene e pietre, tornano ad essere esposti per testimoniare 7 mila anni di storia dell’umanità.

Una ricostruzione iniziata già nel 2005 con il protocollo d’intesa tra il Ministero degli Affari Esteri e il Consiglio Nazionale delle Ricerche, per la realizzazione del Museo Virtuale, e che non aveva alcuna ambizione di sostituire quello fisico di Baghdad, ma un’occasione per ricomporre una collezione ideale, con una selezione delle opere più significative del territorio iracheno e anche con manufatti custoditi nei musei di tutto il mondo.

Il Museo di Baghdad non è stato l’unica vittima di saccheggio, altre vittime sono seguite: in Siria come in Libia o in Egitto, alimentando un mercato grazie anche alla guerra iconoclasta del califfo, per tornaconto non solo dei mercanti senza scrupoli ma anche per finanziare il suo fittizio Stato islamico.

I Talebani con i Buddha, il saccheggio del museo di Baghdad sotto “occupazione” statunitense, Boko Haran che avversa e inveisce contro la cultura occidentale, il rogo della biblioteca di Timbuctu sono solo alcuni episodi per sradicare la memoria o solo per eliminare degli elementi di confronto tra culture.

Nella Germania nazista si metteva al bando l’arte “degenerata” delle avanguardie, per poi trafugarne le opere per la delizia dei gerarchi. I libri, ancor più pericolosi dell’arte delle immagini, sono sempre stati la vittima prediletta degli autoproclamati guardiani della moralità, siano governi o cittadini in consigli scolastici.

Uno sfogo su FaceBook grida: “Continuano questi imbecilli, violenti, maschilisti ed estremisti maomettani a distruggere il passato dell’umanità e della storia dell’arte – E’ toccato all’Assira Nimrud del 1000 a.c le ruspe radono al suolo le nostre radici. Sappiamo che è una provocazione ma fino a quando è tollerabile?”

Opere d’arte trafugate, magari dopo essere state distrutte “pubblicamente”, aree archeologiche rase al suolo – bulldozing – per magari aprire ad una futura speculazione edilizia, conquistare complessi petroliferi e di raffinazione, per vendere clandestinamente gli idrocarburi, sono alcune delle fonti di finanziamento per i gruppi terroristici.

Ogni prodotto non conforme alla personale idea di religione viene bandita e distrutta, ma anche sradicata dal luogo per essere venduta. Questa non è una guerra di culture, ma alla cultura globale.

Custodi della moralità che si alleano a produttori e trafficanti di droga per finanziarsi e colpire l’Occidente corrotto, ma anche per non farsi mancare nessuna comodità, neppure la Nutella, di cui tutto si può scrivere e dire, ma di certo non si può ritenere un prodotto della cultura islamica.

Terroristi ben lontani dalla vita “ascetica” di un Osama bin Laden, ma ben vicini all’adagio: Predicare bene e razzolare male.

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Medio Oriente: Apprendisti stregoni

Ricordate Fantasia, il film di Walt Disney dove c’era anche Topolino apprendista stregone? Ebbene, i suoi discepoli oggi sono tanti, tragicamente pasticcioni e incapaci di frenare gli sviluppi delle reazioni a catena che hanno incautamente provocato.

Ma passiamo ai fatti. L’Isis o Califfato che dir si voglia, ha effettivamente spiazzato gli analisti. Una volta raggiunta la massa critica, un movimento politico esplode in tutta la sua dinamica aggressività, è normale. Ma perché nessuno se ne era accorto prima? Evidentemente erano stati sottovalutati i segnali, oppure i protagonisti sono stati capaci di dissimulare le loro azioni. Oppure ancora, era difficile mandare giornalisti in zona. Ma esiste un’altra, inquietante interpretazione: gli apprendisti stregoni hanno perso il controllo della loro creatura. Andiamo per ordine.

Quando i sovietici occuparono l’Afghanistan negli anni ’80 del secolo scorso, gli Statunitensi finanziarono Bin Laden e i suoi, armandoli anche con micidiali missili Stinger che poi avrebbero ricomprato a caro prezzo. In seguito, l’Iran finanziò gli Hezbollah per far sloggiare gli Israeliani dal sud del Libano, mentre gli Alleati invadevano l’Iraq senza pensare che la guerra vera sarebbe iniziata una volta entrati a Baghdad e – quello che è più grave – senza avere un piano preciso per il dopoguerra. Dunque, sono proprio gli Statunitensi ad aver addestrato e armato i Talebani per combattere i Sovietici in Afghanistan. Risultato: una volta andati via i Sovietici, il paese presto crolla e viene conquistato proprio dai Talebani, i peggiori invasori che quel paese potesse avere e soprattutto i peggiori nemici per le forze alleate che cercano da più di dieci anni di ricostruire il paese e modernizzarlo. Noi italiani ne siamo usciti ora, ma dopo 13 anni e 53 militari caduti ancora non sappiamo chi ha vinto: nessuno ce lo ha saputo o voluto spiegare.

Andiamo avanti. Recentemente il governo iraniano ha pubblicamente detto all’Onu che il terrorismo islamico è un pericolo per l’umanità. Niente male per chi ha inventato gli Hezbollah ed ora, nel generale rovesciamento delle alleanze, si trova ad essere un fedele alleato degli Statunitensi nella lotta contro i Sunniti del Califfato. Neanche a dire che è stata proprio la miopia settaria dello sciita Al-Maliki a contribuire allo smembramento dell’Iraq, anche se prima di lui Ali Moussa Sadr era andato contro gli alleati senza avere un piano di lungo termine. Ma se pensiamo che in fondo gli Sciiti e i filosciiti sono da sempre iraniani o filo iraniani, non è difficile vedere in questo conflitto l’antica insofferenza dei Persiani verso gli Arabi, musulmani ma disprezzati da una cultura superiore.

Passiamo ora ai Francesi guidati da Sarkozy, i quali nel 2011 s’intromettono d’iniziativa nella guerra civile libica e ci spingono dentro anche gli altri. Berlusconi è amico personale di Gheddafi, ma in quel momento è troppo debole per resistere alle pressioni degli Statunitensi, i quali inventano persino un nuovo concetto giuridico: la guerra umanitaria preventiva. Alla fine Gheddafi viene eliminato, col risultato di creare un vuoto di potere, di espandere a sud la guerra per bande, di far dilagare l’esodo dei migranti verso l’Europa e spaccare il paese in due parti più o meno strutturate, Tripolitania e Cirenaica – una delle quali tendenzialmente islamista – più un enorme deserto crocevia di traffici di ogni genere. Attualmente, in mancanza di un vero procedimento democratico, ci limitiamo ad appoggiare i signori della guerra meno islamizzati o più affidabili, concetto relativo in una nazione gestita tradizionalmente da una quindicina di clan tribali. Il guaio è che noi italiani le coste libiche le abbiamo proprio davanti. La famosa quarta sponda per ora porterà solo guai.

Ma torniamo allo sciita Al-Maliki, presidente dell’Iraq, che riesce a scontentare e dividere il paese sbilanciando il potere a favore della maggioranza sciita e provocando l’unione dei Sunniti a parte del Califfato, realtà stranamente emersa dal nulla ma subito divenuta potente protagonista sulla nuova scena storica. Erano stati spesi dagli Statunitensi 25 miliardi di dollari per ricostruire l’esercito iracheno, che si è decomposto in pochi giorni, facendo finire armi ed equipaggiamenti moderni in mano nemica. Tanto valeva dividere subito l’Iraq in tre stati: sunnita, sciita e curdo.

Due parole anche per Israele, che in anni recenti ha indebolito l’OLP solo per vedere una protesta palestinese sempre più radicalizzata e la frontiera con il Libano gestita dagli Hezbollah. Ne valeva la pena? Erano queste le aspettative della pur esperta e scaltra diplomazia israeliana? Sicuramente in israele contano molto gli equilibri politici interni, ma tutto ha un prezzo.

In ordine di tempo, seguono i Turchi, la cui politica neo-ottomana ha finora appoggiato l’ISIS in funzione antisiriana, sperando che si eliminassero anche i Curdi presenti in loco. Ora il governo di Erdogan lascia passare i guerrieri nati in Europa che vanno ad arruolarsi nelle file dell’ISIS. Ufficialmente la Turchia è un fedele alleato dell’Occidente nella lotta al terrorismo, ma non quando si tratta di dar fastidio ai vicini. Miglior figura fanno i Curdi, che in effetti riescono a contenere l’offensiva dell’ISIS sia a Kobane che nel Kurdistan iracheno. E soprattutto, difendono sé stessi.
Sempre in Siria, riecco gli Statunitensi che, dopo aver finanziato l’opposizione moderata al regime di Assad, scoprono che questa si è unita all’ISIS in alleanza tattica contro il comune nemico, col risultato di eliminare qualsiasi opposizione se non moderata, almeno civile.

Nel frattempo i separatisti ucraini filorussi sono stati armati sottobanco dai Russi, anche se questi negano. Come in Crimea, i miliziani hanno stranamente tutti lo stesso fucile e le stesse giubbe, anche se prive di distintivi. Finora ha funzionato, ma non è detto che il controllo su di loro sia eterno ed efficace.

Infine, Arabia Saudita ed emirati vari, i quali prima finanziano i movimenti islamisti più fondamentalisti e poi temono che la loro espansione minacci la base del proprio potere. E’ curioso vedere l’Arabia Saudita o l’Oman da entrambe le parti del conflitto: come finanziatori di moschee wahabite e come alleati degli Statunitensi contro il terrorismo dell’ISIS. Curioso perché in casa loro quei regimi portano avanti idee molto simili a quelle dei loro nemici. Nemici del loro potere.

Quello che quasi diverte poi è la faccia tosta con cui i presidenti di Turchia e Niger partecipano alla grande manifestazione a Parigi in favore di Charlie Hebdo e della libertà di espressione e poi vietano la diffusione del giornale o delle sue vignette nei loro paesi, non prima però di aver scattato la foto ricordo con i grandi della Terra.

Islamia #NotInMyName La campagna Non in nome mio lanciata da musulmani 6a43421b-2e23-41e8-80f3-6ac33815d973

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Medio Oriente: Un Buco Nero dell’islamismo

L’islamia: preda e predatrice

Siria: Il miraggio della Pace

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